• Rimini ieri

  • Il mio 1943 è quello di un bambino di pochi mesi (sono nato alla fine dell'agosto precedente), che ne ha avuto contezza attraverso i racconti di famiglia.
    Diceva mia madre Maddalena Nozzoli che gentilmente a casa nostra, in Palazzo Lettimi, posto al centro della città a due passi dal Tempio di Sigismondo Malatesti, in quel gennaio arrivò la polizia politica a perquisire l'abitazione, in relazione all'arresto di suo fratello Guido, preso a Bologna, dove svolgeva servizio militare.
    L'imputazione era di attività sovversiva mediante la distribuzione di volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere". Aveva fatto la spia un amico o conoscente, di cui ho saputo soltanto che Guido una volta lo incontrò a Roma in un bar, lo guardò fisso in volto, e quello si mise a tremare rovesciandosi addosso il caffellatte che stava sorseggiando. Parole dello stesso Guido.
    (L'espressione "ho avuto contezza", era un modo tipico di esprimersi dello zio, non una stravaganza mia.)
    Tra i capi d'imputazione, oltre al reato di "attività politica contraria al regime", c'era pure quello di essere detentore di libri proibiti dal regime, come il "Tallone di ferro" di London o "La madre" di Gor'kij, libri che peraltro "venivano venduti anche sulle bancarelle". Lo raccontò lui stesso in una manifestazione intitolata "Autobiografia di una generazione", i cui atti con lo stesso titolo sono stati poi pubblicati a stampa (1983).
    Talora, quando compro qualche libro alquanto compromettente, come quelli un po' scottanti di Storia passata o recente, mi viene da pensare a quell'imputazione, al fatto che potremmo anche noi essere accusati di leggere testi non graditi al Potere politico.

    Fonte di questa pagina: un mio articolo del settimanale "il Ponte" (09.12.1990), ed il volume "I giorni dell'ira".

    Antonio Montanari
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  • L'agosto di passione

    Perché le SS coprono i brigatisti neri sull'uccisione di Duilio Paolini? L'arresto di sei sammarinesi salvati poi dalla fucilazione. I repubblichini vorrebbero rastrellare sul Titano i giovani italiani sfollati. L'uccisione di un russo aggregato ai nazisti, e la rappresaglia tedesca.


    I giorni dell’ira, 3. "il Ponte", 07.01.1990

    9. Il 12 agosto.
    Riprendiamo il racconto dell'ex Capitano Reggente di San Marino Francesco Balsimelli sull'agosto 1944 che «non trascorse immune da complicazioni e da pericoli».
    Il giorno 6, sulla strada tra Dogana e Serravalle erano stati rinvenuti dei manifestini «incitanti alla rivolta contro i tedeschi». Erano sparsi sulla carreggiata ed affissi alle piante. Fu un fatto, scrive Balsimelli, «che costituiva un grave rischio per l'incolumità della nostra neutrale Repubblica».
    Nella notte del 10, ignoti spacciandosi per partigiani, avevano svolto azioni di estorsione a Montegiardino».
    Il giorno 12, c'è l'arresto di sei sammarinesi che saranno poi liberati, per ordine delle SS, il 25 dello stesso mese. È un episodio al quale abbiamo già accennato, ma su cui occorre ritornare.
    Leggiamo la testimonianza di Federico Bigi. Il sammarinese Luigi Giancecchi detto Chicone viene arrestato quel 12 agosto «da un gruppo di SS tedesche e da brigatisti neri italiani, lungo la Costa, una scorciatoia che unisce Borgo a Città, mentre stava consegnando del materiale di propaganda antitedesco ad un giovane italiano che poi risultò essere un agente provocatore e che mi risulta sia stato fucilato dopo l'arrivo degli alleati», racconta Bigi.
    Dopo Giancecchi, «le SS ed i brigatisti prelevarono dalle loro abitazioni anche Ermenegildo Gasperoni, i fratelli Giuseppe ed Armando [Pier Gaetano, n.d.r.] Renzi e Nazzareno Arzilli e li portarono» al Comando della Milizia sammarinese. Bigi dimentica il sesto nome, quello di Vincenzo Pedini.
    Gasperoni racconta quei momenti. Un capitano tedesco lo interroga: «Gentilmente mi chiese se ero stato nelle Brigate internazionali in Spagna... Alla mia risposta affermativa mi chiese se a San Marino vi fossero formazioni partigiane o di prigionieri alleati nascosti. Risposi negativamente, affermando che essendo la Repubblica di San Marino un Paese neutrale, non vi era motivo di avere un'organizzazione partigiana».
    Non ci sono neppure partigiani italiani nascosti sul Titano, aggiunge Gasperoni: «Alla mia risposta negativa insorse un tenente dei battaglioni M, presente all'interrogatorio, gridando ferocemente che io mentivo; chiese al Capitano di consegnarmi nelle sue mani, che avrebbe trovato lui il modo di farmi parlare».
    Il capitano tedesco, laureato in Legge, chiamò i Carabinieri e disse loro: «Gasperoni è vostro prigioniero, con l'esercito germanico non ha nulla a che fare».
    Giuseppe Renzi: «I fascisti volevano portarci in Italia, per fucilarci. Il capo era Paolo Tacchi».
    Bigi conferma: le SS volevano portare via i sei arrestati, «nel qual caso la loro sorte era facilmente prevedibile» Il capo delle brigate nere Paolo Tacchi, dice Bigi, era «molto più odioso del tedesco».
    Per tutta la notte andò avanti una lunga trattativa condotta soprattutto dal Plenipotenziario Ezio Balducci: «Alle cinque del mattino, dopo estenuanti colloqui, il Comandante delle SS, nonostante che il Capo delle Brigate Nere protestasse energicamente, si convinse a non esigere la deportazione dei nostri concittadini, a condizione però che noi li avessimo trattenuti in carcere», conclude Bigi.


