• 1."Viva l'imperatore d'Austria"
    Sonetti del 1799 sulla liberazione di Rimini dai francesi


    Anche due secoli fa, la Musa della Poesia aveva il suo bel daffare. Lavoravano a tempo pieno i torchi dei tipografi, per diffondere liete novelle e cantare i fatti del giorno, oltre le solite storielle di amori, delusioni e speranze del cor. I testi che presentiamo sono apparsi a Rimini tra il maggio ed il luglio 1799. Essi ci permettono di ripercorrere brevemente, come si diceva un tempo, una pagina di storia patria della quale ricorre il bicentenario.

    Cominciamo dalla "Canzonetta" intitolata "Per lo sbarco degl'Imperiali nel Porto di Rimino, e sul loro ingresso nella Città il dì 30. Maggio 1799". I personaggi in essa citati sono due: il "forte Pottz" è il comandante della flottiglia imperiale; il Martiniz è un tenente della "Regio-Cesarea Marina", mentre l'Aprusa è semplicemente il nostro Ausa, allora fiume e poi torrente (oggi tombinato nella parte urbana). Le "generose Aquile" di cui si parla, rimandano all'aquila bicipite simbolo dell'impero.

    Ecco il testo:
    "Verso le spiagge Adrìache/ Il forte Pottz sull'onda/ Vola; ed il Ciel seconda/ L'invitto Condottier. / Gl'arditi Legni avvanzansi/ Fra l'onda alto-confusa,/ Ride la verde Aprusa/ Nel cheto suo sentier./ Taciono i venti instabili/ E il Martiniz s'appressa,/ Fugge d'orrore oppressa/ La nuova Libertà./ Alzan la fronte intrepida/ Le sponde lusinghiere,/ Sbalzan l'amiche Schiere/ Ricche d'Umanità./ Le generose Aquile/ Il benefico volo/ Su questo afflitto suolo/ Già spiegano alfin./ Or non s'ascoltan gemere/ Le Madri addolorate:/ Le Vedove piagate/ Le man tolgon dal crin. / E in oggi oh come esultano/ L'amica Valle, e il Fonte! / Come più vago il Monte/ Splende di nuovi fior! / Spesso s'ode a ripetere/ Tra le bennate Genti,/ Tolti i timori e spenti, / VIVA L'IMPERADOR."

    Seconda composizione, anonima come quella appena citata. Trattasi di un "Sonetto estemporaneo" anch'esso dal titolo un poco lungo: "Nel faustissimo arrivo delle truppe austriache nella città di Rimino il giorno 4 luglio 1799". Ecco il testo:
    "Queste, che sfidan già venti e procelle/ Genti intente a le reti, al remo, a l'amo, / Le amiche loro lasciando navicelle, / Fecer Fabert d'ardir ripiene gramo." (Fabert era il comandante francese nella piazza di Rimini. La prima strofa è dunque un inno alla marineria riminese che rende dolente il povero Fabert.) "E col favor delle propizie stelle/ Per esse salvi da periglio siamo, / Ché in fuga volta la turba rubelle/ Inni di grazie al grand'Iddio cantiamo./ O Forti, tocca a voi or queste mura/ Guardar da novo temerario insulto, / A voi che avete omai la Gallia doma." (I "Forti" sono i soldati imperiali.) "Dal pio Cesare fatta è già sicura/ Italia; e non andrà guari che inulto/ Non resti il fallo de l'infame Roma".
    Curiosa quest'ultima strofa: alle lodi verso l'imperatore d'Austria, dopo il ringraziamento "al grand'Iddio", segue una specie di maledizione all'"infame Roma", il cui errore non resterà impunito... Ma a Roma comandava il Papa-Re: chi sarà mai questo pazzo d'un poeta riminese che inneggia all'imperatore, chiamandolo "pio Cesare" come al tempo medievale, e definisce "infame" la sede del Papato? Ma non erano tutti contenti che l'Austria venisse a combattere in nome della Religione? Questo poeta era un solitario o esprimeva idee diffuse? Che collegamento può esserci tra l'inizio del sonetto, in lode della marineria, e questo definire "infame" Roma? Quanti, di quella marineria, erano dello stesso parere?

    Terza composizione:
    "Nella solenne devota Processione di Maria Vergine della Misericordia venerata nella cattedrale di Rimino che si fa il giorno VII Luglio MDCCXCIX. Sonetto dedicato alle armi invitte dell'Augustissimo Imperatore F[rancesco] II dall'esultante popolo riminese": "Sono anni ed anni, che viviamo in mille/ Crudeli ambasce notte e dì gementi/ Né ancor le irate tue dolci pupille/ Si mostrano, MARIA, ver noi clementi? / Rinnova TU, ch'il puoi, gli alti portenti/ di tua pietade, onde cittadi e ville, / Al fulminar de' cavi bronzi ardenti, / Più non vadano in cenere e in faville. / Fallo, per noi non già, ma per quel frutto, / Che uscì del casto tuo materno grembo, / E rammenta che siam pur figli tuoi:/Che se di CRISTO il gregge fia distrutto/ Dal meritato formidabil nembo;/ Da chi sperar più altari e incensi puoi?".

    Soltanto di quest'ultimo sonetto conosciamo l'autore: il "signor Pietro Santi", commerciante, e, come racconta Carlo Tonini, cultore di varie arti tra cui il disegno e la pittura. Amico del Bertòla, Santi lo ritrasse nel dipinto che ora è conservato nel Museo civico: è l'immagine più bella che abbiamo dell'irrequieto e sfortunato poeta riminese.

    A proposito di pietà religiosa, c'è un documento cesenate del 1797, pubblicato nel 1982 da "romagna arte e storia" n. 6, in cui si racconta che "i masnadieri sono divisi in due bande: una prende possesso de' paesi conquistati, in nome del Papa; l'altra non vuol sentire parlare né di Papa né di repubblica, e sembra avere in mira di erigersi in sovranità indipendente. Tutti però gl'individui delle due bande professano la più alta devozione alla Beata Vergine, di cui portano l'immagine nel cappello, e in nome della quale assassinano piamente quelli che credono di contrario partito".
    Questo passo è riportato anche nel recente volume di M. Viglione, "Rivolte dimenticate", in nota ad passo in cui c'è una notizia fortemente 'dubbia': "solo i paesi di Tavoleto e Sogliano fornirono più di 1.300 insorgenti".

    Note:
    La cattedrale di Rimini della quale si parla nel testo, era la chiesa di San Giovanni Evangelista (detta di Sant’Agostino). La vecchia cattedrale era stata ridotta, nel 1798, a caserma: essa sarà demolita nel 1815. Nel 1809 la cattedrale viene trasferita nel Tempio Malatestiano, ove si trova tuttora, ad opera del Vescovo Ridolfi.
    Gli originali delle composizioni riportate, sono nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini (Fondo Gambetti Stampe Riminesi).
    [Da Il Ponte n. 33, 19.09.1999.]


    2. Nicola Giangi, Cronaca del 1799

    Presentiamo un estratto della "Cronaca" scritta da Nicola Giangi, relativa al 1799. L’originale è conservato nella sezione dei manoscritti della nostra Civica Biblioteca Gambalunghiana, con la segnatura SC-MS 340. Riproduciamo il testo fedelmente all’originale.

    14 marzo, "Questa sera ho cessato di esser Municipale".

    30 maggio, "Insorgenza. Oggi è stata una giornata delle più cattive. A mezzo giorno circa sono venute in Terra tutte le Barche Pescareccie, unitamente ad una Barca Canoniera dell’Impero; tutti li marinari hanno impedito che si spari un Canone contro la Barca Canoniera, hanno messo à sassate il Comandante Fabert Francese, e il Comandante Sirò Cisalpino, e bastonati varj Soldati Piemontesi, fatto [,] li detti Pescatori, con li birbanti di Città sono andati a dar il sacheggio à due Boteghe di Ebrei, abbruciati gli Arbori di Libertà, e dato il sacheggio al Palazzo Publigo, rubato tutto quello che vi era in detto Palazzo, e rotto ogni cosa. Tutte le Boteghe, case e fenestre levate; un chiasso, un susuro ben grande. Il Tenente Carlo Martiniz Capo della Barca Canoniera ha in parte sedato il tumulto. La notte però varj ladri particolari armati sono andati in Casa Lettimi, e in Casa Ferrari à voler del denaro".

