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19 Octobre 2012 à 17:55
La nuova opera narrativa di Piero Meldini è una specie di romanzo storico, se l'etichetta non suona irriverente: un racconto che prende spunto dalle pagine autobiografiche di una persona esistita davvero, Achille Serpieri. Di esse lo stesso Meldini ed Oriana Maroni avevano curato nel 1989 la pubblicazione, in una felice collana editoriale di Maggioli. Dalla provincia e dal suo mondo un po' soffocante che è al centro del lavoro appena apparso presso Mondadori, Meldini è intellettualmente emigrato dopo i ripetuti successi letterari che gli hanno procurato i quattro romanzi apparsi tra 1994 e 2004.
La pausa di otto anni finisce ora con la nuova opera dal titolo seriamente ambiguo, “Italia. Una storia d'amore”, dove il nome di battesimo della protagonista si confonde con il Paese che vive momenti drammatici alla vigilia dell'ingresso in guerra nel 1915. Il doppio binario del racconto ripercorre le cronache politiche con i giovani a Bologna che protestano in nome di un'Italia che non voleva più parole ma fatti, ovvero cannoni che sparassero contro gli austro-tedeschi e soprattutto mettessero a tacere i neutralisti.
Su questo sfondo, il protagonista del romanzo vive un'avventura d'amore (tranquillizzo i lettori, non ne cito i particolari), all'insegna del più facile discorso sentimentale. Un incontro casuale in treno da Bologna a Rimini, prelude ad una sosta nella nostra città, per raccontarla alla fine di un Ottocento languido che avvolge tutto nella nebbia della memoria.
C'è la malinconia del Kursaal, c'è l'ovvio oppio dei popoli che rende il Tempio malatestiano il monumento dell'amore tra Sigismondo ed Isotta, ci sono le audaci conferenze di Paolo Mantegazza che fanno arrossire la protagonista con imbarazzi che nascono non improvvisi, ma quasi meditati, per un eccesso di verecondia. La quale diventa l'onesto paravento delle finzioni psicologiche e sociali che soltanto alla fine si rivelano tali, quando sappiamo che la bella giovane non è quella che si è raccontata prima in treno e poi nella sosta a Rimini con il compagno di viaggio. Diceva di dover raggiungere un marito geloso, capace di compiere un delitto, se avesse scoperto la tresca con quel passeggero che ha preso il treno a Bologna diretto verso il mare. Ma quel marito è inventato come paravento sociale, ed il lettore scopre la verità soltanto alla fine, e non gliela sveleremo.
Quando Meldini pubblicò “Le avventure galanti di un sovversivo”, ovvero del ricordato Serpieri, ne fece un ritratto efficace, definendolo “generoso, passionale e doppiamente ingenuo”. Oriana Maroni ne scrisse raccontando pure la Rimini di fine Ottocento, con proprietari terrieri e grossi borghesi che avevano preso le redini dei poteri politici ed amministrativi della città, per mantenervi una struttura prevalentemente artigianale nel centro urbano e “la statica realtà mezzadrile della campagna”. Fu una scelta che, in alternativa a quella industriale, aveva il “pregio di portare denaro senza alimentare conflitti di classe”.
Da quei giorni in cui Serpieri colloca la sua vicenda sentimentale con la signora di nome Italia (tra 1868 e 1869), si arriva al loro racconto ideato da Meldini nel contesto inquieto del 1915, quando l'Italia ha una svolta per molti versi drammatica. Dopo il 1918 arriva quel 1922 della marcia su Roma di Mussolini, preannunciata dai toni violenti dei cortei studenteschi nella Bologna dell'aprile 1915.