    10. La trebbiatrice bruciata.
    Era l'alba del 13 agosto 1944. La sera prima una trebbiatrice al servizio dei tedeschi, in località Fornaci Marchesini a Rimini, è data alle fiamme. È un atto di sabotaggio contro razzie, rubamenti e requisizioni dei tedeschi. I nazisti, nel corso dell'estate, sono diventati sempre più prepotenti. A tutto ciò, il Comitato di Liberazione Nazionale ha reagito con un appello del primo luglio: non trebbiate il grano, per impedire che i tedeschi se lo prendano e lo portino in Germania.
    Lo stesso 13 agosto, militi repubblichini e soldati tedeschi guidati da Paolo Tacchi circondano la base partigiana di via Ducale a Rimini, da cui era partito il commando dei Gap (Gruppi di azione patriottica) che aveva incendiato la trebbiatrice, ed arrestano Mario Capelli, Luigi Nicolò ed Adelio Pagliarani.
    Intanto a San Marino si forma una delegazione composta da Federico Bigi, Marino Beluzzi ed Ezio Balducci per trattare con le SS di Forlì la liberazione dei sei arrestati.
    A Rimini il 14 agosto Capelli, Nicolò e Pagliarani sono sottoposti dai tedeschi a processo sommario. Il verdetto, condanna a morte.
    Padre Callisto Ciavatti chiede al Comando tedesco di «commutare la pena di morte nella deportazione», e riceve «la promessa di rivedere la cosa». È lo stesso frate a raccontare questi particolari. Il suo confratello padre Amedeo carpani dichiarò: «Non ci fu niente da fare, anche perché Tacchi che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli».
    Ma Tacchi voleva comandare anche a San Marino, come precisa Bigi che lo definisce (si è già visto) «molto più odioso del tedesco», ovvero il ricordato capitano germanico.
    Il 16 agosto, dalla forca eretta in piazza Giulio Cesare a Rimini, pendono i corpi senza vita dei Tre Martiri.


    11. Ritorsione sul Titano.
    Il giorno 20, in territorio sammarinese «erano apparsi razzi segnalatori [...] senza che le pattuglie sguinzagliate in ricognizione riuscissero a scoprire traccia degli incauti» che avevano agito, scrive Balsimelli.
    L'ex Reggente Balsimelli accusa apertamente Paolo Tacchi per un episodio accaduto il 25 agosto: «... forse per ritorsione [...] giungeva a San Marino Paolo Tacchi da Rimini accompagnato da alcuni ufficiali delle SS con la pretesa tante volte ventilata di procedere ad un rastrellamento degli innumerevoli giovani italiani quivi sfollati».
    Il «terrore di Rimini», come la gente chiamerà Tacchi, voleva diventare pure il terrore di San Marino.
    «Paolo Tacchi fu uno dei numi tutelari dei repubblichini sammarinesi», ci dichiara il prof. Cristoforo Buscarini. Il quale ci mostra una pagina di Alvaro Casali in cui si parla di tacchi come di un «criminale».
    Per l'episodio del 25 agosto, a difendere Tacchi è ancora una volta il Plenipotenziario Balducci. Nel corso del primo processo al ras repubblichino, nel dopoguerra, Balducci testimoniò che il governo sammarinese era stato avvisato dal colonnello tedesco Christiani dell'intenzione che costui aveva «di effettuare un rastrellamento con 1.500 uomini sul Titano».
    Balducci parla con Christiani alla presenza di Tacchi di cui aveva chiesto la collaborazione a favore di San Marino, «ricordandogli i trascorsi studenteschi nella Repubblica», Balducci in tribunale spiegò che Christiani fu così convinto «a telefonare ai suoi superiori, affinché rinunciassero al rastrellamento», e che alla fine Christiani gli comunicò: «È tutto rinviato».
    San Marino era stata salvata in extremis da Tacchi, secondo Balducci. Era il 25 agosto, ed i nostri tre protagonisti si trovavano a Rimini.
    Come mai, lo stesso giorno, secondo il racconto di Balsimelli, Tacchi sale sul Titano per un rastrellamento di giovani sfollati?
    Ancora una volta, le dichiarazioni di Balducci si scontrano con altre ricostruzioni.
    Ma Balducci, chi era? Così lo descrive lo storico Amedeo Montemaggi: «già fascista ed amico di fascisti», aveva molte conoscenze nella Repubblica di Salò. Dal 28 ottobre 1943, è Ministro Plenipotenziario della Repubblica prsso gli Stati belligeranti. Prima di quel giorno, Balducci era in esilio: nel 1934, si era messo in urto con i fratelli Manlio e Giuliano Gozi, che comandavano a San Marino in quegli anni e che «per liberarsi di lui» lo avevano accusato di complotto contro lo Stato e fatto condannare a venti anni di lavori pubblici.
    Montemaggi parla di un ascendente di Balducci su Tacchi. Bigi racconta dell'odio che molti repubblichini avevano nei confronti di Balducci, considerato un traditore. Ed aggiunge: «Era di una capacità diplomatica e manovriera enorme». Tanto che quel 25 agosto riesce a risolvere con il capitano Kurt Schutze, comandante delle SS di Forlì, il caso dei sei arrestati a San Marino il 12 agosto, che così poterono ritornare liberi.
    25 agosto, si è detto. Pochi giorni prima, il Commissario di Pubblica Sicurezza di Rimini ha inviato al federale di Forlì un rapporto in cui dichiara che la cattura dei tre partigiani impiccati il 16 «è stata opera personale della intelligente ricerca del Segretario Politico della città di Rimini», cioè di Paolo Tacchi, «coadiuvato da elementi della Feld-Gendarmeria tedesca».
    Nella stessa notte tra 25 e 26 agosto, inizia l'attacco alla Linea Gotica.
    Il 31 agosto, la «carovana» di repubblichini abbandona la nostra città. Anche Paolo Tacchi fugge da Rimini.


