• Il ruolo di Rimini nell'industria dell'ospitalità è bene illustrato dalla prof. Annunziata Berrino, docente di Storia Contemporanea alla Università Federico II di Napoli, nella sua "Storia del turismo in Italia" (Bologna 2011). C'è lo stabilimento dei conti Baldini, finanziato dalla Cassa di risparmio di Faenza, 1843. Ci sono gli investimenti pubblici (1873) voluti da "un influente gruppo di proprietari-consiglieri, che riesce a scaricare sul bilancio comunale i rischi di un investimento che appare ai privati ancora troppo rischioso".
    Il Comune ha gravi perdite. Si favorisce soltanto la ricchezza privata. Nel 1890 si incentivano i villini economici. La gente arriva non più per curarsi al mare, ma per divertirsi in Riviera. Agli inizi del 1900 Rimini domina l'Adriatico, mentre Viareggio regna sul Tirreno.
    Nel 1931 il mitico podestà Pietro Palloni scrive al sottosegretario agli Interni, Leandro Arpinati, un ex operaio anarchico di Bologna, "una lettera lucidissima e drammatica": in Italia manca qualsiasi intervento dello Stato nella propaganda e valorizzazione delle stazioni turistiche comunali.
    Il tema era allora molto discusso. Lo ha affrontato nel maggio 1928 e nel dicembre 1930 Valfredo Montanari sulla rivista "Turismo d'Italia", come si legge in un altro lavoro della prof. Berrino, relativo alla nascita delle Aziende di Soggiorno (1926), pubblicato da "Storia del turismo. Annale 2004" (Milano 2005).
    Il podestà Palloni è nominato il 18 aprile 1929. Il 10 febbraio 1930 Valfredo Montanari prende servizio al Comune di Rimini come Capo Ufficio ai Servizi Balneari e Contabilità dell'Azienda di Cura, con delibera podestarile del 20 gennaio 1930.
    Il ruolo di studioso del turismo svolto da Valfredo Montanari (1901-1974) negli anni Trenta, emerge anche da un testo apparso nel 1997 in Finlandia (a cura di Taina Syrjämaa, "Visitez l'Italie. Italian State Tourist Propaganda Abroad 1919-1943. Administrative Structure and Practical Realization"). Dove si cita un suo articolo del 1933 dedicato a "La pubblicità collettiva". Taina Syrjämaa appartiene alla "School of History, University of Turku". Il suo libro ha avuto sei edizioni. Per il 2011 Turku è una della capitali europee della cultura.
    Il volume di Berrino parte dai viaggiatori del 1800 e si conclude con un accenno alla crisi del modello turistico romagnolo, ed alla nascita del divertimentificio, citando un testo di P. Battilani del 2002: il rumore soppianta la vacanza tranquilla.