    31 maggio, "Oggi è stata un’altra giornata di gran funesta; verso mezzo giorno si è saputo che il Conte Fabert Francese con circa 150 soldati Piemontesi, e altri di suo seguito veniva con un canone avanti per entrar in Città. Tutti li nostri Solevati, con li Contadini ed alla testa il Tenente Carlo Martiniz sono andati in contro con canone, ed hanno fugati li Nemici, col far prigionieri sette, e morti si dice altrettanti; vanno dietro al Comandante, e tutti gli altri si sono dispersi; questa sera hanno fatti prigionieri altri, e presi due pezi di canone. La nostra popolazione è molto riscaldata. Il nostro vescovo Feretti ha fatto un fervorino sulla Piazza della Fontana al Popolo, ha fatto liberare il Padre, ed il Figlio Zavagli dall’arresto, ed ha creato unitamente al popolo un Magistrato, ed il Comandante Civico. Il Magistrato è composto di 5 sogetti: Ercole Bonadrata, Marco Bonzetti, Girolamo Soleri, Carlo Zollio, e Giuglio Cesare Bataglini, ed il Comandante Giovanni Battista Agolanti. La residenza del Magistrato è in Casa Gambalunga". [Questo "Magistrato" è la Reggenza provvisoria, n.d.r.]

    1 giugno, "Si sono fatti molti Prigionieri; si sono messi in aresto varj creduti Giacobini. La sera si acendono li lumi per tutta la città".

    2 giugno, "Seguita esser in armi li solevati, cioè li Paroni, e la Ciurmaglia del Paese, sono venute altre due Canoniere".

    3 giugno, "Si sono portati dei Canoni alle Porte, e si fa continua guardia; li Marinari seguitano star in terra, e a far la ronda, e guardia. Hanno condotto da Campagna in aresto la Signora Barbara Belmonti, ma subito è stata in libertà".

    4 giugno, "Seguitano li Pescatori a far la guardia. In questa sera sono venuti in casa mia due Canonieri all’ore 22 circa con scusa di cercar le armi, ma poi volevano condur il Padrone in aresto, in vece mia andò mio Fratello, ma fu rimandato a casa apena escito, avendole prima chiesto del denaro. La paura fu grande di tutta la famiglia. [Il testo che segue è nell’originale in un corpo più grande rispetto a tutto il resto, n.d.r.] Lascio io Nicola Giangi in perpetua memoria à miei Posteri che li Pescatori si sono dichiarati miei Nemici, e che a tutto costo mi volevano, o mi vogliono in aresto. L’inimicizia nasce per quanto si dice, che quando ero Municipale, e che vi fù la racluta [recluta, n.d.r.] fui io quello che fece metere li Pescatori nella racluta".

    5 giugno, "[…] In questa sera ho preso due vuomini miei Muratori à far la guardia in mia Casa di notte. […]".

    7 giugno, "Seguita à far la Guardia li nostri Pescatori. La sera si seguita a tener li lumi accesi".

    8 giugno, "E’ venuta la nova d’essersi Pesaro liberata dai Francesi, sono andati anche dei nostri Insorgenti a Pesaro. Il fù Padre Arcangelo Chiodi Pavolotto ha predicato in Piazza, che siano ubidienti al Magistrato, colle Leggi: si fece molto ridicolo. Non si pagano dazj, e nemeno bolette del Macinato".

    11 giugno, "Seguita li Pescatori à far guardia".

    12 giugno, "[…] si ritorna a pagare li dazj […]".

    14 giugno, Fano è in mano di Russi, Turchi ed Insorgenti: a Rimini "seguita a far guardia li Paroni".

    17 giugno, "Aresti. Un’ora dopo mezzo giorno hanno messo in aresto, e condotti à Marina li seguenti: Luigi, Arcangelo e Tomaso Fratelli Signorini, Lodovico Belmonti, Padre Canuti ora Prete, Tito Caradori, Pelegrino Turchi, Giuseppe Fosati, Cupers il Figlio, Scopoli, Barchetti, e Gaetano Bataglini. Aveano giorni fà messi in aresto Coranucci, Paladino Sbirro, e Fontana Sarto, ma dopo pochi giorni furono lasciati". [Lo Scopoli di cui si parla è il dottor Giovanni Scopoli, che risulta presente a Rimini già nella primavera del ’98. Il 16 dicembre 1802 Scopoli sposa Lauretta Mosconi, figlia naturale del poeta riminese Aurelio De’ Giorgi Bertòla].

    18 giugno, "[…] aresto del Pavolotto Padre Bordi, condotto a Cesena" [e liberato il 19].

    20 giugno, "Sono andati in mare parte dei Pescatori. Sono stati arestati tutti quelli che son venuti da Sinigaglia [presa il giorno prima; n.d.r.], e che avevvano dato il sacco, avendo a tutti levata la robba derubata. E’ partito per Cervia il Vescovo di detta Città in compagnia del signor Luigi Ferrari". [Il Vescovo cervese, mons. Gazzola, è giunto a Rimini per calmare le acque. Il 19 giugno ha pubblicato un proclama alla locale marineria con l’ordine di esercitare "il mezzo mestiere", dividendosi i compiti, ed alternandosi in essi: la metà dei marinai in mare "a procacciarsi il vitto", e "l’altra metà alla difesa" di Rimini.]

    21 giugno, "Sono andati in mare la metà circa dei Pescatori. 28 bastonate sul Culo a Figlio di Franchini di S. Arcangelo per aver fatto una satira contro l’Imperatore. 16 bastonate sul Culo ad un contadino per aver rubato".

    23 giugno, a Senigallia sono ritornati i francesi: "27 barchette cariche di gente fuggita da Sinigaglia e Fano".

    24 giugno, "Partono molti insorgenti per Pesaro".

    25 giugno, "Vanno a Pesaro degli Insorgenti. Si accendono ogni sera i lumi alle fenestre".

    28 giugno, "Sono stato condotto in aresto da Pescatori solevati à marina in Barca, unitamente a Giuseppe Bornacini, Vincenzo Tonini, Padre e Figlio Antonio Zavagli, dottor Drudi, Vittorio Marchi, e molti altri: con Luzietta Pivi. Sono stato liberato dall’aresto assieme al dottor Zavagli e Luzietta dopo un giorno". [Giangi parte per Trieste il 29 giugno e fa ritorno a Rimini il 4 agosto.]

    5 agosto, "Fatta la pace".

    25 agosto, "In vece del Magistrato comanda la Reggenza nostra" [imposta dal popolo il 31 maggio].

    4 settembre, mandati in esilio alcuni riminesi, tra cui Michele Rosa.

    13 gennaio 1800, Consiglio Generale. Ritorna cioè la vita amministrativa normale.

    [Da Il Ponte n. 35, 03.10.1999.]


    3. Elenco de’ Partigiani della Francia
    Sonetto


    Scismatici, Appellanti, Giansenisti,
    Perfidi Ebrei, Cattolici mentiti,
    Apostati rubelli, e Fuorusciti,
    Luterani, Ugonotti, Calvinisti,
    Politici malnati, e rei Statisti,
    Ciurmatori, Buffoni, Parassiti,
    Ruffiani, Sanguinarj non puniti,
    Miscredenti, Mastini, ed Ateisti,
    Preti ignoranti, e Frati malcontenti,
    Giovani scapestrati, e Vecchi insani,
    Teste sventate, e spiriti insolenti,
    Torbidi ingegni, e cervellacci strani
    Or dati alle rapine, e ai tradimenti,
    Questi son della Francia i Partigiani.

    [Fondo Gambetti Stampe Riminesi, III busta, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini.]


    4. Nelle carceri di Rimini. Documenti inediti
    I detenuti riminesi del 1799. Ventotto persone, tra cui tre donne


    Fino al 1825 le carceri di Rimini si trovavano dietro al palazzo del Comune, a contatto con l’ufficio del Monte di Pietà: in quell’anno furono trasferite nella Rocca malatestiana fatta costruire da Sigismondo.

    Duecento anni fa, nel 1799, le nostre carceri ospitavano ventotto persone, come risulta da un documento inedito che si trova presso l’Archivio Storico Comunale della città, e dal quale apprendiamo che si trattava di ventiquattro uomini, un sacerdote e tre donne.

    Cominciamo da queste ultime. Sono Teresa Urbinati di Coriano e Cattarina Bertozzi di Longiano entrambe responsabili di "lajdezze" e di "contravvenzione d’esilio"; e Maddalena Cevoli di San Clemente, colpevole d’infanticidio.

    Il sacerdote è Don Piero Rombolotti del Territorio del Pallio di Urbino, per furto sacrilego e "mala qualità".

    Tra gli altri ventiquattro carcerati di sesso maschile incontriamo quattro detenuti "per furti", due "borsaroli", poi tre altri accusati (o giudicati, non sappiamo) rispettivamente per sparo, rissa e furto sacrilego. Infine ci sono quindici militari di cui uno francese.

    Il documento non ha una data precisa. L’anno (1799) lo si ricava dalla lettura dell’elenco dei detenuti. Nella parte del documento relativa ai quindici militari, ci sono alcune precisazioni che ci potrebbero indicare come esso sia stato compilato prima dell’arrivo degli austriaci (30 maggio). Nel gruppo dei quindici ci sono "otto individui bresciani" condannati e "spettanti al Capitano Rellatore del Consiglio di Guerra"; "altri due Cispadani […] a disposizione come sopra"; "altri tre Carattari spettanti come sopra"; il "Commissario Santamer" e Giuseppe Squadrini di Rimini "arrestati il 14 febbraio a disposizione come sopra".