2004. Il mercante dei destini comprati
[Fonte dell'articolo]
Ambientato nel primo Ottocento, il nuovo romanzo di Piero Meldini, "La falce dell'ultimo quarto" (Mondadori, 186 pp., 16 euro), racconta la storia di Bartolomeo Bartolini che "discendeva da svariate generazioni di commercianti di granaglie. Gli anni di abbondanza li avevano resi ricchi; quelli di carestia ne avevano raddoppiato il patrimonio: perché, piovesse o splendesse il sole, fossero i raccolti magri o abbondanti, erano sempre loro che fissavano i prezzi, loro che intascavano i guadagni". Sullo sfondo c'è una Rimini i cui abitanti hanno uno speciale genio per intrighi e pettegolezzi: litigiosi e "condiscendenti con se stessi ma inflessibili con gli altri", amano godere delle altrui sconfitte più che delle loro vittorie. Il risultato si vede: "Così la città deperiva a vista d'occhio, come un corpo i cui organi siano in guerra fra loro. E come un uomo malato, più peggiorava più si isolava dal mondo circostante". Lo speziale Gioseffo, protagonista secentesco de "L'avvocata delle vertigini" (opera seconda di Meldini, 1996) già aveva detto di Rimini: "Città ingrata, più contenta delle altrui disgrazie che delle proprie fortune, cieca ai meriti, insensibile all'ingegno. Patria disgraziata!".
Forte del suo denaro, Bartolomeo Bartolini progetta di condizionare il futuro della propria famiglia con la stessa sicurezza con cui opera negli affari. Vedovo e con un figlio che ha tutt'altri interessi, privilegia nel rapporto umano ed aziendale un nipote ex fratre che gli dà grandi soddisfazioni. L'occhio del commerciante di granaglie osserva i loro comportamenti, cerca di indirizzarne la vita secondo i propri piani. Usa come strumento le volontà testamentarie, che muta in continuazione adeguandole agli eventi sorprendenti o dolorosi e tragici che si susseguono nella sua famiglia. Quegli atti notarili che lui fa stendere con inutile preveggenza e consolatorie provvidenze, rappresentano ai suoi occhi la certezza che il destino dovrà avere il corso che lui immagina. Ma le singole esistenze del figlio e del nipote subiscono scarti dalla linea prefissata. Il libero arbitrio delle persone non si fa comperare dal mercante che detta i testamenti con la stessa arroganza con cui può dirigere le compre di grano o stabilirne il prezzo.
Bartolomeo Bartolini è un "uomo tolemaico", una di quelle persone cioè che si considerano al centro dell'universo, come era la terra nell'antico sistema soppiantato dall'eliocentrismo copernicano. E reputa che quanti gli gravitano attorno ricevano da lui luce e calore, ovvero la vita. Ma le pagine dell'esistenza quotidiana di ognuno si girano senza che il ricco mercante possa fermarle. Non gli resta che tentare di resistere al destino, alla Mietitrice che incombe nel dolore e nella malattia, con la speranza sempre più debole, che un filo, un filo soltanto di tutta la matassa esistenziale, gli conceda la possibilità di governare l'altrui destino, le sorti della ditta e della famiglia.
Ma anche quel filo si logora, probabilmente nella meccanica, continua ripetizione d'un fallimento dei suoi progetti. Il romanzo si chiude senza spiegare come e quando si spezzerà l'ultimo sogno. Il lettore può pensare che alla fine, nell'ultimo giorno, a Bartolomeo Bartolini resterà soltanto il ricordo di un'illusione, senza che niente di quanto lui avrebbe voluto e desiderato, possa avverarsi. Il destino degli altri non si compra con il denaro del testamento, non è una partita di granaglie, non è un contratto capestro, non è la forza corruttrice di un'elemosina elargita al clero per avere soddisfazione alle proprie pretese, non è il gioco mondano che permette, a lui ricco, di chiedere per i suoi due eredi la mano di ragazze aristocratiche d'una famiglia in rovina economica.
No, il destino individuale non è in vendita. E Bartolini se n'accorge ogni volta che costringe il notaio a modificare le proprie volontà: "predeterminava le esistenze dei suoi discendenti, e dei loro nati, poneva un'ipoteca sul più lontano futuro". Se n'accorge, ma non lo confessa. Va sempre avanti così, con quell'illusione che lo sorregge nella continua battaglia con la Mietitrice. Con cui dialoga anche nell'ultima pagina: "Aspetta. Che fretta hai?".
Meldini offre in questo quarto romanzo (a dieci anni dal debutto narrativo di successo con "L'avvocata delle vertigini"), un'altra prova di grande maturità artistica che s'esprime anzitutto nello stile con cui costruisce il racconto, poi nella stessa scansione degli eventi che procedono narrando la normalità di vite qualunque, nelle quali si condensano però le ferite simboliche, le angosce nascoste, le speranze tagliate di tutti.