    Antonio Montanari
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  • Gioacchino Murat nel 1815 inizia la sua avventura politica. La dichiarazione di guerra è del 15 marzo. Il 30 successivo egli pubblica a Rimini il "Proclama" agli italiani. Con l'armistizio del 20 maggio l'avventura s'interrompe. Murat si rifugia in Corsica e progetta nell'ottobre la riconquista del Regno di Napoli. "Sbarcato presso Pizzo di Calabria con pochi seguaci, fu quasi immediatamente catturato dai borbonici e condannato a morte da una commissione militare. Cadde coraggiosamente colpito da un plotone d'esecuzione il 13 ottobre 1815" (G. Candeloro). Era nato il 25 marzo 1767. Nel 1800 aveva sposato Carolina Bonaparte, sorella minore di Napoleone, nata il 25 marzo 1782.
    A Rimini la notizia dell'uccisione di Murat arriva il 24 ottobre. In suo nome l'11 aprile, racconta C. Tonini, alcuni sediziosi avevano percorso le strade della città gridando "Viva l'indipendenza, viva il re Gioacchino, morte ai preti, morte ai papisti". Poi hanno tentato di assalire le case di persone reputate avversari politici, e quelle di quattro sacerdoti. Il notaio e cronista M. A. Zanotti commenta l'esecuzione di Murat: così terminavano miseramente le glorie di quest'uomo che sei mesi prima aveva superbamente cavalcato per la città, alla testa di poderose armate.
    Il 27 aprile a Rimini (scrive G. C. Mengozzi) si è verificato "un grave tumulto popolare" di cui fa le spese (con l'arresto) la marchesa Orintia Romagnoli in Sacrati, poetessa cesenate, che era stata grande benefattrice di Aurelio Bertòla, poeta riminese. Gli aveva prestato i soldi necessari all'acquisto di un podere nella Parrocchia di San Lorenzo a Monte. Era il 1794. Due anni dopo Bertòla scappa da Rimini, tentando inutilmente di passare a Firenze e poi a Vienna, dove era stato nel 1778 all'epoca della Nunziatura del riminese Giuseppe Garampi. Si ammala a Bologna. Di qui alla Sacrati chiede che gli procuri "il sussidio" (la piccola pensione universitaria da Pavia): "torno al nido; ma nell'incertezza m'espongo alla mendicità". La miseria lo costringe ad accettare (agosto 1797) il compito di redigere un "giornale patriottico" per i francesi.
    Il tumulto del 27 aprile 1815 divide la città in due "fazioni inclini a sostenere anche con la violenza i propri ideali": da un lato ci sono "i fidelini o papalini, forti nella campagna, fra gli artigiani e naturalmente fra le famiglie di più antica nobiltà" (Mengozzi). Molti nobili sono con Murat: lo festeggiano al Casino Civico, attivo sin dal 1803.


  • Il 18.2.1861, nominato senatore l'anno prima (29.2), il "possidente" e "nobile di servizio" Alessandro Manzoni partecipa a Torino alla prima seduta del parlamento, "testimoniando così quella sua piena adesione al Risorgimento, che in più occasioni aveva dimostrato con le sue odi civili, con i suoi figli combattenti sulle barricate milanesi del 1848" (G. Getto).

    Prima della nomina a senatore, Manzoni ha rifiutato onori politici prestigiosi: "quel Senato era il simbolo dell'unità della patria ch'egli aveva sempre auspicata" (P. Bargellini). Nel 1862 Manzoni riceve la visita di Garibaldi nella casa di via Morone, come si vede nell'opera dipinta nel 1863 da Sebastiano De Albertis (1828-1897), conservata al Museo del Risorgimento di Milano.

    Le prime liriche civili di Manzoni nascono tra 1814 e 1815. Il fallito tentativo di Gioacchino Murat di coalizzare le forze italiane contro l'Austria nel 1815, gli suggerisce l'incompiuto "Proclama di Rimini", pubblicato soltanto nel 1848. Vi si legge quel famoso verso 34, "Liberi non sarem se non siam uni", che Manzoni stesso giudicò "brutto". Ribadiva F. Martini sulla "Nuova Antologia" (1894): si tratta di uno dei più brutti versi mai fatti da Omero in poi, con cui però s'afferma una grande verità.

    La spedizione di Murat ed il suo proclama da Rimini agli Italiani che voleva renderli liberi ("... l'ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente"), sono eventi che "aguzzavano il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà" (F. De Sanctis).

    "Appena Murat, entusiasta della marcia di Napoleone in Francia, invase lo Stato pontificio e lanciò il proclama di Rimini, che invitava gli italiani all'indipendenza, l'Austria di Metternich poté additarlo come aggressore e dichiarargli guerra" (U. Castagnino Berlinghieri). Illuso da speranze che i fatti dovevano poi crudamente smentire, il 15 marzo Murat aprì la guerra proclamando poi il 31 marzo l'indipendenza dell'Italia. Fu breve la sua fortuna: "Gli Austriaci lo vinsero in campo; i popoli lo disertarono nella sventura, e il 20 Maggio [...] il nome di Gioachino Murat cancellavasi a Casalanza dal novero dei Re" (F. Mistrali, 1857). A "Casa Lanza", un'antica masseria nei pressi di Capua, a Pastorano (Caserta), fu firmato il trattato tra l'esercito austriaco e quello di Murat re di Napoli.