    Soltanto i due Cispadani sono descritti "in Secreta", mentre per gli otto bresciani si parla di detenzione "alla Larga". Non si precisa nulla per le altre persone.

    Circa il "Commissario Santamer", si può supporre che si tratti di uno degli agenti francesi che avevano preteso contribuzioni indebite. Si potrebbe collocare così il documento nel periodo di metà maggio ’99, dopo lo stato d’assedio proclamato dal generale Lahoz per tutto il Dipartimento del Rubicone, e durato dal 4 al 13 dello stesso maggio. E quindi prima della liberazione della città da parte della marina imperiale e del saccheggio del Palazzo pubblico per opera degli insorti riminesi.


    5. I verbali della rivoluzione. Documenti inediti

    Abbiamo già letto nella "Cronaca" di Nicola Giangi che il 31 maggio 1799 il Vescovo di Rimini mons. Ferretti creò "unitamente al popolo un Magistrato, ed il Comandante Civico". Il Magistrato era composto da cinque persone, Ercole Bonadrata, Marco Bonzetti, Girolamo Soleri, Carlo Zollio, e Giulio Cesare Battaglini. Il Comandante Civico era Giovanni Battista Agolanti.

    Sugli eventi della primavera del 1799 esistono inediti verbali dell’Archivio Storico Comunale di Rimini, che presentiamo in questa nota. Quegli atti ufficiali sono utili a comprendere come siano andate effettivamente le cose.

    In un primo momento "il popolo richiese a Monsignor Vescovo, che gli avesse nominato de’ soggetti per una nuova Magistratura Provvisoria". Monsignor Ferretti rispose "che il Popolo li avesse nominati da sé".

    Fu così che un’improvvisata assemblea parlamentare, come diremmo oggi, decretò il nuovo governo della città. Siccome tutto veniva fatto in violazione della legge in vigore, è un vero e proprio colpo di mano, che rassomiglia ad una specie di soviet ante litteram il quale cerca di realizzare un nuovo libero comune di stampo medievale, slegato da ogni altra autorità costituita.

    Il popolo, dopo il rifiuto del Vescovo, nomina i nuovi cinque Magistrati provvisori già indicati all’inizio. A sua volta monsignor Ferretti fa presente che "alcuno forse degli acclamati non avrebbe accettato". La risposta dell’improvvisata assemblea è perentoria: "il Popolo fece sentire, che avrebbero dovuto accettare per forza", leggiamo nel verbale (datato 1° giugno ’99).

    I cinque prescelti "attese le sopranotate circostanze s’indussero […] a prestarsi alla trama del Popolo con assumere la Magistratura sebbene in tempi così difficili, affine di evitare mali maggiori".

    La ripresa della normale attività amministrativa avviene soltanto a partire dal 13 gennaio 1800, come già ha raccontato Giangi. Quel giorno, nel registro dei Consigli Generali della Municipalità si redige il primo verbale dopo quello del 3 febbraio ’97, steso all’antivigilia del "Governo Francese" instaurato in città dai militari di Napoleone.

    Il 28 gennaio 1800, è nominato il nuovo Governatore nella persona di Luigi Brosi (il vecchio Governatore che era fuggito da Rimini il 2 febbraio ’97 assieme al Vescovo Ferretti). Il 31 gennaio Marco Bonzetti (che nel frattempo aveva ricevuto una speciale delega imperiale), nomina i sei nuovi Consoli della città (due in meno rispetto a quelli del Governo pontificio), perché il Consiglio non riesce a trovare un accordo su tutti i nomi: sono cinque nobili ed un borghese. La rivoluzione dei marinai era così conclusa.