    12. La banda Stacciarini.
    Intanto,il 29 agosto, la delegazione sammarinese che aveva trattato con il capitano Schultze, invia ai Capitani Reggenti il suo rapporto, dove appare il nome di Duilio Paolini. Secondo le SS, il sarto era stato un delatore. Dopo l'orrore della sua morte violenta, ecco apparire l'infamia di una falsa accusa.
    Riproduciamo alcuni passi della relazione ai Capitani Reggenti, che riferisce le opinioni di Schultze: «Il Comando SS di Forlì è informato che nella zona di Montemaggio, Montelicciano e Montegrimano e regione limitrofa si trovano nuclei di partigiani. Nella zona suaccennata scorrazza la banda composta di non meno trenta partigiani, al comando del già famoso Stacciarini».
    Stacciarini era un giovane, figlio di un «gerarca fascista bastonatore», ricorda Giuseppe Maiani.
    «Fanno parte della banda stessa ex ufficiali del disciolto R. Esercito italiano e fra questi sono gli ex ufficiali Pelluccio Emanuele e Bacchilega», prosegue la relazione: «Informatori al servizio del Comando di Polizia tedesco, che hanno avuto e tuttora mantengono rapporti con queste bande, assicurano che la banda Stacciarini ha avuto l'ordine dal Comando superiore dei partigiani di sconfinare nel territorio della Repubblica ed ivi rifugiarsi in caso di reazione tedesca».


    13. Quale deposizione?
    È a questo punto che appare nella relazione il nome di Duilio Paolini: «Da informazioni pervenute al Comando delle SS e da deposizione del sarto di Montelicciano Paolini, da un mese circa arrestato e pochi giorni fa fucilato, risulta che i Sammarinesi Gasperoni Gildo e Gianfrancesci Luigi sono in contatto con le bande che hanno stanza in prossimità dei confini della Repubblica di San Marino».
    Ecco che, per «sottilissimo e invisbile filo» che talora sembra legare persone e datti tra loro tanto lontani, s'incontra il nome del povero Paolini, infangato dalle SS come un traditore dei propri compagni. Poteva fare nomi, Paolini? «Non conosceva gli arrestati», ci dice Pippo Bartoli. Allora perché le SS parlano di una «deposizione»?
    In quel gioco di reciproci favori, fatti all'insegna di una disumana ferocia che caratterizza più i repubblichini degli stessi nazisti (nonostante postumi tentativi di rovesciare la verità storica), forse le SS vollero mascherare l'omicidio compiuto dalle brigate nere che e seguivano le direttive partite da Salò, come metodo di azione.
    Per fortuna, non tutti i repubblichini erano «odiosi» come Tacchi o quelli che agirono tra Rimini e San Marino. «A Montegrimano, il segretario del fascio era Enzo Pozzi, figlio di un signore, che faceva il vagabondo», rievoca Pippo Bartoli. «Quando c'erano pericoli, ci avvisava. Faceva la spia per opportunismo, ma aveva l'animo buono. Era senza nessuna idea, uno di quelli che sono contro tutti. Rompeva le scatole alla gente. Arrestava i genitori di richiamati alla leva. Dopo la liberazione, Pozzi finì in un campo di concentramento, arrestato dalla Polizia alleata. Fu preso dai partigiani. L'ho salvato io, perchè non aveva fatto nulla di male».
    Non ha mai voluto vendette, Bartoli. Per dare una lezione morale, dice, a quanti negli anni precedenti avevano elevato la violenza a loro credo politico.


