• Rimini 150. Dal 1861Esce oggi 11 novembre l'intervista immaginaria di Giulio Giorello a Voltaire, che comincia: "Monsieur le philosophe...".

     

    La settimana scorsa Sergio Romano, introducendo il trattato "Sulla tolleranza" dello stesso Voltaire, lo definiva invece "giornalista" ("anche se la parola può sembrare riduttiva") perché "non fu mai un filosofo, nel senso corrente della parola". Anche se, osserva, lo stesso Voltaire si sarebbe definito "philosophe".

    Silvia Ronchey nelle recenti "Vite più che vere di persone illustri" (raccolte sotto il titolo de "Il guscio della tartaruga"), lo chiama "un aristocratico del pensiero" perché così ritiene che lui si considerasse. E lo riassume in questi termini: "François-Marie Arouet fu un avvocato, un libertino, un detenuto, uno speculatore, un viaggiatore, un polemista, un cortigiano, un filosofo, un commediografo, un tragediografo, un narratore. Si chiamò anche Voltaire".

    Forse il problema di tutte le biografie sta qui, in quell'essere "anche" quello che poi una persona appare ai posteri.
    L'editore di Ronchey spiega alla fine del libro il senso del titolo ("Il guscio della tartaruga"): il guscio è più largo del corpo della tartaruga ed è coperto da un mosaico di scaglie. "Anche queste vite sono un mosaico".
    Come (aggiungiamo) forse quelle di tutti noi. Il guaio della Storia è che spesso delle vite ordinarie si perdono le tessere, e nessuno si cura di recuperarle.

    Per le esistenze straordinarie, invece, si fa a gara a cercar etichette. Ronchey insegna che è meglio abbondare nell'elenco.
    Giorello, che bisogna adottarne una per semplificare le cose, usando l'immagine più semplice e per questo efficace.
    Invece Romano cancella tutto il nuovo che la nuova filosofia dei nuovi filosofi del Settecento suggerisce. Il "giornalista Voltaire" agli occhi di Romano ha però una missione politica da compiere, quella di insegnare a contemporanei e posteri il valore della tolleranza, negata dal processo a Jean Calas, accusato d'aver ucciso il figlio per non farlo convertire alla fede cattolica, e poi condannato a morte.

    Recente è anche l'edizione del trattato curata da Sergio Luzzato, in cui si racconta come nel 1949 esso divenne un "testo di riferimento" dell'allora Pci, per la traduzione che ne fece Palmiro Togliatti.
    Lo storico Luzzato scrive un'intelligente pagina provocatoria che conclude efficacemente: "il paradosso italiano di un Voltaire confiscato dai comunisti", deriva dalla "relativa indifferenza (per non dire l'altezzosa sufficienza) con cui il liberalismo nostrano", tutto "impregnato di umori spiritualisti", aveva guardato "alla materialistica epoca dei Lumi".

  • Nell'appena uscito Atlante della letteratura italiana, I, Dalle origini al Rinascimento (Einaudi), l'articolo di C. S. Celenza-B. Pupillo intitolato Le grandi biblioteche pubbliche nel Quattrocento (pp. 313-321) ricorda anche la biblioteca malatestiana riminese collocata nel convento di San Francesco, con l'annesso lascito di Roberto Valturio ed il conseguente spostamento (1490) al piano superiore nello stesso convento.
    È molto importante l'inserimento della nostra malatestiana, che fu modello di quella cesenate, e che è la prima biblioteca pubblica italiana. Come da vari anni stiamo spiegando al vento riminese. Riportiamo di seguito la documentazione da tempo presente su Internet. Leggetela in questo blog.


  • 1430.
    Se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l'Ambrosiana di Milano (1609) e l'Angelica di Roma (1614), a quella riminese di Francescani e Malatesti del XV secolo spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto ad essere pubblica, partendo dal documento del 1430. E di essere sorta anteriormente a quella di Cesena che infatti, si apre soltanto nel 1452.Il progetto di costituire una biblioteca aperta al pubblico e utile soprattutto agli studenti poveri, è testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue una intenzione dello zio Carlo (morto l'anno prima).

    1475.
    Testamento di Roberto Valturio che lascia la propria biblioteca alla «liberaria» (libreria) del convento dei frati di San Francesco di Rimini «ad usum studentium et aliorum fratrum et hominum civitatis Arimini», con la clausola che i frati facciano edificare «unan aliam liberariam in solario desuper actam ad dictum usum liberarie».