    6. Cronologia del 1799.

    30 maggio 1799, «Insorgenza» (N. Giangi).
    31 maggio, si rinnovano i disordini [Zanotti]; il vescovo di Rimini mons. Ferretti crea «unitamente al popolo un Magistrato, ed il Comandante Civico» (Giangi). Il Magistrato era composto da cinque persone: Ercole Bonadrata, Marco Bonzetti, Girolamo Soleri, Carlo Zollio, e Giulio Cesare Battaglini. (Dai verbali ne risultano sei: Giangi omette Luca Soardi e Girolamo Graziani.) Il Comandante Civico era Giovanni Battista Agolanti.
    1° giugno, arresti di «giacobini», proseguono le violenze e i disordini [Zanotti, 177]. «Disordine» e «spavento», «tumulto e confusione» [Zanotti, 178]. Arriva il Comandante austriaco: il fatto anima il Magistrato «a sostenere la Magistratura provvisoriamente conferitaci dal Popolo». Il Comandante, maggiore de Pottz, conferma il Magistrato provvisorio [AP 504, 24.7.1799]. Ringraziamento al Popolo e Proclama del Magistrato [Zanotti, 174]. Guardia Civica di 400 persone [Zanotti, 175]. Esortazione del Vescovo [Zanotti, 176]. Sui giorni seguenti, Zanotti, 183-184.
    2 giugno, scrive Giangi: «Seguita esser in armi li solevati, cioè li Paroni, e la Ciurmaglia del Paese». Editto di Giacomo Viezzoli [Zanotti, 179] contro i disordini. Sull'atteggiamento dei nobili, Zanotti, 183-184.
    3 giugno, arresto di Barbara Belmonti a San Lorenzo in Correggiano, Zanotti, 182.
    4 giugno, «Seguitano li Pescatori a far la guardia. In questa sera sono venuti in casa mia due Canonieri all'ore 22 circa con scusa di cercar le armi, ma poi volevano condur il Padrone in aresto, in vece mia andò mio Fratello, ma fu rimandato a casa apena escito, avendole prima chiesto del denaro. La paura fu grande di tutta la famiglia. [Il testo che segue è nell'originale in un corpo più grande rispetto a tutto il resto, n.d.r.] Lascio io Nicola Giangi in perpetua memoria à miei Posteri che li Pescatori si sono dichiarati miei Nemici, e che a tutto costo mi volevano, o mi vogliono in aresto. L'inimicizia nasce per quanto si dice, che quando ero Municipale, e che vi fù la racluta [recluta, n.d.r.] fui io quello che fece metere li Pescatori nella racluta».
    8 giugno, il Comandante austriaco autorizza il Magistrato provvisorio della città ad assumere il titolo di rappresentante imperiale [Zanotti, 188]. Due proclami di Giacomo Viezzoli. Il primo ripristina «provvisoriamente» il sistema pontificio [vedi sotto, 26 luglio, AP 908, Ravenna]. Il secondo rivolto al Popolo perché lasci all'Imperatore di Germania di «punire i ribelli, i malvagi, e libertini» [Zanotti, 193-194]. Vedi il commento di Zanotti [194]: ci si prefiggeva il fine di «far cessare l'opera della marineria armata», etc.
    14 giugno, si rialza il trono vescovile nella cattedrale [Zanotti].
    19 giugno, proclama del vescovo di Cervia alla marineria di Rimini.
    29 giugno, scrive Giangi: “Sono stato condotto in aresto da Pescatori solevati à marina in Barca, unitamente a Giuseppe Bornacini, Vincenzo Tonini, Padre e Figlio Antonio Zavagli, dottor Drudi, Vittorio Marchi, e molti altri: con Luzietta Pivi. Sono stato liberato dall'aresto assieme al dottor Zavagli e Luzietta dopo un giorno”. [Giangi parte per Trieste il 29 giugno e fa ritorno a Rimini il 4 agosto.] Zanotti [1° giugno, p. 177] ha già raccontato di arrestati «posti in barca» e «trasportati ad altro Paese».
    3 luglio, arrivo delle truppe austriache.
    10 [11] luglio, proclama del generale Giovanni Klenau (comandate di un corpo di truppe austriache in Romagna e Toscana): esso annuncia l'istituzione della Reggenza di Ravenna sopra tutta la provincia di Romagna con cinque deputati a rappresentare altrettante città, oltre a quello di Ravenna [ qui c'è il 10: AP 504, 6.8.1799, Faenza Ma Zanotti parla di 11 luglio]. (Ravenna pretende di avere due deputati nel Congresso Provinciale, AP 504, 18.8, a Daniele Felici: vedi ad diem. Vedi anche 19.8 a Mancurti Del Carretto «Deputato delle cinque città della Provincia al Congresso colla Reggenza di Ravenna»; e ad Imola, 28.8., ib., sui «raggiri della Reggenza di Ravenna».) (La «Ricevuta della risoluzione per la nuova Reggenza Provinciale», è spedita da Rimini a Forlì il 10 agosto.)
    17 luglio, nuova dichiarazione «confermativa dell'autorità alla predetta reggenza» [«Essa si dirigerà a tenore delle leggi esistenti del 1795»: AP 908, 17.7.1799]; [AP 504, 6.8.1799, Faenza]. Vedi il proclama austriaco dell'8 giugno [Zanotti, 188-189].
    24 luglio, il Magistrato provvisorio di Rimini chiede alla Cesare Regia Reggenza di Ravenna di ripristinare il Generale Consiglio, «come lo era nel Pontificio Governo». [Questa richiesta è la logica conseguenza dell'editto dell'8 giugno e della dichiarazione del 17 luglio.]
    26 luglio, il Comandante, maggiore de Pottz, per mezzo del primo tenente Giacomo Viezzoli, Comandante la Piazza, ordina di «andare ripristinando il sistema Pontificio». [AP 908, Ravenna, 26 luglio 1799]
    28 luglio, turbolenze in città.
    31 luglio, è sospesa la convocazione del Consiglio: l'ordine è impartito al barone De Buday, Comandante della Romagna. [Pesaro, AP 908]
    1° agosto, il Magistrato provvisorio di Rimini scrive al barone De Buday: si era pensato di ristabilire il Consiglio anche per rimediare alla generale «carestia di tutti i generi» [AP 504]
    5 agosto , «Fatta la pace» (Giangi).
    6 agosto, al Giusdicente: circa l'arresto del Bargello Antonio Maria Palladini avvenuto due mesi prima: continua il «mal umore» del popolo contro di lui [AP 504].
    8 agosto, disordini in città. Arresti. Conflitto di competenza tra il Comandante della Guardia Urbana Lorenzo Garampi ed il Tribunale [AP 504, 9.8.1799, a L. Garampi]. Garampi era stato confermato nella carica da Buday il 3 luglio [AP 908]. [Circa la Guardia Urbana, cfr. AP 504, 15.8 a Pesaro e 16. 8 a Cesena: essa viene mantenuta con l'imposizione di «una tassa mensile sopra le tre classi di Possidenti, Mercadanti e Capi d'Arte. Ne sono esenti i braccianti, ed i poveri. Tutti sono in obbligo di pagarla, allorché non servono di persona» (vedi pure 18.8 a Garampi, ib.: la tassa mensile è di baj: 40; e 29.8., ib. a Cattolica, sig. Giovanni Brigidi).
    9 agosto, sistema annonario del cardinal Colonna del 1792, AP 504. Approvato [16 agosto a Cesena, ib.].
    11 agosto, Al conte Klenau: il deputato scelto per rappresentare Rimini nella Reggenza Provinciale è il dottor conte Ippolito Tonti, «attuale presidente della nostra Reggenza [AP 504]. (Il 15 agosto si precisa alla Reggenza che Tonti è stato scelto tra i Magistrati, e non eletto dal Consiglio, stante il divieto di De Buday di convocare il Consiglio medesimo. «Varj individui» nuotano «affatto nudi sotto il Ponte di Augusto con indicibile scandalo della Gioventù particolarmente» [AP 504. Proseguono le tensioni: ci sono stati «popolari trasporti» contro il marchese Lodovico Belmonti (ora «libero, ed in stato di produrre le sue giustificazioni», 13.8.1799). Per la Festa per la resa di Mantova (con Te Deum in cattedrale), il Comandante Garampi è invitato ad inviare guardie armate «da distribuirsi al serraglio della Nobiltà».
    13 agosto, s'informa la Reggenza Provvisoria di Ravenna che a Rimini sono stati sospesi dalla pubblicazione alcuni editti che potevano turbare la pubblica tranquillità [AP 504]. Nel contempo si chiede alla stessa Reggenza che anche Cervia, Bertinoro e Sarsina abbiano in essa un loro rappresentante.
    14 agosto, in seguito ad «inquietudini» accadute nel Borgo di Cattolica, si chiede l'arresto di «alcuni malintenzionati» [AP 504]. Su di loro, tali Frontini e Antonioli, vedi anche 15. 8 a Garampi ed al vescovo di Cervia, AP 504: il vescovo di Cervia era intervenuto a loro favore, il Magistrato riminese si dice dispiaciuto «di non poter secondare i generosi sentimenti di V.S. Ill.ma e Rev.ma a pro di costoro».
    18 agosto: poiché Ravenna pretende due deputati nel Congresso Provinciale, Rimini ritira la propria adesione (18.8, a Daniele Felici, AP 504).
    19 agosto, cessato allarme per «la vicinanza del nemico» e «lo straordinario concorso de Forastieri»: si dimette il dicastero di Polizia [AP 504]. Cfr. anche 20.8, ib., si sospende il Dicastero di Straordinaria Polizia provvisoria (comunicazione a Garampi, che deve «vigilare sull'ordinaria polizia della Città, e segnatamente sul passaggio, e permanenza de Forastieri» (v. 24.8 a Garampi, ib.; e 26.8, ib., per espulsione di Forastieri). Cfr. pure 21.8, ib. al Maggiore Urbano Giovanni Zangari per il Sig. Comandante Assente: la Straordinaria Polizia ha condannato all'esilio sono un individuo.
    20 agosto, si invia la lettera di nomina di Tonti al Baron di Jhugut, Ministro di Conferenza di S.M.I.R.A e Plenipotenziario degl'Affari d'Italia. Tonti, si scrive, è persona «la di cui dottrina, probità, ed attaccamento al presente felicissimo Governo ci promettono un'ottima riuscita» [AP 504].
    20 agosto, contrasti con il Clero [v. lettera e «Promemoria» diretti all'avv. Antonio Domenico Gamberini affinché informi il Conte de Pellegrini Commissario organizzatore, AP 504]. V. sub 31 ottobre, AP 908.
    23 agosto, problema della distribuzione del grano sul Mercato (a L. Garampi, AP 504: «specialmente per provvedere alle richieste delle donne del Porto»; a L. Garampi, «a contentamento de Poveri, e per provvedere specialmente delle donne del Porto», 30.8., ib.). Sulla «Carestia di Grano», v. AP 908, c. 27.
    25 agosto, «In vece del Magistrato comanda la Reggenza nostra», imposta dal popolo il 31 maggio [Giangi]. Rivolta dei Marinai a Sant'Agostino, cfr. Tonini, VI, I, pp. 933-934.
    31 agosto, circa i sediziosi e l'espulsione de' forastieri (a L. Garampi, AP 504).
    Sotto il 4 settembre, Giangi ci ricorda: «In questa notte il Comandante Lorenzo Garampi ha mandato delle lettere ai qui notati, intimandoli di partire subito dalla Città, e Territorio di Rimini; sono Domenico Botini, dottor Gio[vanni] Martelli, Gaetano Urbani, medico Michele Rosa, Zanotta e Gironda»..
    2 ottobre, Regio Commissario della Provvisoria Reggenza Provinciale è Giuseppe Pellegrini.
    31 ottobre, il R. Commissario Pellegrini ordina la restituzione alle Mense Vescovili dei Beni non venduti, etc.

    Antonio Montanari
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  • Il caso di Pandolfo II Malatesti è illuminante. Lo fanno nascere molti anni dopo la sua vera venuta al mondo, cioè nel 1325 e poi quando ha sui dieci anni (1335) lo presentano miracolosamente al comando di armati vittoriosi che gli garantiscono la carica di podestà di Fano.
    Occorrerebbe un altro Freud per descrivere la psico-patologia degli storici che non hanno il buon senso normale in un lettore qualsiasi di libri. In mancanza di ciò, basterebbe a quegli eccelsi studiosi di mettersi a contare con le dita delle mani. Per constatare che nove o dieci anni sono pochi per guidare una truppa, anche se in quei tempi (tanto rimpianti da chi, ignorando tutto della Storia, li crede ispirati alla grande morale dell'Occidente), essi bastavano per celebrare matrimoni imposti soltanto dalla ragion politica. 
    Uno studioso italiano nel 1907 ha posto il problema della nascita di Pandolfo II, anticipandola dal 1325 al periodo 1310-1315. L'unico accenno a questo studioso pare essere quello presente in un saggio apparso a Stoccolma nel 2004.

    Pandolfo II scompare nel 1373. Ma anche su questa data c'è stato un equivoco, per fortuna meno diffuso di quello relativo alla nascita.
    Prendiamo una vecchia edizione delle lettere latine di Francesco Petrarca, quella curata da Giuseppe Fracassetti nel 1863 (vol. III, p. 373). L'epistola n. 27 (del 28 agosto 1367) delle cosiddette "Variae", diretta a Pietro di Bologna, dice che al poeta le cose stavano andando alquanto bene quando fu rattristato da due notizie, la partenza di Pandolfo Malatesti e la morte di Giovanni Pepoli.
    Petrarca da intellettuale incallito e forse soltanto per passare il tempo, fa lo spiritoso come ogni intellettuale incallito crede di essere autorizzato ad apparire in ogni circostanza.
    Infatti scrive (chiediamo scusa per la citazione latina che può provocare orticaria in chi non ci ama): "Omnia enim satis prospere ibant, nisi e duobus oculis meis alter abiisset, alter obiisset: Dominum Pandulphum loquor, ed Dominum Iohannem De Pepolis...".
    I due verbi usati da Petrarca (ecco la spiritosaggine da intellettuale), sono uguali tranne che nella lettera iniziale. "Abire" significa partire, "obire" invece tirar le cuoia.