    14. Odio chiama odio.
    Vendetta pura e semplice pare essere invece quella che ha colpito Paolini. Hanno voluto punirlo per le sue idee. Non fu un congiurato, non tesseva complotti. Nulla autorizza a parlare di un legame tra la sua cattura da parte dei repubblichini, e gli arresti del 12 agosto a San Marino, che furono uno dei tanti episodi della caccia agli oppositori del fascismo di Salò nella neutrale San Marino.
    Non c'è nessun motivo per credere che la cattura di Paolini abbia permesso di scoprire un complotto antitedesco. Esisteva soltanto una propaganda contro il nazismo che s'intensificava in quei giorni, in cui stavano per arrivare gli Alleati.
    L'avanzata degli anglo-americani cambierà il volto della storia. Prima che gli impavidi repubblichini scappino, alla fine di agosto e che il terrore delle armi disegni di croci le nostre terre, il 29 agosto, proprio tra Montelicciano (dove era stato catturato Paolini) e San marino, accade un altro tragico episodio. Odio chiamava odio.
    Verso le 17, a duecento metri dal confine, è ucciso in un'imboscata un russo, ex prigioniero di guerra, aggregatosi all'esercito tedesco. Scrive Balsimelli che «in seguito a ciò, dalle truppe germaniche immediatamente giunte sul luogo, erano state incendiate per rappresaglia due case», ed arrestate le prime persone trovate nella località.
    Sul numero degli arresti c'è discordanza: Balsimelli parla di otto sammarinese e due italiani, ma poi elenca nove nomi di suoi connazionali. Federico Bigi che partecipò alla trattativa per la liberazione di quelle persone, le ricorda in numero di dodici, tra cui due italiani. Uno degli arrestati, Guerrino Maiani, elenca quindici nomi in tutto.

    Nota bibliografica. Sono tratte dal volume già cit. di Bruno Ghigi «La Repubblica di San Marino, Storia e Cultura, Il passaggio della guerra, 1943-1944», le testimonianze di F. Bigi (pp. 77-86), G. Gasperoni (125-138) e G. Renzi (203-205).
    La testimonianza di E. Balducci è nel cit. volume di A. Montemaggi, «San Marino nella bufera», p. 50.
    Per la storia dei Tre Martiri, cfr. il cit. nostro «Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1946», al cap. 13.
    L'articolo di Balsimelli è lo stesso citato nella scorsa puntata: «La fermezza dei governanti sammarinesi», «il Resto del Carlino», 18.8.1956.

    Al capitolo precedente [n. 2], al capitolo iniziale [n. 1].

    Antonio Montanari



    Giorni dell'ira. Indice
    Rimini ieri. Cronache dalla città. Indice


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  • La caccia all'uomo

    Perché fu catturato Duilio Paolini? I brigatisti neri di Rimini espatriano sul Titano in cerca di antifascisti. Lo strano attentato alla "Topolino" di Tacchi (che però non era a bordo), come pretesto per un rastrellamento a San Marino e forse anche per l'uccisione del sarto di Montelicciano.

    I giorni dell’ira, 2. "il Ponte", 17.12.1989

    5. Cosa dicono le SS.
    Galliano Severi che ha assistito alle torture inflitte dai repubblichini al sarto di Montelicciano, diffonde subito in paese la notizia che Duilio Paolini è stato assassinato. La gente aggiunge altri particolari mai verificati, come quello del cadavere gettato sotto il ponte di Ornaccia, sulla strada per Combarbio.
    Per tutti è un delitto politico delle brigate nere. Una diversa versione dei fatti viene fornita però dalle SS, il 25 agosto, ad una delegazione sammarinese. I nazisti dicono che Paolini è stato arrestato «da un mese circa» e fucilato «pochi giorni fa».
    La delegazione sammarinese è a colloquio con il comandante delle SS a Forlì, capitano Kurt Schutze, per una vicenda a cui il povero Paolini è estraneo. Il 12 agosto, sul Titano, brigatisti neri italiani ed un gruppo di SS, hanno arrestato se sammarinesi.
    Le autorità della Repubblica riescono a non far deportare quei loro concittadini. Dopo una lunga trattativa, conclusasi appunto il 25 agosto, gli arrestati possono tornare liberi.
    Per capire il clima in cui maturò l'omicidio di Paolini ed avvenne la retata dei brigatisti neri sul Titano, bisogna dare uno sguardo d'assieme alla situazione generale della guerra, ed al quadro locale nella zona di Rimini e della stessa San Marino.

    6. Il cerchio si stringe.
    Tra giugno ed agosto 1944 sono i mesi decisivi del conflitto nell'Italia centrale. Il 5 giugno gli Alleati entrano a Roma. I tedeschi ripiegano dietro la Linea Gotica.
    Un fatto europeo, il giorno 6 avviene lo sbarco in Normandia. L'avanzata alleata in Italia procede lungo varie direttrici. Il primo luglio è liberata Cecina, il 12 comincia il bombardamento Usa dei ponti sul Po. Il 14 è liberata Poggibonsi. Il 15 c'è l'attacco verso Arezzo, il 18 i polacchi sono ad Ancona.
    Il 20 luglio, nella Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler in una foresta della Prussia Orientale, avviene l'attentato al führer. Fallisce. Hitler si vendica, facendo uccidere migliaia di militari e di civili 'sospetti'.
    Dal 15 luglio, il governo italiano ha riconosciuto i partigiani «come parti integranti dello sforzo bellico della nazione». Nella notte tra 25 e 26 agosto, inizia l'attacco alla Linea Gotica.
    La fine del nazismo è ancora lontana, ma ormai certa. Non è la propaganda alleata a sostenerlo. Lo pensano ormai anche i fascisti.
    Al Comando tedesco di Rimini, a Villa Danesi, nel giugno 1944 c'è un pranzo di ringraziamento ai medici del nostro ospedale per le cure prestate ai militari germanici. Ricorda il dottor Marino Righi che, alla fine del banchetto, il capo repubblichino di Rimini, Paolo Tacchi, dichiara: «Non capisco come l'asse possa vincere questa guerra. Anzi penso che per noi sia già perduta».
    La lotta partigiana si fa generale in pianura, con azioni rapide di guerriglia. In montagna ed in collina, con operazioni militari.
    Già dal novembre 1943, il partito fascista repubblichino ha ordinato di «passare per le armi» gli «elementi antinazionali al soldo del nemico» che compiano «atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani». È la politica del pugno duro, dopo il tentativo (deriso dagli oppositori interni come «abbraccio universale»), di una pacificazione nazionale.
    Lo compiono «fascisti troppo ingenui o troppo furbi» che (secondo lo storico Arrigo Petacco) andavano «predicando qua e là per l'Italia la necessità "di una assoluta fratellanza fra gli italiani, senza distinzione di partito"».
    Anche a Rimini, il 12 settembre 1943, Paolo Tacchi aveva chiamato a raccolta gli antifascisti del Cln, per un patto di non aggressione che non venne stipulato.
    Dal primo luglio 1944, «tutti gli iscritti regolarmente al PFR di età fra i 18 e i 60 anni e non appartenenti alle Forze Armate repubblicane, costituiscono il corpo ausiliario delle Camicie Nere composto dalle squadre di azione».
    Scrive Petacco: «Le Brigate nere si riveleranno nella loro stragrande maggioranza delle bande di canaglie e di torturatori...», mentre la "carta bianca" del novembre 1943 di passare per le armi gli antifascisti, costituì «l'inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il Paese».
    Sono cose che accadono anche a Rimini.