    Dal documento (pubblicato per la prima volta da ANGELO BATTAGLINI nel 1794 in Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta), ricaviamo:
    1. Nel 1475 esiste già una «liberaria» del convento di San Francesco.
    2. Questa «liberaria» è posta al piano terreno.
    3. Essa «liberaria» (scrive A. Battaglini) era già diventata copiosa a spese di Sigismondo, ma giaceva «in piano a terra pregiudicevole a materiali sì fatti» (Battaglini, op. cit., p. 168).
    Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490 (v. sotto ad annum).
    Conclude Battaglini che Rimini «dovette dunque non meno a Sigismondo suo Principe, che al suo cittadino Roberto Valtùri [Valturio] l’acquisto fatto d’una pubblica Biblioteca» (Battaglini, op. cit., p. 170).
    Sigismondo, come ricorda per primo Valturio, dona alla biblioteca monastica francescana, progettata dallo zio Carlo Malatesti, «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline» [cfr. R. VALTURIO, De re militari, XII, 13].

    1490.
    L’iscrizione del 1490 (e non 1420 come in un primo tempo era stata letta), ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello a terra, «pregiudicievole a materiali sì fatti» (Battaglini, op. cit., p. 169). Questa iscrizione è tuttora conservata nel Museo della Città di Rimini.
    Di questa iscrizione non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come «sum» quanto va trascritto come «summa».
    Il testo latino è questo: «Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490».
    Ecco la traduzione: «Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490».

    Pandolfo IV, 1475-1534, è figlio di Roberto Novello (1442-1482), a sua volta figlio di Sigismondo (1417-68).
    Roberto è morto combattendo al servizio della Chiesa. Con lui era Raimondo Malatesti (figlio di Almerico Malatesta e di Amabilia Castracani) che reca a Rimini la notizia della morte del signore della città.
    Galeotto [Galeotto II Lodovico], figlio di Almerico Malatesta (e quindi fratello di Raimondo), è tutore di Pandolfo e governatore di Rimini.
    Giovanni Baiotti da Lugo, frate francescano, è teologo e guardiano del convento di San Francesco.
    Raimondo Malatesti il 6 marzo 1492 è ucciso dai nipoti Pandolfo e Gaspare, figli del fratello Galeotto II Lodovico ricordato nella lapide.
    Il delitto è considerato da Clementini all'origine di tutti i mali che affliggono successivamente Rimini, ovvero «il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori» Malatesti e della loro casa.
    Il 31 luglio 1492 Pandolfo e Gaspare, gli uccisori dello zio Raimondo, sono utilizzati dal padre Galeotto II Lodovico per una congiura contro lo stesso Pandolfo IV e la sua famiglia.
    A mandarla all'aria evitando una strage, ci pensa Violante Aldobrandini, seconda moglie dello stesso Galeotto Lodovico e sorella di Elisabetta, madre di Pandolfo IV.
    In casa di Elisabetta era stato ucciso Raimondo Malatesti quasi cinque mesi prima (il 6 marzo 1492).
    Nella stessa abitazione di Elisabetta è ammazzato Galeotto Lodovico, mentre suo figlio Pandolfo è tolto di mezzo in casa del signore di Rimini Pandolfo IV. Gaspare invece è arrestato, processato sommariamente e decapitato.
    Due mesi e mezzo dopo la congiura fallita e la morte dei suoi ideatori, Violante convola a nuove nozze. Violante era la matrigna di Gaspare e Pandolfo, figli della prima moglie di Galeotto Lodovico, Raffaella da Barbiano.
    Pandolfo di Galeotto Lodovico a sua volta ebbe quattro figli (Carlo, Malatesta, Raffaella, Laura) perdonati da Pandolfo IV a testimonianza della sua volontà di pacificazione all'interno della famiglia e della città.
    Dal 1492 per circa un secolo, gli omicidi politici che abbiamo registrato, continueranno «a far calare sangue», come acutamente osserva Rosita Copioli.

    1560.
    La biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. “Circa” centocinquanta opere sono nella prima fila, “circa” centoventitre nella seconda. Ovvero “circa” 273 opere in tutto.