    Nel riassunto che offre (in latino) sotto il titolo della lettera 27, Fracassetti scrive erroneamente "De obitu Pandulphi Malatestae et Iohannis Pepoli", ovvero "Della morte di Pandolfo e di Giovanni Pepoli". Quando traduce questa lettera 27 in italiano (vol. V, p. 310), Fracassetti si corregge.
    Nel sommario infatti mette: "Della partenza di Pandolfo Malatesta, e della morte di Giovanni Pepoli". La traduzione di Fracassetti del passo latino che abbiamo riportato, è la seguente: "Tutto mi sarebbe andato a seconda, se non fossero venute a turbarmi una partenza e una morte...".
    Tutto risolto? No, perché il buon Fracassetti nell'edizione italiana (quinto ed ultimo volume) delle lettere petrarchesche, inserisce un indice in cui c'è ovviamente tutto su tutti, e di Pandolfo II (p. 521) si dà la notizia della morte contenuta appunto nella lettera 27 delle "Variae".

    Un altro errore malatestiano di Fracassetti riguarda la lettera 18 delle "Variae" che nel testo latino (III, 341) è detta indirizzata "Ad ignotos". L'errore è ripetuto in quello italiano (V, p. 263).
    Edizioni più recenti invece riportano quella epistola (del 1364) con i nomi esatto dei destinatari, Pandolfo II e Galeotto detto Malatesta Ungaro perché nel 1347 nominato cavaliere dal re d'Ungheria. La lettera è importante perché esprime il cordoglio di Petrarca ai due fratelli per la scomparsa del loro padre, Malatesta Antico detto "Guastafamiglia". Essa è definita un grave danno anche per l'Italia. Di lui, aggiunge il poeta, resta il ricordo lieto di una vita gloriosa, e soprattutto più famosa di tutti gli altri contemporanei.

    Il tono di affettuosa partecipazione al dolore di Pandolfo II per la morte del genitore, conferma che sia in Petrarca sia nel politico e condottiero non restano tracce di quei contrasti che oppongono il Malatesti ai Visconti e costringono il poeta a scrivere male parole contro l'amico in nome dei propri datori di lavoro, come si è visto in una pagina precedente.
    Riposi in pace, Malatesta Antico, e la sua ombra ci perdoni se adesso parliamo della sua consorte che soltanto confuse cronache locali (detto fuori dai denti, il solito Clementini, come malignerebbe Carlo Tonini), identificano in Costanza Ondedei da Saludecio.

    Fonti lontane da Rimini parlano invece di un'altra Costanza, della casa d'Este, figlia di Azzo VIII e della sua seconda moglie, Beatrice d'Anjou, figlia di Carlo II re di Sicilia.
    La prima moglie di Azzo VIII è stata Giovanna Orsini nata da Bertoldo conte di Romagna nel 1278, il cui padre è Gentile I Orsini fratello di Giovanni Gaetano divenuto papa Niccolò III. Bertoldo conte di Romagna ha un fratello, Orso Orsini che genera un altro Bertoldo (+1344) padre di quella Paola Orsini (+1371) che diventa moglie di Pandolfo II, madre di Malatesta dei Sonetti e nonna di Cleofe.

    Le notizie delle nozze di questi signori medievali, non interessano quale motivo di pettegolezzo mondano o sessuale in stile dannunziano. Servono a delineare un contesto politico, in cui ogni matrimonio corrisponde a precisi disegni di strategia dinastica.
    Clementini ha confuso le notizie sulle Costanze che appaiono in casa d'Este e in quella dei Malatesti.
    Per non farla lunga, c'è la Costanza (I) che sposa l'Antico, e c'è la Costanza (II) che sposa in seconde nozze il figlio dell'Antico, Malatesta Ungaro, e che era nata da Obizzo III d'Este e dalla sua seconda moglie (1347) Filippa Ariosti. Per non restare nel vago, e quindi prevenire le altrui maldicenze, precisiamo: Obizzo III, signore di Modena e Ferrara, è figlio di Aldobrandino II fratello di Azzo VIII padre della Costanza (I) che sposa l'Antico.

    Non dimentichiamoci di Filippa Ariosti: pare che le nozze della nobile bolognese con Obizzo III siano avvenute soltanto in "articulo mortis", dopo che aveva dato al proprio compagno undici o più figlioli lungo un ventennio.
    Dalla sua famiglia, trapiantata da Bologna a Ferrara, germogliano "uomini illustri assai in diverse classi", come quel Ludovico Ariosto poeta, secondo quanto si legge nelle "Memorie per la storia di Ferrara" di A. Frizzi (1850, p. 313).

    Una sorella di Pandolfo II, Maxia o Masia diventa moglie di Opicino Pepoli, figlio di Giacomo il quale era fratello di quel Giovanni che abbiamo incontrato nella lettera di Petrarca del 1367.
    Giovanni e Giacomo dal 1347 al 1350 governano la città di Bologna, dopo la scomparsa del padre Taddeo. (Taddeo Pepoli è il primo signore di Bologna, nel 1337: "dottore in legge ed erede della grande fortuna immobiliare ereditata dal padre esercitando l'attività bancaria", proviene "da una famiglia borghese, che per generazioni aveva esercitato l'attività di beccaio passando poi a quella di notaio", G. Fasoli.)

    Il 1350 è l'anno in cui papa Clemente VI nomina conte di Romagna un provenzale che ha sposato una sua parente, Astorgio di Durfort da Limonges.
    Astorgio è considerato abile soltanto a ordire tradimenti, lasciar in pace i nemici e rivolgere le armi contro gli amici. Arresta Giovanni Pepoli quando si reca al suo campo per conferire con lui, la stessa sorte tocca a Giacomo.
    Per liberarli, Astorgio chiede un riscatto impossibile, 80 mila fiorini. Per averli, il 16 ottobre 1350 i Pepoli vendono Bologna all'arcivescovo Giovanni Visconti signore di Milano (per 250 mila fiorini). Astorgio si serve di quei soldi per calmare le proprie truppe che si erano ammutinate perché malpagate.

    La prima moglie di Obizzo III d'Este è Giacoma Pepoli (1317), sorella del Taddeo appena ricordato. Il loro padre si chiama Romeo Pepoli, ed è capo della cosiddetta protosignoria di Bologna.
    Da Obizzo e Giacoma nasce Violante che nel 1345 sposa Malatesta Ungaro di cui è la prima moglie. La seconda (1362) è la Costanza (II) che era pure cognata del marito, essendo sorellastra di Violante d'Este. 
    Circa Romeo Pepoli, lo storico tedesco Heinrich Leo osserva che se con i concittadini si comporta come un "guelfo oltranzista", invece si presenta "spregiudicato in politica estera tanto da favorire il matrimonio della figlia Giacoma con Obizzo III d'Este".
    Queste nozze sono un evento con valore eminentemente politico sia per i Pepoli sia per gli Este. A Bologna già nel 1316 ci sono state acque agitate a danno dei guelfi, mentre si stava formando un nuovo partito ghibellino. Ne era diventato capo appunto Romeo Pepoli, in concomitanza con il matrimonio fra sua figlia Giacoma e Obizzo III, leggiamo ancora in Heinrich Leo. Il quale aggiunge: le nozze sembrano favorire soprattutto gli Este.
    Essi nel 1317, disponendo di grandi risorse in denaro e forti di potenti alleanze, riescono a spingere una parte della borghesia ferrarese a rivoltarsi in loro favore contro la guarnigione francese, approfittando della momentanea partenza del governatore inviato in città da re Roberto di Napoli. 

    Dall'Ungaro e Violante nasce un'altra Costanza (III) che chiameremo "la peccatrice", in riferimento alla leggenda (fonte, il solito Clementini) che la vuole donna dalla "vita disonesta", e nel 1378 vittima di un delitto d'onore pensato in famiglia, mentre giaceva con un nobile tedesco.
    Costanza "peccatrice" nel 1363 sposa Ugo, il fratellastro della propria madre Violante, essendo figlio naturale di Obizzo III (+1352) signore di Ferrara dal 1329 assieme ai fratelli Rinaldo (+1335) e Niccolò I (+1344).
    La memoria di Ugo è stata tramandata anche da Petrarca in una sua lettera al di lui fratello Nicola d'Este, dove ne parla dopo la scomparsa, avvenuta il 2 agosto 1370 (Sen., XIII, 1, 5.8.1370): «Ahi! che perdemmo, [...] un che m'era per dignità signore indulgentissimo, e per amore figliuolo obbediente, il quale non per mio merito alcuno, ma per sola nobiltà dell'animo suo aveva, siccome tu sai, cominciato non tanto ad amarmi quanto a venerarmi, per guisa che più della compiacenza era in me grande la meraviglia di un affetto e di una reverenza tanto sproporzionata alla diversità degli anni nostri e della nostra condizione».