  • Il nome della città di Rimini risuona nel parlamento del Regno d'Italia il 3 dicembre 1861. Il deputato Angiolo Brofferio tratta il tema dell'ordine pubblico, già affrontato dall'aula il 2 aprile con parole molto dure circa la mancanza di sicurezza pubblica nel novello Stato. Il che significava, era stato detto, pienissima libertà accordata ai ladri ed al ladrocinio. 
    Ma non è tutta colpa del regno d'Italia. Secondo fogli bolognesi del tempo, l'ordine sociale delle nostre terre era già stato turbato dalle scarcerazioni concesse dopo l'annessione del marzo 1860. Si rimpiange il vecchio sistema, tuttavia accusato di usare il pugno di ferro senza guardare troppo a tutte le virgole ed a tutti i punti negli ordini di carcerazione.

    Il moto di Rimini del 1845
    In un volume del 1869, emblematicamente intitolato "Storia dei ladri nel Regno d'Italia", un capitolo è riservato al capo della Polizia di Torino, Filippo Curletti. Il quale "invece di arrestare i ladri e gli assassini era di balla con loro, li aiutava di sottomano, li soccorreva di lumi, di mezzi, di armi, li difendeva dall'essere scoperti ed arrestati, e partiva con loro l'infame bottino". Curletti nel 1859 era stato condotto con sé da Massimo D'Azeglio a Bologna per governare le Legazioni sottratte al Papa. 
    D'Azeglio è l'autore di un celebre testo legato alle vicende risorgimentali di Rimini, "Gli ultimi casi di Romagna" (1846), dove scrive: "Io stimo intempestivo e dannoso il moto di Rimini" del settembre 1845 che, guidato da Pietro Renzi, ha portato ad un effimero governo provvisorio. I suoi capi fuggirono per mare o ripararono in Toscana dove furono arrestati. Secondo D'Azeglio, pochi uomini non avevano il diritto di giocare con un tiro di dadi "la sostanza, la quiete, la libertà, la vita di un numero incalcolabile" di concittadini.
    Curletti da Bologna va poi a Firenze, Perugia e Napoli. Dovunque con la fama di essere "capo di assassini". Alla fine del 1860, "i bolognesi scrissero una petizione perchè il conte di Cavour, che dicea di averli redenti dal Papa, li redimesse dai ladri".

    Brofferio, che tradì i compagni
    Nel libro del 1869 si cita anche Rimini, partendo dagli "Atti parlamentari" (p. 1313) che riportano l'intervento di Brofferio del 3 dicembre 1861: "Quello che accade a Bologna, o signori, accade parimenti a Ferrara, ed a Cesena, ed a Forlì, ed a Rimini, e dovunque". Brofferio aveva aggiunto: "Il Governo non si accorge che la sua polizia è composta d'uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d'ogni specie. Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò ne' criminali dibattimenti, comprano l'impunità dividendo colla polizia l'infame bottino".
    L'Italia non è ancora nata, e già si cerca di smontarla proprio nel meccanismo più delicato sotto il profilo politico, quello dell'ordine pubblico.
    Brofferio (1802-1866) fu giornalista, poeta, avvocato penalista, e leader della sinistra costituzionale di Torino. Che guida assieme a Lorenzo Valerio (1810-1865), direttore di periodici popolari ispirati al suo convincimento che "l'ignoranza è la massima e la peggiore delle povertà". Valerio siede in parlamento dal 1848 sino alla morte, battendosi per l'istruzione pubblica e l'obbligo scolastico. 
    Brofferio è un "gran parlatore, grafomane, gigione", simpatico a Cavour (G. Dell'Arti). Quando conosce il carcere per motivi politici, si dedica alla satira in versi per minare con il ridicolo il campo dell'avversario (P. Bargellini). Nel 1831 ha partecipato alla congiura dei "Cavalieri della Libertà". Arrestato, ha fatto i nomi dei compagni in cambio dell'impunità. I "Cavalieri" sono una loggia massonica operante dal 1830, con ramificazioni nella stessa Guardia reale. Nella "Storia di Torino" (1959) di Francesco Cognasso (1886-1986), essi sono definiti "ingenui retori, che parodiavano la rivoluzione del 1821". (A proposito di Massoneria: a Forlì dal 1818 era attivo un Capitolo Rosa-Croce che dipendeva dal Grande Oriente di Toscana, secondo il gesuita Michele Volpe, autore di un'importante storia del suo Ordine a Napoli, ivi 1914-15.)
    Laurana Lajolo (2003) ricorda che Brofferio "condusse una battaglia per l'abolizione della pena di morte e della tortura, per la quale presentò un progetto di legge, che, a sorpresa, fu approvato, ma il governo non diede corso al provvedimento. La sua passionalità di tribuno lo portava, con coerenza politica, ad esaltare gli ideali ed era appagato dal discorso ad effetto, sempre condotto a braccio con un'assoluta naturalezza, che affascinava l'uditorio".