    Questi dati risultano da un inventario del 1560 (p. 346) conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da Giuseppe Mazzatinti in un saggio intitolato La biblioteca di San Francesco (Tempio malatestiano) di Rimini, contenuto nel volume «Scritti vari di Filologia» apparso a Roma presso Forzani, Tipografi del Senato, pp. 345-352.
    Il saggio di Mazzatinti è datato «Forlì, agosto 1901».

    1511.
    Ricordandoci attentamente di questo inventario del 1560, prendiamo in considerazione una notizia relativa al 1511, e contenuta in un testo ms. di padre Francesco Antonio Righini (SC-MS 372, "Miscellanea Scriptorum...", c. 284r, Biblioteca Gambalunga di Rimini).
    Righini scrive: dai libri conventuali di San Francesco risulta che la biblioteca era stata trasferita a Roma «sic jubente Pontefice».
    Righini precisa l'anno (appunto il 1511), citando un testo di Paride Grassi relativo al soggiorno riminese presso i francescani del papa stesso, Giulio II.
    (Il testo di Grassi, cerimoniere pontificio, è stato pubblicato nel 1886, Le due spedizioni militari di Giulio II, in «Documenti e Studi» della Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna, I).
    Il passo di Righini forse allude ad un trasferimento parziale della biblioteca francescana, dato appunto che nel 1560 la essa era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna per un totale di “circa” 273 opere.

    XVII secolo.
    Nel Sito riminese di Raffaele Adimari, che esce a Brescia nel 1616, si legge (I, p. 72) che presso il convento francescano dei Conventuali esisteva una «sontuosa, et buona libreria».
    All’inizio del secolo XVII, precisa Antonio Bianchi (Storia di Rimino dalle origini al 1832, Rimini 1997, a cura di Antonio Montanari, p. 146), «della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco», restano soltanto quattrocento volumi per la maggior parte manoscritti.

    Questo «rimasuglio» di quattrocento volumi (in realtà molto meno, “circa” 273, visto l’inventario del 1560), va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perché quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai («deinde in manus salsamentariorum mea aetate pervenisse satis constat»).

    Federico Sartoni (1730-1786), come riferisce Luigi Tonini (Rimini dopo il Mille, p. 94), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo (vescovo di Rimini dal 1627 al 1646) e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.
    Il manoscritto di Sartoni è in BGR, Sc-Ms.1136: SARTONI, FEDERICO COSIMO, Copia di uno zibaldone mss. che era in Casa Sartoni ed ora posseduto dal N. U. Signor Domenico Mattioli, contenente memorie ed avvertimenti per la storia di Rimini... Sta in: TONINI, LUIGI: [Cronache riminesi...] (cc. 222-97). La parte che qui interessa è alle cc. 49-50.

    XVIII secolo.
    Il convento di San Francesco è ristrutturato ampiamente, come documenta il ms. AB 51, relativo alle spese fatte «per la Fabrica del Convento (1762-1764)», conservato in Archivio di Stato di Rimini, Fondo Congregazioni soppresse.


    CONCLUSIONI.

    1. Francesco Gaetano Battaglini nelle sue Memorie sulla storia riminese (1789, p. 281) scrive che nel 1490 avvenne il trasporto della «celebre» biblioteca francescana «a più conveniente luogo», secondo le disposizioni di Valturio.
    In precedenza, aggiungeva Battaglini, la biblioteca francescana era stata «arricchita di codici da Sigismondo, ed accresciuta dalla suppellettile libraria» dello stesso Valturio. (Questo passo è riprodotto da Luigi Tonini nella Storia di Rimini, III, p. 321.)

    2. L’archivio comunale e la biblioteca. Già da epoca anteriore, «apud locum fratrum minorum» (cioè nello stesso convento francescano) si trovava l’archivio comunale (F. G. Battaglini, p. 44). Questo luogo dell’archivio è definito a metà del XV sec. come «sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci» (F. G. Battaglini, ibid.)
    La presenza del pubblico archivio nella sede conventuale, documenta un particolare ed antico rapporto fra l’amministrazione cittadina ed i padri della chiesa di San Francesco, ben anteriore alla nascita di quella «celebre» biblioteca che, anche secondo Battaglini, essendo stata arricchita da Sigismondo, esiste quindi quando questi governa Rimini: dal 1430 assieme ai fratelli Galeotto Roberto (che scompare il 10 ottobre 1432) e Domenico Malatesta Novello; e dal 1433 da solo (mentre Novello diviene signore di Cesena).
    Circa l’archivio, da altra fonte (una cronaca del 1532 firmata da padre Alessandro da Rimini e pubblicata nel secolo scorso da padre Gregorio Giovanardi), ricaviamo:

    a) al tempo di papa Paolo II (1464-71) va a fuoco la sagrestia della chiesa di san Francesco con perdita di mss. «antichissimi ed importantissimi» (si ricordi quanto riportato in F. G. Battaglini circa «sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci»;

    b) il resto dell’archivio, verso il 1528, è dichiarato a Roma da papa Clemente VII (1523-34).