    Ferrara nel 1208 è il primo esempio di città libera in Italia, con l'elezione di Azzo VI detto Azzolino a suo signore perpetuo. Azzo ne era stato podestà (1196), ed aveva lottato a lungo (dal 1205) contro il ghibellino Salinguerra Torelli.
    Ferrara nel 1309 è ritornata alla Chiesa che l'ha ceduta in vicariato a Roberto d'Angiò re di Napoli, figlio di Carlo II e quindi fratello di Beatrice, seconda moglie di Azzo VIII.

    Gli Angioini in questi anni hanno una "presenza costantemente ambigua" nella nostra regione: al servizio della Curia, essi spesso lavorano contro i papi per sete di potere (A. Vasina). Gli Este nel 1327 sono nominati vicari imperiali di Ferrara, nel 1329 vicari apostolici. Nel 1331 essi sono infeudati dalla Chiesa. Bologna nel 1331, con il beneplacito del legato, passa in mano a Giovanni re di Boemia, padre di Carlo IV l'imperatore del tempo del nostro Pandolfo II Malatesti.

    Un'annotazione finale, in base al principio che nella Storia al "momento certosino della competenza" deve seguire "quello della verifica pubblica" (Alberto Melloni). Certi documenti del XII sec. sono stati detti da C. Curradi (1990) non autentici, senza produrre prove, ma parlando vagamente di "critica storica" avversa. La lapide (1490) della malatestiana riminese in San Francesco non ha “sum tua cura”, ma “summa tua cura”. Sulla venuta di Ciriaco d'Ancona a Rimini si accredita (1998) il 1435 e dintorni, quando fonti autorevoli dicono 1441 o 1443. Per altri testi del 1700 si scrive (2010) che non si sa dove siano: invece lo si sa, ed in molti. Basta "indagare".

    © by Antonio Montanari

    Aggiornamento della pagina, 9.11.2010.


  • Adesso di Liliano Faenza (era nato nel 1922) restano soltanto libri, articoli, saggi, il ricordo di una competenza messa più al servizio della cultura italiana che della città in cui è vissuto, Rimini. E dalla quale non si era mai voluto allontanare. Con quella pigrizia fisica che visse come sfida a se stesso prima che al mondo. Quasi per dimostrare che bastava poco per vivere “bene”. Nei limiti di un concetto di bene che nulla aveva di cattolico, ma semmai era tutto socratico.
    Quando parlava di religiosi, il gusto dell'aneddoto graffiante sui vizi segreti di certi ecclesiastici in vista, era l'inevitabile premessa all'elencazione di dati indiscutibili, cioè rispondenti alla verità effettuale delle cose. Aveva un gusto del pettegolezzo come certi scrittori che lo avevano elevato a cornice del ritratto di un personaggio.
    Conosceva i classici della letteratura come le sue tasche, non sbagliava i riferimenti, abbondava in citazioni. Non per sfoggio erudito, non per esibizionismo culturale. Soltanto per confermare all'interlocutore che, in fondo, ognuno di noi è una specie di summa dei libri letti. Perché la vita e la Storia insegnano poco, affidate come sono agli egoismi delle persone e agli affari dei gruppi di potere economico e degli apparati politici.
    Il suo modo di vivere spartano e vagamente da misantropo, s'accompagnava ad un filantropismo ideologico da socialista ottocentesco, in lotta continua con il trionfante comunismo di mezzo secolo scorso, a cui dedicava derisione e censure.
    Per formazione intellettuale avrebbe dovuto sostenere che “la Storia siamo noi”. A rappresentare l'idea poteva bastare un'immagine del “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Invece finiva per constatare con amarezza e non celato disgusto che “la Storia sono loro”, i potenti di turno che gestivano la cosa pubblica.
    Questi potenti si sono sempre disinteressati di lui. Soltanto quando ormai era molto avanti negli anni gli consegnarono un riconoscimento un po' platonico ed un po' patetico, il “Sigismondo d'oro”, più utile agli amministratori cittadini per farsi belli che ai premiati per sentirsi finalmente famosi.
    Un ricordo personale del 1961. Mi ero appena diplomato maestro elementare, avevo 19 anni. Partecipai al concorso indetto a Forlì. Mi ritrovai Faenza come vicino di banco. Già allora per noi era un mito. Lui aveva vent'anni più di me. Era laureato, lavorava alle Ferrovie dello Stato. Non aveva nessuna intenzione di cambiare mestiere. Voleva soltanto misurarsi in una prova intellettuale, ammesso che possa essere considerata tale un esame di concorso.
    Leggendario era il racconto che si faceva del suo ufficio alle FFSS. Poche carte sul tavolo, inerenti al lavoro. Poi il cassetto della scrivania semiaperto, con i libri da leggere o da citare sui fogli che Faenza andava riempiendo. Agli occhi dei superiori erano carte d'ufficio. Invece si trattava di stesure di articoli, libri, saggi che Liliano Faenza stava componendo, perché poi nel tempo fuori dall'ufficio aveva altro da fare. Passare in libreria, vedere le ultime novità, lanciare qualche divertente frecciata verso questo o quel personaggio pubblico, poi rintanarsi nella biblioteca civica a sfogliare altre carte, a pensare per scrivere altre storie. [24.7.2008]