L'abilità dello scrittore dissemina lungo il testo sapienti suggestioni che si offrono al lettore con la discrezione di appunti delicati, senza ostentazioni arroganti. Si veda la scena della nebbia, nella quale il mercante prova "una paura che affondava in ricordi antichi e che riaffiorava di tanto in tanto nei sogni. Era la paura di dissolversi; di disperdesi in una miriade di atomi disertori; di diventare polvere e fumo".
Quegli "atomi disertori" valgono da soli un'emozione che il lettore incassa sollecitando in se stesso un confronto con l'altra pagina in cui a Bartolini sembra di poter veramente raggiungere il suo scopo, combinando il matrimonio del nipote, in una splendida giornata di fine dicembre: "Il cielo era di un fulgido e immacolato color zaffiro, e il sole illuminava tutte le stanze sul davanti della casa, a cominciare dalla sala da pranzo. La luce dorata che entrava dalle finestre, alleata al tepore che spandeva il fuoco del camino annunciava la primavera". Ma quella luce e quel tepore sono un inganno, a conferma che le immagini che scorgiamo non rendono piena testimonianza della verità delle cose, come la figura del santo vescovo Gaudenzio che in piazza della Fontana, "dall'alto del piedistallo, lo guardava arcigno. Il braccio levato sopra la testa e le tre dita aperte non sembravano impartire una benedizione, ma lanciare una scomunica".
1999. Le "lune" dolorose di Meldini
[Fonte dell'articolo]
L'"avvocata delle vertigini" del primo romanzo (1994, Adelphi) non ha mai avuto il dono dell'essere nella carne e tra le cose del mondo, ma Meldini le plasma attorno una biografia che ne fa un personaggio vero, non improbabile e neppure assurdo. Anzi quasi esemplare. L'astuzia narrativa dell'autore introduce leggende che "accennavano, concordi, ad una giovinezza alquanto dissipata", a cui tenne dietro la conversione, dopo un fatto straordinario che muta radicalmente la vita di questa giovane dal nome di Isabetta. Il fatto è un tentativo di suicidio dall'alto di un campanile: ma a salvarla intervengono provvidenzialmente quelle vertigini di cui parla il titolo, e per le quali diventa protettrice di quanti soffrono del male che le impedì il salto nel vuoto.
La storia letteraria dell'"avvocata delle vertigini", è soltanto lo spunto per proiettare il romanzo da questo medioevo (letto e rivissuto attraverso pagine biografiche o documenti), alla nostra realtà contemporanea che s'intravede come sfondo alle scene che inquietano la vita di personaggi dalle esistenze sino ad allora piatte, e turbate all'improvviso proprio dalla presenza di fantasmi di carta che ben presto però diventano minacciosi eventi reali.
Nel secondo romanzo "L'antidoto della malinconia" (1996, Adelphi, Premio Selezione Campiello), Meldini intreccia le parti del suo racconto (ambientato in un cupo scenario di fine Seicento), mescolandovi gli ingredienti più vari. Un amore negato dalla famiglia a Matilde, invaghitasi dell'"uomo sbagliato", per cui viene rinchiusa in monastero. La disperazione di Matilde (figlioccia dello speziale maestro Gioseffo, ed incline "ai pensieri malinconici"), finita pur essa nel suicidio. Il violento "uomo sbagliato" che torna riverito in società, nonostante la macchia di un delitto nato, "nelle fitte nebbie del vino", da una contesa inizialmente intessuta "per gioco". E sullo sfondo Rimini, contro la quale inveisce maestro Gioseffo: "Città ingrata, più contenta delle altrui disgrazie che delle proprie fortune, cieca ai meriti, insensibile all'ingegno. Patria disgraziata!".
Gioseffo lavorava ad un trattato, da cui Meldini riprende il titolo per il suo romanzo. Lo stratagemma dell'autore moderno di rifarsi all'autore antico, di scrivere un libro su di un libro che non esiste più perché distrutto alla fine dallo stesso Gioseffo ("...cominciò a strappare le pagine a una a una. Il fuoco, onnivoro, le divora con noncurante ingordigia"), permette di realizzare (ancora una volta, come nell'"Avvocata"), una trama leggibile su due piani: in superficie, c'è il racconto delle apparenze (la vita così come ci si mostra), mentre la sottile ma intensa filigrana fa intravedere la "substantia rerum", ed i segreti individuali che si scontrano con quelle stesse apparenze.