    7. Tra Rimini e San Marino.
    Alle brigate nere danno manforte i nazisti. E viceversa. Il 26 ottobre 1943, il Commissario prefettizio Bianchini aveva avvisato: «In caso di nuovi atti di sabotaggio comunque compiuti il Comando militare germanico procederà alla deportazione dei cittadini in ostaggio.
    Poi aveva aggiunto che da parte italiana i colpevoli sarebbero stati punti con la pena di morte. Gli italiani, dunque, peggio dei tedeschi. Ai nazisti però non piacerà per nulla lo zelo dei repubblichini riminesi.
    Comunque, tra fascisti di Salò e tedeschi, c'è scambio di favori, in vista di un fine comune, ed in nome di una causa altrettanto comune. Essi sconfinano assieme nella neutrale San Marino, alla ricerca di oppositori politici e partigiani. Le spie sono italiane. La protezione armata è quella germanica.
    Il 18 marzo 1944 a Serravalle, i fascisti riminesi arrestano Giuseppe Babbi, un dc, e lo consegnano alle SS dalle quali sarà portato a Bologna.
    Il 4 giugno, al cimitero di Montalbo, sono catturati dai repubblichini quattro riminesi (Decio Mercanti, Giuseppe Polazzi, Leo Casalboni ed Elio Ferrari), ed un sammarinese, Gildo Gasperoni.
    Li interroga Paolo Tacchi assieme a Marino Fattori. I quattro riminesi sono tradotti a Forlì, dove incontrano anche Luigi Nicolò e Mario Capelli che il 16 agosto, assieme ad Adelio Pagliarani, saranno impiccati a Rimini.
    Mercanti riesce a fuggire verso il 15 giugno durante un allarme per strada, mentre veniva condotto al palazzo di Giustizia.
    Ferrari e Casalboni dovevano essere fucilati il 29 giugno. Si erano già scavati la fossa, quando un bombardamento mise in fuga il plotone di esecuzione. Il frate che li aveva assistiti, li aiutò a fuggire.
    Nell'aprile 1944, è stato arrestato a Riccione un antifascista di Santarcangelo, Rino Molari. Lo uccideranno a Fossoli tra il 12 ed il 13 luglio 1944, assieme ad un riminese, Walter Ghelfi, ed a Edo Bertaccini (detto Fulmine) di Coriano.
    In questi mesi, la rabbia nazista e repubblichina, è al suo culmine. Come belve infuriate per il cerchio della guerra alleata che si stringe attorno a loro, tedeschi e brigatisti neri spargono terrore. Il 12 agosto, un bando di Kesselring prevede rappresaglie contro le popolazioni residenti dove agiscono i partigiani.