  • La gloria del ricordo, Pandolfo II Malatesti la riceve dai biografi di Francesco Petrarca, nelle pagine che narrano la partecipazione del poeta alle lotte politiche del suo tempo. Pandolfo non brilla mai di luce propria, ma riceve timidi e confusi sprazzi di quella che illumina i racconti sulla vita del cantore di Laura. Seguendo Petrarca incontriamo Pandolfo ed altri personaggi del loro mondo, come il nobile francese Sagremor de Pommier che lavora a Milano quale agente diplomatico e fidato corriere dei Visconti. Nel 1356 lo troviamo in viaggio verso Basilea assieme a Petrarca, in missione ufficiale presso l'imperatore Carlo IV. Negli stessi momenti Pandolfo è al servizio dei Visconti quale comandante delle loro truppe.
    Carlo IV era giunto in Italia nell'ottobre 1354 diretto a Roma per ricevere la corona imperiale. La Chiesa lo aveva appoggiato sin dal 1346 quando era soltanto re di Lussemburgo e viveva l'imperatore Ludovico il Bavaro. Alla cui scomparsa (1347) Carlo ne prende il posto. Carlo è un esperto giurista: metà tedesco e metà slavo (dal lato materno), è stato educato in Francia. Molto abile a fare i propri interessi, emana la "Bolla d'oro" (1356) che lo trasforma in un imperatore senza potere, in balìa dei suoi sette elettori: gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, i principi di Palatinato, Sassonia e Brandeburgo ed il re di Boemia. Può controllare cancelleria e tesoro del regno, ma la politica la fanno gli altri (G. Sodano).
    Appena eletto re di Germania grazie all'intervento di Clemente VI (1346), Carlo giura che una volta proclamato imperatore, rispetterà i dominii della Chiesa in Italia: per questo lo chiamano "imperatore dei preti" (U. Dotti). Papa Clemente diffida, temendo che Carlo usurpi i diritti della Chiesa e non vuole incoronarlo. Le cose cambiano con l'elezione di Innocenzo VI (1352).
    Il 1356 è un anno particolare per la Francia, messa in ginocchio a Poitier dal re inglese Edoardo III che nel 1337 ha iniziato la guerra detta dei cento anni, sbarcando in quelle terre sul cui trono vantava diritti per via della madre Isabella, figlia di Filippo IV il Bello. Nel 1358 l'Inghilterra ottiene quasi un terzo della Francia per cui Edoardo rinunzia alle vecchie rivendicazioni. La Francia ne esce con le ossa rotte anche in rapporto al papato, su cui non può più esercitare alcun predominio (A. Saitta). Mentre l'Inghilterra vuol tenere a freno la Chiesa. La quale reagisce inviando da Avignone in Italia (1353) il cardinal Egidio Albornoz.
    Tra le lotte armate continentali, nel 1356 si svolge la missione di Sagremor e Petrarca a Basilea alla ricerca dell'imperatore. Lo attendono invano per un mese (Petrarca incontra vecchi amici del tempo degli studi di Diritto a Bologna), poi si avviano verso Praga, dove Carlo IV vive felice. Non si illude (ha osservato P. Lafue) sul potere della sua corona, per un sano realismo fatto di conoscenza della Storia. E soprattutto crede nel potere del denaro, non ritirandosi davanti ad imprese politicamente disoneste per intascare somme di denaro, come fa in l'Italia, e come farebbe "un qualsiasi capobanda mercenario" (C. Vivanti). L. A. Muratori è sferzante: Carlo IV attendeva più a far denaro che a guarir le piaghe della penisola. Indro Montanelli lo battezza "esoso agente di un fisco arbitrario". Cesare Cantù lo definisce un fantoccio a cui i letterati prodigavano latine adulazioni, i giuristi rammentavano i diritti imperiali ed i tiranni volentieri si rivolgevano invocandolo come giudice nei litigi politici.
    L'itinerario per Praga, durato tre settimane, è raccontato dallo stesso Petrarca quale viaggio da incubo, con una scorta armata ed in continuo pericolo per gli attacchi dei predoni. L'unica soddisfazione per Petrarca è di aver conosciuto l'imperatrice Anna Schweidnitz (terza moglie di Carlo), la sola donna a cui (congratulandosi per aver generato una femmina) indirizza una lettera (1358), considerata "un vero trattatello in lode delle donne famose" (Dotti).
    All'imperatore Petrarca, con la testa piena delle idee politiche astratte degli intellettuali, si è rivolto il 24 febbraio 1351 invocandone la discesa in Italia, per darle una regolata. Nella sua lettera, fa parlare la Roma stracciona dei suoi giorni, un tempo venerabile matrona. Petrarca guarda alle glorie del passato, forse più presenti nelle pagine degli scrittori che nella vita della gente comune di tutti i giorni. Cantù liquida la cotta di Petrarca verso Carlo IV con una brutale battuta: in Avignone l'imperatore aveva voluto vedere la sua Laura, e baciarla per ammirazione. Carlo IV gli risponde che non c'erano più i Latini di una volta: hanno perso la libertà avendo sposato la servitù.
    Nel 1355 Carlo riceve la doppia incoronazione, come re d'Italia a Milano il 4 gennaio e come imperatore in aprile a Roma, poi a metà giugno scappa dall'Italia in Boemia per non disturbare la Chiesa. Petrarca gli scrive "un'acerba lettera di rimproveri" (Dotti), dichiarando di censurarsi per non dire tutto quello che pensava di lui ("non audeo clare tibi dicere..."). "Quel sovrano di sangue di ghiaccio e di cervello lucido sapeva benissimo che il 'giardino dell'impero' era un nido di vipere" (Montanelli).
    Sagremor ha un progetto in testa per il proprio futuro, passare al servizio dell'imperatore. A cui fa scrivere una lettera di raccomandazione da Petrarca che lo presenta come ottimo soldato, gran banditore delle gesta di Carlo e profondo conoscitore delle cose segrete del poeta. Poi Sagremor cambia idea, forse constatando che la vita politica non è tutta rose e fiori. Qualche anno dopo (1367 o 1368) scrive a Petrarca di esser diventato monaco cistercense.
    A Praga, l'anno successivo rispetto a Petrarca e Sagremor, cioè nel gennaio 1357, va anche Pandolfo II quando fugge da Milano dopo la disavventura con Bernabò Visconti che lo fa imprigionare, e dopo la liberazione da parte di Galeazzo Visconti. A febbraio lo insegue Sagremor che poi ritorna a Milano, a rapporto dai Visconti con la facile notizia che Pandolfo con tutti stava sparlando di loro. Sagremor vola di nuovo a Praga dove scopre che il Malatesti si è diretto a Londra. Qui Sagremor lo raggiunge per dargli una lezione: lo sfida a duello. Pandolfo fa finta di nulla e Sagremor va a lamentarsi con il re Edoardo III. Il quale mette per iscritto quello che Sagremor gli ha riferito, per difendere l'onore del messo francese dei Visconti e denigrare l'italiano Malatesti.
    Ma il Malatesti non viaggia per conto proprio a far la malalingua per vendetta personale: è un uomo politico la cui famiglia ha appena fatto pace con la Chiesa (8 luglio 1355), soddisfatta anche per gli insuccessi viscontei del 1356 (perdita di Bologna, Pavia, Novara, Genova, Asti e d'altri possedimenti piemontesi). L'accordo con i Malatesti è per la Chiesa una prova generale di quanto poi fa con l'intero territorio del suo Stato (E. Cuozzo).
    Per questo fatto la missione europea di Pandolfo appare come parte di un progetto ecclesiastico che doveva tener d'occhio il contesto continentale, e che culmina nello stesso 1357 con le "Costituzioni" promulgate da Albornoz per sistemare una volta per tutte le questioni politiche nelle terre dello Stato della Chiesa, con un stabile ordinamento giuridico ed amministrativo.
    L'anno dopo i Visconti fanno pace con la lega che li aveva combattuti. Cantù narra che quando il papa gli chiede conto del denaro speso nella campagna durata 14 anni per domare i signori dello Stato ecclesiastico, Albornoz gli manda un carro con le chiavi di tutte le città assoggettate. Di tasca propria Albornoz lascia un'eredità per fondare a Bologna il collegio spagnolo, tuttora esistente.
    Sull'azione politica di Albornoz restano fondamentali le pagine di Gina Fasoli. Alternando trattative diplomatiche a vigorose azioni militari, Albornoz crea "un sistema di poteri locali abbastanza forti per non essere sopraffatti dai vicini, ma non tanto forti da potersi unire e formare fra di loro un blocco" mirante ad ostacolare la sovranità papale. Le "Costituzione" da lui emanate (e chiamate egidiane dal suo nome di battesimo), riprendono vecchie leggi, corrette ed adattate alle nuove esigenze. Si fornisce così "un testo che costituiva il diritto generale cui le leggi locali e particolari dovevano conformarsi". In questo contesto fa sorridere il racconto su Pandolfo II che gira l'Europa per spiegare la notizia più ovvia di tutte fra le diplomazie continentali, ovvero che Bernabò Visconti era un figlio di buona donna.
    La lettera dal re inglese consegnata a Sagremor su Pandolfo, il quale non ha accettato la sua sfida a duello, serve al francese per incassare il soldo della missione, dimostrando ai Visconti di aver fatto quanto era in suo potere per umiliare il Malatesti davanti alla più alta autorità politica del momento. Ma, dato che ogni fatto ha il suo risvolto segreto, quella lettera fa di Pandolfo un protagonista della vita continentale. Non un codardo come lo accreditava Sagremor, ma un politico che sapeva muoversi bene proteggendo dagli sguardi indiscreti il vero scopo del suo lavoro diplomatico (o segreto, che dir si voglia).
    Quando Pandolfo II arriva a Praga (1357), l'imperatore Carlo IV conosceva già dal marzo 1355 la famiglia Malatesti, per aver nominato allora suo vicario a Siena Malatesta Ungaro, fratello di Pandolfo II.