    3. Augusto Campana [1932] nel celebre studio sulle biblioteche italiane, scrive al proposito della presenza dei padri francescani nella biblioteca malatestiana: «È possibile, ma è prudente darlo solo come possibile, “che questa libreria – per servirmi delle parole del Massèra – fosse affidata ai frati di San Francesco”». Prosegue Campana: «Ad ogni modo presso di quelli, verso la metà del quattrocento, dovette stabilirsi una notevole raccolta di libri», poi arricchita da Sigismondo (v. sopra).
    Quindi Campana non mette in dubbio l’esistenza di una pubblica biblioteca malatestiana «ad communem usum pauperum et aliorum studentium», ma segnala che è prudente (seguendo Massèra) considerare possibile una sua gestione da parte dei frati.
    Il che però contrasta fortemente con il testamento di Valturio del 1475 che si rivolge direttamente a quei frati. Se non l’avessero gestita loro, Valturio non avrebbe scritto quanto leggiamo nelle sue volontà (in ben tre stesure), dove sempre si parla della «libreria del convento dei frati di San Francesco».
    Le carte d’archivio parlano chiaramente, e fanno decadere l’osservazione di Massèra e la conseguente cautela di Campana.

    4. Massèra. Riporto il testo integrale di Massèra dal saggio sulla Gambalunga contenuto in «Accademie e Biblioteche d’Italia», 1928, VI, p. 27: «È probabile che questa libreria fosse affidata ai frati di San Francesco, il cui convento era attiguo alla chiesa» poi divenuta il Tempio malatestiano. «Appunto fu Sigismondo ad arricchire la biblioteca dei Conventuali di moltissimi volumi», come attesta Valturio etc.
    Poi Massèra scrive che la lapide «tuttora esistente» attesta «che la sistemazione desiderata ebbe luogo o termine», essendo guardiano Giovanni Baiotti da Lugo.
    A p. 29 Massèra incolpa i Conventuali riminesi d’aver lasciato «disperdere le ricchezze raccolte».
    I frati vendettero liberamente la libreria alla famiglia romana dei Cesi, come pare sostenere Sartoni?
    Forse essi furono costretti non dico dal vescovo romano, ma dalle loro misere condizioni (che risultano da molti documenti conservati in Archivio di Stato di Rimini).
    Certo è che Massèra non conosceva la notizia di Righini del 1511 (la biblioteca era stata trasferita a Roma «sic jubente Pontefice»).

    5. Prima di Cesena. Se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l'Ambrosiana di Milano (1609) e l'Angelica di Roma (1614), a quella riminese di Francescani e Malatesti del XV secolo spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto ad essere pubblica, partendo dal documento del 1430. E di essere sorta anteriormente a quella di Cesena che infatti, si apre soltanto nel 1452 (v. sotto, la scheda «TRA RIMINI E CESENA»).
    La Gambalunga, va aggiunto, è la prima in Italia ad essere «civica» (cioè del Comune).


    TRA RIMINI E CESENA

    I rapporti intercorsi tra Rimini e Cesena a metà Quattrocento, sono documentabili attraverso due edizioni della Naturalis Historia di Plinio.