    I delitti di Rimini
    Sono toni "ad effetto" anche quelli usati quando cita Rimini. In sua difesa, va detto che i giornali bolognesi del tempo denunciano le stesse cose. Il "Corriere dell'Emilia", diretto da Gioacchino Napoleone Pepoli (destinato a brillante carriera politica), annota nel giugno 1860: "E' vergogna che in una città civile come Bologna non si possa essere sicuri della propria vita". Pepoli è figlio di Letizia Murat, quindi nipote di Gioacchino, quello del proclama di Rimini del 1815.
    A proposito dell'esser sicuri della propria vita, le paure della gente sono legate anche agli episodi di violenza accaduti negli anni precedenti. A Rimini fra 1847 e 1859 undici persone sono vittime di delitti politici. Il più famoso riguarda nel 1856 un francese "rivoluzionario", Vittorio Tisserand, cancelliere del vice consolato di Francia a Rimini, imprenditore e marito della contessina Mariuccia Ricciardelli, commerciante. Il 19 marzo 1864 sarà ucciso il sarto Nicola Nagli, ex carbonaro, agente segreto antipontificio, poi Commissario di Polizia dopo la fine del governo papale nel 1859. Sia Tisserand sia Nagli sono stati eletti in Consiglio comunale nel 1849, all'epoca della Repubblica romana, con 288 e 239 voti su 372 elettori.

    Tonini accusa la libertà
    Le notizie riminesi su questi atti di violenza politica sono molto scarse. Le dobbiamo agli appunti di Luigi Tonini che non si dilunga sul tema, assumendo un tono di censura verso i nuovi tempi, corrotti dal diffondersi della "libertà". Tonini infatti "alla realtà del suo tempo aderì molto scarsamente", come osservò lo studioso Mario Zuffa, bibliotecario della Gambalunghiana. 
    Delitti simili avvengono pure nelle Marche. In un testo relativo a Pesaro-Urbino (di Stefano Lancioni e Maria Chiara Marcucci, Fano 2004), si legge: "Il Risorgimento fu un'età di nobili passioni e generose battaglie, ma anche di assassinii di nemici politici o personali, organizzati ed effettuati da affiliati alle società segrete, che mascheravano talvolta vere e proprie sette omicide. Già nel 1847 si contano gravi fatti di sangue nella nostra provincia [...]. A Fano il 3 gennaio 1848 fu ferito a pugnalate da ignoto il conte Luigi Borgogelli, conservatore; alla fine dello stesso mese fu assassinato da ignoti il direttore postale della città metaurense, contrario alle riforme. Assassinio eccellente il 4 febbraio 1848 a Pesaro: fu pugnalato a morte Giuliano Fiocchi Nicolai, segretario generale della legazione di Urbino e Pesaro, patrizio pesarese e in procinto di iniziare un impiego di prestigio a Roma".
    Fu scritto che l'assassino dagli amici al caffé "ebbe battimani e vino [...]. Non si appurò da chi venne l'idea né chi commissionò il delitto, ma nessuno dubitò che la morte del Nicolai venne ideata e decisa fra la gioventù liberale ed esaltata" della città.
    "Negli ultimi mesi del 1848 si fece gravissima la situazione dell'ordine pubblico soprattutto a Senigallia", con la fazione repubblicana che fu chiamata "lega degli ammazzarelli", per i numerosi omicidi di cui fu responsabile in quegli anni. A Pesaro "un gruppo di popolani 'democratici' defezionò dalla società carbonica e, sotto la guida di Giulio Grilli, cominciò a riunirsi" nell'osteria di Angelo Lombardi assumendo il nome di "Lega Lombarda". Pure l'oste fu assassinato.