La terza prova di Piero Meldini ("Lune", Adelphi, 1999) naviga con grande perizia stilistica in un territorio misterioso ed enigmatico, per dimostrare montalianamente che il calcolo dei dadi mai non torna. E' un racconto fatto in prima persona, nell'angoscioso momento dell'attesa di un intervento chirurgico, con il drammatico rincorrersi di silenzi pungolanti alla meditazione, con l'immagine soave e terribile di un giovane morente, con le infermiere che recano tisane, prelevano sangue. Tutto ha il colore di una paura che spinge il protagonista a spiegarsi in un "grosso quaderno con la copertina nera e i tagli rossi che ricorda un messale".
Sale quasi dall'inconscio l'immagine purificatoria del messale, dove saranno però contenute anche notizie di un carattere tutto sfrenatamente istintivo, che Meldini presenta senza alcun compiacimento, per testimoniare che Andrea Severi, il suo protagonista, vuole stendere un freddo (tuttavia compromettente) verbale a futura memoria, per chiarire a se stesso la serie degli eventi accaduti durante un viaggio in Grecia.
Il libro non si può raccontare, non solo perché la sua conclusione va compresa soltanto dopo averlo letto tutto e non anticipata per gusto di pura cronaca; ma anche perché una volta giunti a quella conclusione, si deve ripassare mentalmente tutta l'opera, cercare di coglierne la struttura ed il valore simbolico dell'indecifrabilità del mondo in cui viviamo, testardamente convinti di essere, tutti noi, registi astuti nell'ideare e costruire ogni passo, ogni momento e situazione.
L'abilità dell'autore sta nel presentarci questa storia complessa con la massima semplicità possibile, con quella 'leggerezza' che può nascere soltanto da un perfetto controllo tecnico e formale della materia. Senza di essa, il racconto avrebbe avuto il carattere non dello straordinario, ma dell'ovvio e del quotidiano; e non avrebbe reso il senso della ricerca del filo per dipanare la matassa delle incongruenze, delle contraddizioni e delle incomprensioni che ci accompagnano.
C'è una frase in cui Meldini riassume il senso del 'castello' entro cui agiscono i suoi personaggi: "Quando, nella rassicurante casualità dei fatti, ci sembra di cogliere una traccia di maligna ostinazione, invochiamo il destino. Qualche volta succede anche a me di pensare che una volontà misteriosa governi gli eventi [...]".
Verso la fine del suo 'verbale', ad Andrea Severi sembra che le parole scritte su quel quaderno si scompongano e ricompongano "per cancellare questa storia". Ma la vita non si cancella. Aspetta di essere raccontata. Sempre.
1996. La malinconia, "epidemia del secolo"
[Fonte dell'articolo]
A due anni dal fortunato esordio con "L'avvocata delle vertigini", Piero Meldini torna in libreria e conferma la sua qualità di felice, originale narratore. Il nuovo libro "L'antidoto della malinconia" (Adelphi, lire 22.000), prosegue il discorso tematico avviato con l'opera prima, di cui ha la stessa natura di racconto filosofico. Rispetto ad essa, presenta però una visione più amara e tragica della realtà umana. Se Isabetta veniva salvata provvidenzialmente dal suicidio, il protagonista di questo secondo romanzo (lo speziale maestro Gioseffo), non ha nessuno che lo trattenga dal mettere in atto il suo disperato progetto.
Nella conclusione della vicenda di maestro Gioseffo, il lettore avverte con commozione la discesa della parabola esistenziale di un personaggio che attraversa le varie scene (della vita e del libro), con una lucida e sofferta meditazione la quale sottolinea, momento dopo momento, ansie, contraddizioni, persecuzioni quotidiane.
Ancora una volta, Meldini intreccia le parti del suo racconto (ambientato in un cupo scenario di fine Seicento), mescolandovi gli ingredienti più vari. Un amore negato dalla famiglia a Matilde, invaghitasi dell'"uomo sbagliato", per cui viene rinchiusa in monastero. La disperazione di Matilde (figlioccia dello speziale, ed incline "ai pensieri malinconici"), finita pur essa nel suicidio. Il violento "uomo sbagliato" che torna riverito in società, nonostante la macchia di un delitto nato, "nelle fitte nebbie del vino", da una contesa inizialmente intessuta "per gioco". E sullo sfondo Rimini, contro la quale inveisce maestro Gioseffo: "Città ingrata, più contenta delle altrui disgrazie che delle proprie fortune, cieca ai meriti, insensibile all'ingegno. Patria disgraziata!".