    1. Il Plinio di Jacopo della Pergola (1446)
    La prima, completata da Jacopo della Pergola a Rimini l’11 ottobre 1446, è stata voluta (secondo Raimondo Zazzeri, 1887) da Sigismondo Pandolfo Malatesti. Il quale poi la donò al fratello Malatesta Novello che la fece inserire nella biblioteca cesenate (S. XI. I).
    Questa notizia di Zazzeri è stata smentita da Enza Savino (I due Plinii Naturalis historia della Malatestiana, in Libraria Domini. I manoscritti della Biblioteca Malatestiana: testi e decorazioni, a cura di a cura di Fabrizio Lollini e Piero Lucchi, Bologna, Grafis, 1995, pp. 103-114), soltanto in base al «fatto che Sigismondo Pandolfo, secondo l’immagine consegnata dalla storiografia locale, non coltivò interessi da bibliofilo né tanto meno da bibliografo con la stessa costanza e passione del fratello».
    L’immagine che Enza Savino riprende di Sigismondo «dalla storiografia locale», è tutto all’opposto della realtà. Abbiamo già visto che Sigismondo, come scrisse Valturio, dona alla biblioteca francescana «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline». (Testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi «che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all’ascolto di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del De rerum natura, da Seneca a sant’Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue Vitae degli antichi filosofi»: cfr. il mio Sigismondo filosofo umanista).
    Non interessa stabilire, cosa del resto difficile se non impossibile, se veramente il ms. S. XI. I sia stato ordinato ad Jacopo della Pergola da Sigismondo. Il dato certo è che esso è stato lavorato a Rimini e che esso poi è finito a Cesena.
    Augusto Campana [1932] ricorda che Jacopo lavorò sia a Rimini sia a Fano. Il che gli suggerisce questa importante conclusione: è possibile supporre che i copisti «fossero scambiati, al bisogno, tra il Signore di Cesena e quello di Rimini».
    2. Il Plinio di Francesco da Figline (1451)
    L’altra Naturalis Historia cesenate (S. XXIV. 5), è opera di Francesco da Figline commissionatagli dal medico riminese Giovanni di Marco («Scriptus et completus per me fratrem Franciscum de Fighino ordinis minorum pro egregio ac prestantissimo artium et medicine doctore Iohanne Marci de Arimino 1451 die 10 maii»).
    Fu lasciata in testamento alla biblioteca cesenate nel 1474 dallo stesso Giovanni di Marco, in precedenza medico personale di Malatesta Novello.
    Nel 1451 la Malatestiana cesenate non era ancora completata. Lo sarà l’anno successivo («la biblioteca fu compiuta nel 1452: M CCCCLII / Matheus Nutius fanensi ex urbe creatus, / Dedalus alter, opus tantum deduxit ad unguem», cfr. Campana).
    Quindi Francesco da Figline non era ancora nella città di Novello che poi lo nomina primo bibliotecario della Malatestiana. Ma era ancora a Rimini. Dove lavora (anche) per Giovanni di Marco il quale come medico era attivo sia a Rimini sia a Cesena.

    I due manoscritti di Plinio documentano dunque un’intesa attività ‘libraria’ riminese dopo il 1430 e prima del 1452 (apertura della biblioteca di Cesena).
    Questa attività è facilmente collegabile alla esistenza della biblioteca dei Malatesti presso il convento di San Francesco di Rimini.
    Per quel lasso di tempo i documenti si trovano, se non ci si dimentica di interpretare correttamente quelli che esistono già, come appunto i lavori ‘riminesi’ di Jacopo della Pergola (1446) e di Francesco da Figline (1451).

     

    FONTE: digilander.libero.it/antoniomontanari/


  • Sino al 10 ottobre 2010 è aperta al Palazzo Ducale di Urbino una mostra documentaria su Federico di Montefeltro, la sua seconda moglie Battista Sforza e la nuora Elisabetta Gonzaga. Ne sono curatori Anna Falcioni, docente di Storia medievale nella Università della stessa Urbino, ed Antonello de Berardinis, direttore dell'Archivio di Stato di Pesaro. A loro si deve l'importante catalogo che contiene pure i contributi di Vincenzo Mosconi, Carolina Sacchetti e Giuseppina Paolucci.

    Dire Montefeltro significa ricordare una fase importante della storia umanistica della Penisola, con un territorio posto al suo centro non soltanto per ragioni geografiche. Lo spiega Anna Falcioni ricordando una celebre affermazione di Federico, secondo la quale "de li denari non feci mai stima se non per spenderli". Siamo nel 1469. E la città vede fiorire una corte che secondo le testimonianze del tempo aveva ottocento bocche da sfamare, ovvero altrettanti "ingegni che aspiravano all'idea del Rinascimento urbinate e del suo simbolo, il palazzo, quale luogo di incontro non solo ideale, ma reale".

    Quella corte non vive in una dimensione locale o regionale, proprio grazie al principe che, da protagonista inquieto ed abile nel contempo, agisce sullo scenario politico italiano. Indossa la "duplice veste di condottiero temuto e rispettato nei campi di battaglia, e di governante saggio, edificatore di pace".