    Saccheggio a Pesaro
    Per spinta della "Lega lombarda" il 19 novembre 1848 la folla "saccheggiò il palazzo apostolico senza che nessuno intervenisse; il 22 il popolo assalì una barca carica di generi alimentari, distribuiti al popolo. [...] Il 19 gennaio 1849 si registrano anche gravi disordini a Senigallia (fu assalito l'appartamento del Vescovo); in quella città il problema principale era però costituito dal mantenimento dell'ordine pubblico", messo in crisi dalla setta "degli ammazzarelli", che "sparse il terrore, tra la fine del 1848 e i primi mesi (almeno fino ad aprile) del 1849, con un'impressionante serie di omicidi: la situazione di terrore, completamente sfuggita di mano ai patrioti locali, si protrasse fino all'arrivo degli Austriaci".
    Torniamo a Rimini ed al 1860, quando Giuseppe La Farina, siciliano, carbonaro e massone, ricorda la nostra città in un suo proclama indirizzato nel maggio ai soldati italiani al servizio del Borbone e del Papa: "La bandiera sacra de' tre colori è inalberata da Susa a Rimini...". Altra memoria locale, tratta dal "Rapporto intorno all'attacco ed alla presa del Forte di S. Leo" del 28 settembre 1860, è questa: "Nel nostro ingresso nella città di Rimini ci si presentò un commovente spettacolo della popolazione che si gettava ai nostri piedi baciandoci la mano per averla salvata dal dispotismo della guarnigione austriaca che occupava il loro paese, e nella sera un'illuminazione generale festeggiava il fausto avvenimento".
    Dagli "Atti parlamentari", 2 dicembre 1861: "Il sindaco di Rimini trasmette un'istanza della ditta Legnani per diminuzione del prezzo del sale occorrente alla fabbricazione della soda".


    Scheda.

    Manzoni ed "Il Proclama di Rimini" del 1815

    Il 18.2.1861, nominato senatore l'anno prima (29.2), il "possidente" e "nobile di servizio" Alessandro Manzoni partecipa a Torino alla prima seduta del parlamento, "testimoniando così quella sua piena adesione al Risorgimento, che in più occasioni aveva dimostrato con le sue odi civili, con i suoi figli combattenti sulle barricate milanesi del 1848" (G. Getto).

    Prima della nomina a senatore, Manzoni ha rifiutato onori politici prestigiosi: "quel Senato era il simbolo dell'unità della patria ch'egli aveva sempre auspicata" (P. Bargellini). Nel 1862 Manzoni riceve la visita di Garibaldi nella casa di via Morone, come si vede nell'opera dipinta nel 1863 da Sebastiano De Albertis (1828-1897), conservata al Museo del Risorgimento di Milano.

    Le prime liriche civili di Manzoni nascono tra 1814 e 1815. Il fallito tentativo di Gioacchino Murat di coalizzare le forze italiane contro l'Austria nel 1815, gli suggerisce l'incompiuto "Proclama di Rimini", pubblicato soltanto nel 1848. Vi si legge quel famoso verso 34, "Liberi non sarem se non siam uni", che Manzoni stesso giudicò "brutto". Ribadiva F. Martini sulla "Nuova Antologia" (1894): si tratta di uno dei più brutti versi mai fatti da Omero in poi, con cui però s'afferma una grande verità.