    8. Uno strano attentato.
    Francesco Balsimelli rievoca quei giorni dell'estate 1944, quando era Capitano Reggente della Repubblica di San Marino, in un articolo del 18.8.1956 («La fermezza dei governanti sammarinesi», ne «il Resto del Carlino»): «Numerosi e gravi atti di sabotaggio si verificarono nei paesi vicini e nella stessa Rimini, senza che la polizia germanica e fascista riuscissero ad evitarli e a scoprirli, onde le repressioni e le rappresaglie di infame memoria».
    A San Marino, invece, «le cose procedettero con abbastanza calma, nonostante alcune intemperanze da parte di elementi forestieri e nostrani».
    Dietro la formula, fredda e diplomatica, delle «intemperanze», si nasconde la realtà dei partigiani che da Rimini salivano a San Marino per trovare rifugio o per organizzarsi. Senza però ricevere mai un aiuto concreto, come ad esempio un lasciapassare diplomatico.
    Ai primi di luglio, a Serravalle accade uno strano episodio: il «presunto attentato ad un'auto repubblichina entrata in San Marino», racconta Giordano Bruno Reffi che allora era caporale della Milizia Confinaria sul Titano e che nel dopoguerra rivestirà alti incarichi nel governo della Repubblica. La vettura, di proprietà di Paolo Tacchi, aveva a bordo il repubblichino Raffaellini, considerato la spia che aveva fatto arrestare Babbi a Serravalle.
    Reffi racconta di una «scenata» di Tacchi a Raffaellini, perché il federale riminese «sospettava che i colpi che avevano perforato la macchina fossero partiti dall'interno della stessa auto». Raffaellini rispose a Tacchi: «Ma che cosa dici, paolino? Come puoi pensare ad una cosa del genere?».
    Tacchi subito dopo scese a Rimini, ma la sera stessa tornò a Serravalle, con il rinforzo di alcuni repubbichini. Per tutta la notte, Tacchi discusse con il Ministro Plenipotenziario di San Marino Ezio Balducci, su di una possibile rappresaglia da attuare sul luogo dell'attentato.
    Balducci (era ovvio) si oppose in modo fermo, però all'alba (precisa G. B. Reffi), Tacchi egualmente «si portò via delle persone prese fra gli sfollati italiani».
    Nel dopoguerra, Balducci difenderà in tribunale Tacchi dall'accusa di aver compiuto quel rastrellamento, e sosterà che il ras di Rimini se n'era andato senza aver commesso «violenza alcuna». Ma, come si è visto, la testimonianza di Reffi sostiene tutto il contrario.
    Il particolare della «scenata» di Tacchi a Raffaellini, inoltre, toglie ogni valore alla ricostruzione fornita dallo stesso Tacchi al «Carlino» nel 1964: «Casualmente avevo cambiato poco prima la macchina ed i colpi furono diretti contro la mia "Topolino". Della macchina che seguiva uscimmo con le armi in pugno, ma gli attentatori ci sfuggirono».
    Se le cose fossero andate così, Tacchi non avrebbe pronunciato contro Raffaellini la frase ascoltata da Reffi.
    La storia dell'attentato contro il ras di Rimini perde di conseguenza ogni credibilità. Anzi, il particolare della «scenata» contro Raffaellini potrebbe far pensare che, da parte dei repubblichini, ci fosse stata una messa in scena per creare un incidente diplomatico con San Marino e giustificare un rastrellamento delle brigate nere ai danni degli italiani rifugiati in Repubblica.
    Di questa messa in scena avrebbe approfittato lo stesso Tacchi non soltanto subito, quella stessa sera ai primi di luglio, dopo gli spari contro la sua "Topolino", ma anche nei giorni successivi.
    Grazie a quel presunto attentato Tacchi poté accanirsi contro San Marino ed i suoi rifugiati italiani. Ogni atto di violenza commesso dai repubblichini riminesi in territorio sammarinese, poteva giustificarsi con quegli spari di Serravalle.
    Le spie repubblichine sospettavano su tanti ospiti della Repubblica e su abitanti delle zone di confine. Uno degli indiziati è appunto Duilio Paolini. Lo credono un organizzatore di bande partigiane.
    Siamo nella notte tra il 12 ed il 13 luglio, quando Paolini è catturato dalle brigate nere. Lo torturano e forse lo uccidono subito, poi fanno scomparire un cadavere scomodo.
    Gli "amici" tedeschi delle SS hanno tutto il tempo necessario per preparare la versione ufficiale. Paolini è stato arrestato e poi fucilato da loro. Versione comunicata il 25 agosto, il giorno in cui sono liberati i sei sammarinesi arrestati dai brigatisti neri italiani e dai nazisti il 12 agosto.
    Senza gli spari di Serravalle, forse Paolini non sarebbe stato eliminato.
    I giorni dell'agosto 1944 sono cruciali nella lotta politica e militare della nostra zona. Accadono infatti anche altri episodi.
    [Prosegue qui.]

    Nota bibliografica. È tratta dal volume di Bruno Ghigi (curatore ed editore, 1980) «La guerra a Rimini e sulla Linea Gotica dal Foglia al Marecchia», la testimonianza del dott. M. Righi (p. 253). Sono contenute nel volume già cit. «La Repubblica di San Marino, Storia e Cultura, Il passaggio della guerra, 1943-1944», le testimonianze di E. Ferrari (pp. 112-116), D. Mercanti (168-170) e G. B. Reffi (194-197).
    Per le notizie storiche locali, cfr. il nostro «Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1946», ed. il Ponte, Rimini 1989.
    Su E. Balducci, v. A. Montemaggi, «San Marino nella bufera», Della Balda, RSM 1984, alle pp. 24 e 50.
    Su P. Tacchi, cfr. A. Montemaggi, «I rapporti fra nazisti e fascisti e i primi scontri con i partigiani», «il Resto del Carlino», 26.04. 1964.
    Il volume di Arrigo Petacco è «Pavolini», Oscar Mondadori, 1988: cfr. soprattutto alle pp. 166 e 193.

    Antonio Montanari



    Giorni dell'ira. Indice
    Rimini ieri. Cronache dalla città. Indice


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  • «Papà mio, dove lo portate?»

    Nella notte sul 13 luglio 1944, i repubblichini sequestrano e torturano Duilio Paolini, il sarto di Montelicciano. Il suo corpo non sarà mai ritrovato. E la figlia Ines, di 14 anni, impazzisce per il dolore.