    Battista, donna colta e dalla forte personalità, sa gestire "con straordinario equilibrio" la politica interna ed estera del suo Stato quando il marito è impegnato fuori casa. Cura gli affari di famiglia, investendo in poderi e mulini. Segue la costruzione del palazzo ducale che diventa segno ed immagine delle aspirazioni di dominio da parte dei Montefeltro.

    L'ultimo dei quali, Guidubaldo, sposa nel 1488 Elisabetta Gonzaga, nata nel 1471 da Federico marchese di Mantova e Margherita di Baviera. Anche lei è attenta amministratrice del patrimonio familiare ed attiva nella vita politica. Dopo la morte del marito (1509) sino alla propria (1526), Elisabetta regge le sorti dello Stato assieme ad Eleonora Gonzaga sua nipote.

    Il direttore dell'Archivio di Stato di Pesaro de Berardinis osserva: "Le carte sono conservate proprio per essere indagate e continuano a rivelare sempre nuove sorprese e a svelare inaspettabili tesori". Come dimostrano gli altri scritti ospitati nel catalogo. Carolina Sacchetti tratta delle compagnie di ventura che agiscono "con una forza che anche se al limite della brutalità, rappresentò l'immagine vera del potere militare riflesso su quello politico". Vincenzo Mosconi riferisce sulle "monete urbinati nelle fonti archivistiche", con una notizia che documenta la circolazione ad Urbino di pezzi d'oro d'ogni parte d'Italia, grazie alle paghe riscosse da Federico come condottiero.


  • Rimini 150. Dal 1861Nel 1861 un terzo dei cittadini vive delle industrie e delle attività portuali, settori messi in ombra dallo sviluppo del turismo. Avviato nel 1843 dallo Stabilimento balneare. Il primo luglio 1873 apre il Kursaal, con annesse la Piattaforma e la Capanna svizzera.
    Scampato pressoché indenne alle bombe dell’ultima guerra, è distrutto dalla volontà di scrivere una nuova pagina politica durante la ricostruzione. Era «la scomoda memoria storica di una attrezzatura d’élite» (G. Gobbi Sica).
    Lo demoliscono gruppi di disoccupati guidati da sindacalisti. Stessa sorte per la parte sopravvissuta del teatro Vittorio Emanuele II. Il sindaco del 1948 Cesare Bianchini (Pci) dice che Kursaal è «una bruttura» da eliminare.

    L’inondazione del Marecchia nel 1866 danneggia tutte le strutture dello stabilimento. Il 21 settembre 1868 il Consiglio comunale vota a favore della gestione pubblica dei bagni. Ne soffriranno soltanto le casse pubbliche.
    Nel 1876 nasce l’Idroterapico (demolito nel 1929). A Riccione nel 1878 sorge un ospizio marino, analogo a quello riminese del 1870 per bambini scrofolosi, vicino all’Ausa.

    Dal 1885 ai nobili ed ai ricchi borghesi il Comune inizia a cedere gratuitamente od a basso prezzo, appezzamenti e tratti di spiaggia acquistati dallo Stato (F. Silari).
    Il Comune crea la nuova industria turistica. I privati si dedicano all’edilizia, un considerevole incremento delle ville fra 1882 e 1902. Esaurita la prima fila comincia l’edificazione interna.

    Nasce un nuovo modello di liberalismo: municipalizzare le perdite dei privati, e contemporaneamente promuoverne le rendite (G. Conti).
    Il Comune non può intervenire per mancanza di mezzi sull’altra faccia di Rimini, caratterizzata dalle condizioni arretrate di vita nella città vecchia e nei borghi.
    Quello di San Giuliano, racconta Achille Serpieri, è «minacciato da un lato dalle fiumane, dall’altro dai flagelli dei mostri dove si annidano signore la tisi, la scrofola e il tifo».

    Su «Il Nettuno», periodico fondato da Domenico Francolini, il 15 agosto 1873 si parla delle «abitazioni dei Poveri», «semenzai di miasmi pestilenziali, case che avvelenano per tutta la vita il sangue, massime ai bambini con la scrofola e colla tisi»: «non luce, non aria, umidità senza fine, e angustia tale che le celle dei condannati sono assai più comode».
    Gli «abitatori di queste bolge infernali, massime i ragazzi» appaiono «squallidi, macilenti, cogli occhi infossati e col pallor della morte sul viso».