Gioseffo lavorava ad un trattato, da cui Meldini riprende il titolo per il suo romanzo. Lo stratagemma dell'autore moderno di rifarsi all'autore antico, di scrivere un libro su di un libro che non esiste più perché distrutto alla fine dallo stesso Gioseffo ("...cominciò a strappare le pagine a una a una. Il fuoco, onnivoro, le divora con noncurante ingordigia"), permette di realizzare (ancora una volta, come nell'Avvocata), una trama leggibile su due piani: in superficie, c'è il racconto delle apparenze (la vita così come ci si mostra), mentre la sottile ma intensa filigrana fa intravedere la substantia rerum, ed i segreti individuali che si scontrano con quelle stesse apparenze.
La dimostrazione di questo procedere (ambiguo non in sé, ma tale soltanto perché rispecchia e riproduce la duplicità dell'esistenza), è proprio nella pagina conclusiva del romanzo di Meldini. Il notaio Bentivegni, cronista della città e fonte preziosa per i futuri "avveduti" lettori, annota "addì 7 novembre 1690" la notizia del ritrovamento del corpo di maestro Gioseffo, e riferisce sul libro da cui egli attendeva la fama: "Il manoscritto non è stato trovato. C'è chi dice che maestro Gioseffo l'abbia distrutto in un moto d'ira. Chi mormora che gli sia stato rubato. I più maligni insinuano che non sia mai esistito se non nella sua immaginazione, fervida quanto alterata. Costoro sostengono che le pagine del libro che lo speziale porse al suo augusto protettore, in accademia, fossero tutte bianche".
Le ultime righe della citazione riferiscono l'avvenimento in cui culmina la vicenda personale di Gioseffo. Accortosi che l'"augusto protettore" (un gelido cardinal Legato), non aveva letto neppur una delle numerose lettere che gli aveva scritto con sofferta elaborazione, Gioseffo gli si ribella proprio nel momento che doveva esser per lui di maggior gloria, sotto gli occhi di tutta la ridicola "accademia dei Pennuti". All'"augusto protettore", egli non porge l'omaggio del libro, ma pronuncia parole che suonano estranee e stonate, in quell'ambiente, come risultava a lui stesso la sua voce: ""Tiranni come la sorte," mormorò "e altrettanto ciechi, i Grandi concedono i loro favori, o li negano, come detta loro il capriccio. [...] Fieri del loro potere, abbagliati dalla loro bellezza, appagati dalla loro perfezione, i Grandi" disse "non vedono e non sentono. [...] Ma che preghiamo o imprechiamo," gemette "che sussurriamo o gridiamo, la nostra è la voce di poveri uomini. Di poveri uomini inascoltati."".
Messo a tacere, tra i rumori di protesta dell'aula, lo speziale fece ritorno a casa, per scrivere l'ultimo capitolo della sua vita, consistente nel cancellare col fuoco il libro in cui aveva cercato di distillare sapientemente l'antidoto alla malinconia, "veleno dei letterati" ed "epidemia del secolo". Dalla fine di quel libro -di Gioseffo-, comincia questo -di Meldini-, cioè inizia il gioco letterario che l'autore moderno argutamente conduce, rendendosi complice ed antagonista al tempo stesso, dello scrittore antico. Dalle ceneri delle pagine di Gioseffo, prendono forma le pagine di questo 'malinconico' romanzo riminese.
1994. "L'avvocata delle vertigini"
[Fonte dell'articolo]
Il romanzo di Piero Meldini ha una struttura composita: si presenta sin dall'inizio come un racconto fitto di misteri, e finisce per essere in sostanza il resoconto probabile dell'unico mistero che attanaglia l'uomo, quello della sua stessa esistenza.