    I giorni dell’ira, 1. "il Ponte", 03.12.1989

    1. Una ragazza.
    Estate 1944. Sulla strada che da Fiorentino porta verso Mercatino Conca, in comune di Montegrimano, alla curva dopo il paese di Montelicciano, al Poggio, c'è la casa di Anna Ceccolini, detta Netta. Vi è ospitato un confinato politico marchigiano, proveniente da Roma: il sarto Duilio Paolini, 49 anni, che ha con sé due figli, Elio nato nel 1927 ed Ines nel 1930.
    La sera del 12 luglio, un nuovo rastrellamento dei repubblichini nella zona mette a soqquadro il piccolo paese. È da poco passata mezzanotte quando colpi di accetta demoliscono la porta d'ingresso dell'abitazione di Anna Ceccolini.
    Duilio Paolini è in casa con la ragazza. Elio invece è alla macchia.
    Sentendo i primi spari, Elio ha deciso di andarsi a nascondere ed ha pregato inutilmente il padre di seguirlo. Il sarto è stanco, e spera che non gli accada nulla. Resterà a dormire nel suo letto.
    Verso le tre del mattino, il giovane Paolini ritorna a casa, insospettito dai colpi uditi distintamente. Trova segni di devastazione non soltanto sulla porta, ma anche all'interno delle loro stanze.
    Lo accoglie la sorella. Ines piange, stravolta. Tra singhiozzi irrefrenabili, racconta la cattura del padre. Lo hanno preso mentre dormiva. Lo hanno legato con una corda alle mani ed ai piedi, «alla maniera degli animali», sussurra con un filo di voce la ragazza, impietrita dal dolore. Poi lo hanno caricato sopra un'auto targata San Marino, portando via anche i tagli di stoffa e gli abiti in prova che erano nel laboratorio.
    La ragazza continua a disperarsi. Elio chiede altre notizie ad una vicina, la signora Severi che racconta: Ines è corsa dietro a suo padre in preda al panico, ed urlando ha continuato a chiedere: «Papà mio, dove lo portate?». I fascisti l'hanno cacciata indietro con i moschetti.
    Ines Paolini, da quella notte, vivrà sempre con gli occhi rivolti alla tragedia della sua famiglia. La sua coscienza è stata annientata dalle immagini strazianti che mai la lasceranno.
    Suo padre fu portato vicino al cimitero del paese, e lì i fascisti lo hanno torturato. Nascosto dietro un covone di grano, Galliano Severi assiste impotente alla ferocia dei repubblichini contro il sarto di Montelicciano.
    Sanguinante, colpito a morte, forse già senza vita, Paolini è ricaricato sull'auto sammarinese. Di lui non si avranno più notizia. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. La lapide che a Montegrimano ricorda le vittime della guerra, reca sotto il nome di Duilio Paolini sotto la scritta «disperso civile», assieme a quello di Tommaso d'Antonio.
    Ines Paolini trascorrerà il resto della sua vita all'ospedale di Santa Maria della Pietà, dove è tuttora ricoverata.

    2. Simbolo di una storia.
    La storia di Ines Paolini, con il segno del duplice martirio nella carne del padre e nelle mente della figlia, spiega il titolo di queste ricostruzioni storiche. «I giorni dell'ira» sono i lunghi mesi che vissero le popolazioni della nostra zona fra il settembre 1943 e lo stesso mese del 1944.
    Un anno fatto di bombardamenti, di lotta tra due eserciti nemici, ma soprattutto di una guerra civile, la cui dimensione di tragedia collettiva è talora trascurata.
    Fu una violenza perfida e continua, quella che si scatenò allora, in tutta la sua bestialità primordiale, mietendo vittime innocenti tra chi non volle credere ai miti ed ai riti della Repubblica di Salò. Il fratello divenne ostile al fratello.
    Non vogliamo riaprire processi o instaurarne di postumi, ma semplicemente raccontare fatti, convinti che la conoscenza degli orrori della guerra civile possa mostrarci strade da non percorrere più.
    Nei momenti nodali della Storia, la violenza che si scatena come un torrente irrefrenabile, lascia detriti e distrugge senza pietà.
    Raccontare i drammi del passato più recente, caratterizzati da quella violenza, osservare le ferite forse appena rimarginate o del tutto ancora aperte per molti, non significa rinfocolare vecchie polemiche o suscitare nuovi contrasti, ma soltanto meditare sul bene supremo della pace.
    La pace non è un romantico idillio fatto di sogni ed illusioni. È una meta fondamentale del processo storico e della vita sociale. Ciò è doppiamente vero, sotto il profilo religioso e sotto l'aspetto politico. Gli spiriti più sensibili hanno sempre avvertito l'inevitabile, reciproco scambio fra questi due elementi, il civile e lo spirituale, come ideale a cui ispirare le nostre azioni.
    Per questo, il racconto storico diventa qualcosa di più di una semplice curiosità. Da cronaca sale a parabola da cui trarre insegnamento per non dover più vivere o scrivere pagine intrise di dolore e disperazione.