    La spedizione di Murat ed il suo proclama da Rimini agli Italiani che voleva renderli liberi ("... l'ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente"), sono eventi che "aguzzavano il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà" (F. De Sanctis).

    "Appena Murat, entusiasta della marcia di Napoleone in Francia, invase lo Stato pontificio e lanciò il proclama di Rimini, che invitava gli italiani all'indipendenza, l'Austria di Metternich poté additarlo come aggressore e dichiarargli guerra" (U. Castagnino Berlinghieri). Illuso da speranze che i fatti dovevano poi crudamente smentire, il 15 marzo Murat aprì la guerra proclamando poi il 31 marzo l'indipendenza dell'Italia. Fu breve la sua fortuna: "Gli Austriaci lo vinsero in campo; i popoli lo disertarono nella sventura, e il 20 Maggio [...] il nome di Gioachino Murat cancellavasi a Casalanza dal novero dei Re" (F. Mistrali, 1857). A "Casa Lanza", un'antica masseria nei pressi di Capua, a Pastorano (Caserta), fu firmato il trattato tra l'esercito austriaco e quello di Murat re di Napoli.


  • L'uccisione di Nicola Nagli nel 1864 suscita vasta eco. Gli amici lo ricordano come operaio instancabile, padre di famiglia accurato, patriota animoso, indefesso, integro che per 40 anni ha sfidato ogni tempesta della tirannia a riscatto della comune madre Italia. Il sottoprefetto Viani scrive: "Il vile assassino sente in oggi che non sono più i tempi che il Governo reggevasi coll'immoralità, e la Giustizia poggiava sulla corruzione e la debolezza".
    Alla Società di Mutuo Soccorso, di cui è stato promotore, il presidente Alessandro Baldini ne ricorda le virtù di padre di famiglia, instancabile ed umile artigiano, benefattore che non guardava alle idee di chi bussava alla sua porta ed accoglieva pure chi gli aveva recato offese gravissime. Nagli ha ereditato il sentimento politico del padre Lorenzo, a cui le aspirazioni al nazionale risorgimento costarono prigionie e sciagure. Aborriva tutti i segretumi e l'ipocrisia di chi aveva mire ambiziose celate sotto lo scopo di patrio riscatto. Da uomo del partito liberale (il Comitato riminese è del 1853) vide dissensi e divisioni come sorgenti di lotta e di debolezza.
    Prima di Nagli, fra 1847 e 1859 a Rimini altre undici persone sono vittime di delitti politici: Massimiliano Pedrizzi mercante di cereali (1847); il figlio del notaio Giacomo Borghesi, un cappellaio, l'avv. Mario Fabbri, ed il falegname Tamagnini colpito per sbaglio al posto di Michele Barbieri fervente sostenitore del papa (1848); il presunto autore dell'uccisione del cappellaio, e don Giuseppe Morri molto caldo contro i liberali (1849); il caldo papalino dottor Raffaele Dionigi Borghesi (1850); il vicesegretario del Comune Antonio Clini che si occupava molto di politica (1854); il francese Vittorio Tisserand sposo della contessina e commerciante Mariuccia Ricciardelli (1856); il cappellaio Terenzo (1859).
    Tisserand, cancelliere del vice consolato di Francia a Rimini, ha aderito alla Giovine Italia e predicato idee rivoluzionarie pure ai lavoratori delle sue imprese: fornaci, distillerie e vigneti. Fu vicepresidente del Circolo Popolare capeggiato da Enrico Serpieri, che ha propagandato l'opposizione al governo pontificio. Nel 1849, sotto la Repubblica romana, è stato eletto consigliere comunale con 288 voti su 372 elettori. Nicola Nagli ne ha avuti 239. In tutta la nostra regione ai tripudi attorno agli alberi della libertà, ha scritto U. Marcelli, allora si alternano attentati fratricidi fra rivoluzionari e reazionari.