Per rendere questa struttura, l'autore fa ricorso ad una serie di artifizi narrativi, con abbondanza di provocazioni letterarie che attirano il lettore all'interno di una specie di labirinto, ove si mescolano suggestioni eleganti e disperati resoconti di cronaca nera: è una specie di grande gioco delle ombre cinesi, o se si vuole una specie di riproposta del mito platonico della caverna. Le cose che ci stanno di fronte, che cosa rappresentano? Gli accadimenti, anche i più tragici, a che servono, da chi sono voluti? Il fattaccio di sangue, le tracce che spaventano i frettolosi passanti di una città qualsiasi (ma sappiamo, è la nostra città), hanno una loro logica, o sono uno scherzo del destino? O piuttosto non qualcos'altro ancora, che non sveliamo per non togliere al lettore il gusto di scoprire da solo significati, meriti e sostanza di questo romanzo.
La storia parte dal personaggio a cui va l'onore del titolo del libro, quell'"avvocata delle vertigini" che non è mai esistita storicamente. Quando Alberto Cousté ha presentato tempo fa, alla Sala degli Archi, il suo "Sigismondo" edito da Longanesi, un romanzo storico che non teme l'invenzione, ha dovuto rispondere all'osservazione di chi gli faceva notare che a Pesaro non si trova una certa porta di cui parla nel libro. La sua risposta è stata: "Non c'è, ma io l'ho vista".
Anche la nostra "avvocata delle vertigini" non ha mai avuto il dono dell'essere nella carne e tra le cose del mondo, ma Meldini le plasma attorno una biografia che ne fa un personaggio vero, non improbabile e neppure assurdo. Anzi quasi esemplare. L'astuzia narrativa dell'autore introduce leggende che "accennavano, concordi, ad una giovinezza alquanto dissipata", a cui tenne dietro la conversione, dopo un fatto straordinario che muta radicalmente la vita di questa giovane dal nome di Isabetta. Il fatto è un tentativo di suicidio dall'alto di un campanile: ma a salvarla intervengono provvidenzialmente quelle vertigini di cui parla il titolo, e per le quali diventa protettrice di quanti soffrono del male che le impedì il salto nel vuoto.
La storia letteraria dell'"avvocata delle vertigini", è soltanto lo spunto per proiettare il romanzo da questo medioevo (letto e rivissuto attraverso pagine biografiche o documenti), alla nostra realtà contemporanea che s'intravede come sfondo alle scene che inquietano la vita di personaggi dalle esistenze sino ad allora piatte, e turbate all'improvviso proprio dalla presenza di fantasmi di carta che ben presto però diventano minacciosi eventi reali.
Piero Meldini è scrittore e saggista da una vita e lavora come direttore della Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini. E al centro del romanzo troviamo proprio un bibliotecario, il cui cognome (Manara) riecheggia il nome di quel Manara (Valgimigli) che fu anch'egli bibliotecario ed illustre studioso. Con il personaggio Manara, Meldini all'inizio si è divertito: lo ritrae come colui che spopola la biblioteca Giacomo Antonio Passeri che finisce per non avere più lettori, per poter "trasmettere lo scibile, intonso, a improbabili posteri".
Nell'evolversi del racconto, il paradosso e l'invenzione cedono il passo ad una sofferta riflessione sulla realtà ultima della vita: "Oggi mi sono chiesto, non rida, se Dio esiste [...] E come sarà di là [...]. Perché ogni Sua manifestazione è una minaccia?". E poi ancora: "Affacciato alla finestra, il vescovo riascoltava, tremante, le parole di Agostino: "Cercavo da dove viene il male, e lo cercavo male, e non scorgevo il male della mia ricerca"".
L'impianto e lo svolgimento di quest'opera ne fanno un racconto filosofico: il lettore viene condotto a riflettere su pagine che Meldini ha composto con attenzione e passione. C'è in esse una grande sapienza narrativa che si esprime sia nella costruzione stilistica sia in quella della trama, ove il vivere attuale trova posto come qualcosa di impensabile o strano: il clima del racconto sembra infatti proiettare la vicenda in una situazione antica, invece tutto si svolge ai nostri giorni, a cui sono collegati i tempi fuggiti dell'"avvocata delle vertigini".
Vertigini che ritornano simbolicamente a chiudere le pagine in cui "una furtiva invocazione" ad Isabetta si accompagna al "grido muto al Dio appeso in cucina dell'infanzia fiduciosa, roseo e benedicente". È qui che il vescovo riascolta Agostino, e "a sua immagine e somiglianza, sentì, il Signore Dio suo era infelice".
Archivio Scrittori riminesi
Antonio Montanari