    3. «Tutti ragazzi...».
    Montelicciano, una dolce mattina d'ottobre 1989. Nel piccolo groviglio di case che s'arrampicano lungo la costa dopo la chiesa, incontramo Guerrino Casadei, classe 1915.
    L'8 settembre 1943 era soldato a Rimini. Anche lui scappò, ritornò qui, al suo paese dove visse nascosto sino alla Liberazione. «I fascisti di Salò passavano spesso, facevano paura.»
    «Sì, i repubblichini venivano da fuori», conferma Giuseppe Bartoli, classe 1905, primo sindaco del dopoguerra a Montegrimano. «Li guidava Marino Fattori, un colonnello di San Marino. Erano tutti ragazzi...».
    «Fattori era micidiale», ricorda amaramente Guerrino Casadei. La moglie, con qualche frase mozza e con lo sguardo, sembra invitarlo alla moderazione nei giudizi. Casadei aggiunge: «Sono fatti veri, poi sono tutti morti», i protagonisti.
    Marino Fattori, dopo la Liberazione, fu fucilato nei pressi di Sondrio. Stessa sorte ebbe suo figlio Federico, tenente dei repubblichini. Il ricordo delle antiche paure è ancora ben vivo in questa gente, associato a quello delle vendette che si ebbero allora.
    Questo piccolo paese di Montelicciano ritorna spesso nelle cronache di quei giorni. Ascoltiamo Pippo Bartoli: «Nel febbraio 1944 i fascisti arrestarono me e Galliano Severi, classe 1897», quello che assisterà alle torture inflitte al sarto. «Ci trasferirono a Mercatino Conca, in camera di sicurezza. Per una settimana. Senza mangiare, dovevamo portarcelo da casa i nostri».
    Sorride vagamente, Bartoli: «Era una commedia. Bisognava piangere ma veniva anche da ridere. Perché? Mah, di giorno ci tenevano fuori dalla caserma, non in camera di sicurezza». Forse volevano metterli nella tentazione di fuggire, e di chiudere così i conti con una fucilata alle spalle?
    Un giorno arriva da Pesaro la convocazione ai repubblichini di Mercatino. «Cosa vorranno da noi?», chiedono i militi a Bartoli e Severi. «Vi manderanno a combattere al Nord», gli rispondono i passeggeri. «Fu allora che i repubblichini scapparono tutti», conclude Bartoli.

    4. Nella casa del sarto.
    A Montelicciano, la casa del sarto non è frequentata soltanto dai clienti. Paolini possiede uno dei rari apparecchi radio della zona. Lui la sintonizza sulle stazioni di Londra e di Mosca.
    Nel paese e nei dintorni, Paolini lo conoscono tutti. È un antifascista tenace. Ama fare commenti coloriti. Per quella radio, Paolini ha avuto delle beghe. Nel 1943 è stato arrestato e condannato ad un mese di carcere. L'apparecchio fu sequestrato. Tornato libero, ne acquistò un altro.
    Il sarto sospetta che a denunciarlo sia stato un certo Dominici, abituale frequentatore delle serate radiofoniche nella sua abitazione. In Domini identifica quella «spia fascista dell'Ovra» di cui gli ha parlato confidenzialmente il maresciallo deo Carabinieri di Mercatino Conca.
    I repubblichini arrivano spesso a Montelicciano guidati dai Fattori, padre e figlio, che viaggiavano «a bordo di una motocicletta Guzzi», che aveva incorporata sopra il manubrio una mitragliatrice. Venivano in paese per intimidire la popolazione», raccolta il figlio Elio Paolini.
    Una sera, tra fine 1943 3e inizio 1944, prosegue Elio, «abbiamo visto arrivare un camion di fascisti che, appena scesi, si sono precipitati in casa nostra con le pistole spianate, urlando: "Chi è Paolini Duilio?". Quando io li ho sentiti arrivare ho subito spento la luce e detto a mio padre: "I fascisti, i fascisti". Mio padre, pronto, scappò sul terrazzo e di lì si buttò nella sottostante macchia, mentre i fascisti urlavano: "Sparagli, sparagli!"».
    Perché Paolini è ricercato dai repubblichini? Non poteva essere colpa ancora una volta della radio. Il sarto svolgeva un'intensa attività politica di propaganda tra i giovani, precisa Primo Marani.
    Dopo quel tentativo di cattura fallito, perché Pasolini non prese precauzioni? «Era troppo sicuro di sé», ci dice Bartoli, «perché credeva di non aver fatto del male a nessuno. Era convinto delle sue idee di giustizia. Accanito. Era uno che ci sapeva fare. Parlava di politica con tutti. Col poliziotto, col fascista, col prete».
    In quei giorni a Montelicciano, il parroco è un anziano sacerdote, don Giuseppe Villa. È l' dal 1927, ed ha sui settant'anni. «Una brava persona», ci confida Guerrino Casadei. Dopo l'8 settembre, dopo la nascita della Repubblica di Salò ed i richiami per gli "sbandati", dice confidenzialmente ai ragazzi del paese: «Non andate via, sotto le armi. Non date retta a quello che dico in chiesa», cioè agli ordini per arruolarsi che i fascisti facevano diffondere anche dall'altare.
    «Duilio Paolini viveva diviso dalla moglie. In paese si era legato con Olga Geri che da lui ebbe un figlio, morto di recente a Roma», ricostruisce Pippo Bartoli. La Geri abitava in un'altra casa, vicina a quella di Paolini, che aveva sul retro una porta da cui uscire nei campi. «Bastava che si fosse nascosto lì quella notte, ma forse era destino che finisse così».
    Ma come finì veramente Paolini?
    [Prosegue qui.]

    Nota bibliografica. Sono contenute nel volume di Bruno Ghigi(curatore ed editore, 1984) «La Repubblica di San Marino, Storia e Cultura, Il passaggio della guerra, 1943-1944», le testimonianze di Elio Paolini (pp. 188-191) e Primo Marani (p. 156).

    Antonio Montanari



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