    Aggiornamento della pagina, 18.11.2010


  • Amico del Petrarca, è detto Pandolfo II nonno di Cleofe. Si conoscono nel 1356. Il poeta arriva a Milano presso i fratelli Galeazzo e Bernabò Visconti che l'inviano come ambasciatore a Praga dall'imperatore Carlo IV. Pandolfo è ingaggiato dai Visconti quale comandante dell'esercito. La situazione nei loro territori è inquieta, con una rivolta a Bologna e la minaccia del marchese del Monferrato di conquistare le città del Piemonte. Petrarca va a Praga verso la fine di maggio, passando per Basilea. Ritorna dopo tre mesi. In autunno Pandolfo si ammala seriamente. Petrarca si reca da lui quasi ogni giorno. Quando sta meglio Pandolfo restituisce le visite. Non può camminare, e si fa trasportare dai servi.
    Il vicario imperiale, vescovo di Augusta, Markward von Randeck che sta a Pisa, capeggia l'opposizione italiana ai Visconti per i danni arrecati alla Chiesa ed all'imperatore. Intima loro di discolparsi davanti a lui l'11 ottobre 1356. Galeazzo gli risponde con una lettera ingiuriosa. L'ha composta Petrarca. Il vicario si mette in marcia contro Milano: è fermato soltanto a Casorate il 14 novembre. I Visconti fanno prigioniero Markward trattandolo "decorosamente" e rispedendolo in Germania (P. Verri, "Storia di Milano", I, 1783). Novara è conquistata dal marchese del Monferrato, mentre a Genova scoppia una rivolta antiviscontea.
    Secondo il cronista trecentesco Matteo Villani (VII, 48), Bernabò teme che Pandolfo faccia troppo montare suo fratello Galeazzo nella comune signoria. Per questo lo aggredisce, minacciandolo di un'esecuzione capitale. Bernabò ha la fama di tiranno sfrenato, al cui nome "tutti tremavano né alcuno ardiva far parola. Due frati minori che osarono fare a lui stesso lagnanza di tante estorsioni li fece bruciar vivi". Per giustificarsi Bernabò accusa Pandolfo di aver corteggiato una sua concubina, Giovannola di Montebretto, che gli ha dato una bimba (Bernarda) nel 1353, quando nasce pure Marco, suo terzo figlio legittimo.
    Bernabò è un "sovrano truce e ignorante" secondo Verri. Nel 1361 accoglie due nunzi papali ad un ponte sul Lambro, imponendo loro la scelta "o mangiare o bere", cioè essere buttati nel fiume. Essi masticano tutta intera, compreso il bollo di piombo, la pergamena pontificia che gli avevano recato. Uno dei due nunzi, Guillaume de Grimoard, nel 1362 diventa papa con il nome di Urbano V.
    Nel 1367 Pandolfo II è uno dei signori che accompagnano da Napoli a Roma Urbano V, per difenderlo dai cardinali contrari al suo progetto, realizzato soltanto per un triennio, di riportare a casa da Avignone la sede di Pietro. Urbano V scomunica Bernabò, dichiarandolo eretico e comandando "che alcuno non osasse più trattare con lui". Nello stesso 1362 i messi di Padova, Verona, Ferrara e Rovigo sono fatti vilipendere dalla ciurmaglia, vestiti con tuniche bianche e mandati a cavallo in giro per Milano. Il vicario arcivescovile Tommaso Brivio è torturato. L'abate di San Barnaba, è impiccato per aver preso delle lepri.
    Bernabò si accontenta di sbattere in carcere il presunto rivale in amore. Galeazzo fa poi liberare Pandolfo che scappa da Milano e prepara la sua vendetta. La quale coinvolge il vecchio amico Petrarca, costretto a scrivere cose turche contro Pandolfo. Nel primo semestre del 1357 Petrarca si rivolge a Ludovico (Luigi) di Taranto re di Gerusalemme e Sicilia, secondo marito della regina Giovanna I di Napoli e nipote del defunto re Roberto d'Angiò.
    Giovanna, donna bella e gentile, di cuor tenero ed appassionato, era rimasta vedova del cugino Andrea d'Ungheria, un tipo selvaggio e duro, fattole sposare quando entrambi non avevano ancora otto anni. La morte di Andrea è attribuita ad uno strangolamento deciso da Giovanna e da Ludovico per coronare il loro sogno d'amore (racconta A. Levati, 1770-1841). La chiamavano la Cleopatra napoletana.
    Il titolo dell'epistola di Petrarca dice tutto, "Contro Pandolfo Malatesti". Allo stesso 1357 appartiene la lettera inviata da Petrarca ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti, in cui si parla della perfidia di Pandolfo verso il signore di Milano che invece lo aveva amato come un fratello. Bernabò non si riferisce soltanto alla storia della presunta relazione con Giovannola. Si basa su fatti veri. Pandolfo liberato da Galeazzo e fuggito da Milano, partecipa ad un intrigo internazionale in cui agisce da provetto politico, ma non per il solo scopo di togliersi la soddisfazione di sparlare dei Visconti e di danneggiarli.
    Un testimone del tempo, il dotto cronista (e notaio delle truppe viscontee) Pietro Azario, scrive che il Malatesti fu a Milano, su ordine di Bernabò, talmente offeso che, per vergogna ed altre azioni commesse contro di lui, provò dolore in perpetuo. L'esperienza personale di Pandolfo va collegata al contesto politico. I Malatesti sono in pace con la Chiesa dall'8 luglio 1355, data del documento scoperto dal cardinal Giuseppe Garampi nell'Archivio segreto apostolico vaticano, con cui si concedono ai Malatesti in vicariato le città di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone ed i loro contadini (Tonini, IV, 2, doc. CXVIII, pp. 209-224). Mentre è del 14 luglio 1356 un altro documento "garampiano" con le lodi di papa Innocenzo VI verso Malatesta Malatesti (ivi, doc. CXX, pp. 225-226).
    Matteo Villani (V, 46, p. 174) attribuisce la resa dei Malatesti alla mancanza di denaro e rendite. Dal luglio 1355, comunque essi rientrano nel gran gioco della politica. La loro sottomissione al papa "si traduce ben presto in un fattivo e duraturo rapporto di collaborazione militare" (A. Vasina), quando la Chiesa cerca di evitare che i signori cittadini "potessero far blocco fra di loro e costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio della sovranità papale" (G. Fasoli). Nel 1362 Pandolfo II sposa Paola Orsini il cui nonno Orso è figlio di un fratello di papa Niccolò III (1277-1280). Con il quale un suo altro nipote, Bertoldo fratello di Orso, nel 1278 è conte di Romagna.
    Prima a Praga e poi a Londra, Pandolfo non opera per proprio conto, o in difesa di Galeazzo Visconti. Lo dimostra un altro documento scoperto da Garampi (Tonini, IV, 1, p. 156). Pandolfo il 2 giugno 1357 è invitato dal papa a recarsi ad Avignone. Al suo posto (perché impedito dagli impegni militari con i fiorentini), va il padre che due anni prima aveva già incontrato il cardinal Egidio Albornoz legato di Romagna con il quale viaggia verso Avignone. Dove arriva il 24 ottobre e si ferma per oltre tre mesi, tornando a Rimini il 16 febbraio 1358.
    La pace con i Malatesti, si legge in Carlo Tonini (I, 391), libera il legato da una guerra che poteva essere lunga e difficile, e gli fornisce un alleato contro gli altri signori romagnoli per prendere Cesena, Forli e Faenza. Albornoz rappresenta la linea dura con i Visconti, che il papa voleva invece favorire per usarli contro gli Ordelaffi. Nel 1360 i Malatesti sono al fianco della Chiesa avversando Bernabò Visconti. Il 29 luglio 1361 alla battaglia di San Ruffillo a Bologna, Bernabò è sconfitto dalle truppe del legato guidate da Galeotto I Malatesti, figlio di Pandolfo I che era il nonno del nostro Pandolfo II. Da Galeotto I discende il ramo riminese (suo nipote è Sigismondo Pandolfo).
    I commentatori alla "Storia di Milano" (1856, p. 247) di Bernardino Corio (1459-1519) scrivono che la sconfitta dei Visconti avviene ad "opera del vecchio Malatesti di Rimini", uomo che "come tiranno e come Romagnolo, doveva essere in concetto di consumato maestro di perfidia: che di questi tempi la malvagia fede degli abitanti della Romagna era in ogni parte d'Italia passata in proverbio". Perfidia è la parola usata, come si è visto, da Petrarca contro Pandolfo nell'epistola scritta ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti.
    Nessuna perfidia invece dimostra Pandolfo II verso Petrarca. Nell'ottobre 1364 esprime a lui ed al fratello Malatesta Ungaro il suo dolore per la morte del loro padre Malatesta Antico, di cui attesta il grandissimo ricordo lasciato con la sua vita piena di gloria. Nel 1372 il Malatesti invita il poeta a Pesaro. La risposta (negativa) del 4 gennaio successivo contiene le condoglianze per la morte della moglie e del fratello di Pandolfo, e l'annuncio dell'invio delle proprie rime volgari, ovverosia il "Canzoniere", che definisce "cosucce" (nugellae).
    Pandolfo e Petrarca sanno che la vita politica (di cui entrambi sono testimoni e protagonisti), richiede sottomissioni, umiliazioni ed astuzie. Nel 1366 i Malatesti congiurano con il papa per far sconfiggere i Visconti. Con loro s'incontrano a Pavia (dove trovano Petrarca) e Milano, mentre sono diretti ad Avignone. Non è una riconciliazione, come scrive un oscuro cronista bolognese del tempo, il cartolaio Floriano Villola rilanciato nel 1949 da Roberto Weiss. Ma una manovra di aggiramento, ben descritta da Muratori (Annali, VIII, 1763). Alla fine i Visconti si dimostrano i più abili e danarosi, e possono assoldare truppe inglesi e tedesche. La loro penetrazione in Emilia è irresistibile (Fasoli).
    Circa Pandolfo II, Lorenzo Mascetta-Caracci ("Zeitschrift für romanische Philologie", 1907, vol. 31) osservando che si accetta che a soli sei anni, nel 1331, egli cominciasse una vita politica di capitano e dominatore, proponeva di anticiparne la nascita dal 1325 al 1310-15. Di ciò s'accorge nel 2004 soltanto la danese Gunilla Sävborg, concordando con i dubbi dello studioso italiano. Circa Malatesta Ungaro, Mascetta-Caracci parla di caso ancor più miracoloso, perché a soli quattro anno nel 1331 figura nei libri come capitano di Santa Chiesa. Misteri degli storici, non della Storia.