• La presenza degli Ebrei a Rimini dal 1015 al 1799
    Terzo capitolo

    Le sinagoghe ed il cimitero di Rimini
    Linee di una «geografia» israelitica in città


    Nel febbraio 1506 gli Ebrei riminesi decidono di realizzare il loro cimitero ed acquistano un campo di proprietà di Sigismondo Gennari e fratelli (Tonini, p. 749), posto fuori della porta di Sant’Andrea e confinante con la fossa della città («fovea civitatis»), con l’Ausa e con due appezzamenti di terra appartenenti ad Ebrei. Nel marzo 1507 il cimitero detto anche «Orto degli Ebrei» è già pronto se Stella di Deodato esprime nel proprio testamento la volontà di esservi sepolta (ibidem).
    Nel 1520 il cimitero è concesso in affitto dalla comunità israelitica ad un Cristiano che s’impegna a tenerlo in modo appropriato, utilizzandone una parte ad orto, evitando il suo uso a pascolo e creando le fosse «pro sepulturis Hebreorum pauperum et miserabilium decedentium in Civitate» (Muzzarelli, pp. 41-42). Quindi non tutti nella comunità ebraica riminese erano di ceto economicamente elevato o medio.
    Il documento del 1506 permette una precisa collocazione del cimitero. Nella pianta della città di Rimini disegnata da Alfonso Arrigoni e pubblicata nel 1617 nel «Raccolto istorico» di Cesare Clementini, è ben delineato il corso del canale dei Mulini che prende acqua dal Marecchia ed entra in Rimini vicino alla porta di Sant’Andrea la quale s’affaccia sull’antica via Aretina. Ancor oggi esiste la via dei Mulini che dai Bastioni meridionali scende sino alla via Venerucci (allora San Nicola, dall’omonimo oratorio sull’angolo con via Garibaldi).
    Il corso del canale dei Mulini è documentato all’esterno della città nelle mappe contemporanee dell’Istituto Geografico Militare ed è schematicamente indicato entro le mura in una pianta del 1520 (Archivio di Stato di Rimini, «Carte Zanotti», busta 3), recentemente edita da Oreste Delucca (p. 37). In maniera ovviamente approssimativa la pianta indica il percorso del canale dei Mulini che all’uscita dal mulino del Comune si divide in due corsi. Uno s’avvia «in foveam civitatis», cioè alla fossa che è ricordata come confine per il cimitero ebraico. L’altro corso prosegue verso il centro della città.
    Nella carta di Arrigoni il bivio fra i due corsi è invece correttamente posto sotto la chiesa di San Matteo detta «degli Umiliati». I quali erano stati chiamati a Rimini nel 1261 affinché lavorassero e facessero lavorare panni di lana di ogni genere e colore, eccettuato gli scarlatti, i verdi ed i dorati (L. Tonini, III, p. 111, e «Mille», p. 124). L’acqua che usciva dalla loro manifattura dove si usavano sapone ed argilla, doveva essere scaricata nel fiume.
    La prima sinagoga è attestata sin dal 1486. S’affaccia sulla piazza della fontana (ora Cavour) dal lato della pescheria settecentesca, nella contrada di San Silvestro. Essa è poi definita come «vechia», quando è realizzata la seconda che in rogito del 1507 è chiamata «magna», nella contrada di Santa Colomba o San Gregorio da Rimini (via Sigismondo), nella porzione di quartiere tra l’odierna via Cairoli ed il Teatro Galli, lato monte. Nel 1555 la sinagoga «magna» risulta invece situata in contrada di San Giovanni Evangelista detta «delli Hebrei» (via Cairoli), a poca distanza dalla chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino), e proprio dalla sua parte, come si ricava dal documento datato 14 novembre riguardante la decisione presa dagli Ebrei riuniti nella Sinagoga «magna» di vendere la casa detta «la Sinagoga vechia» (Zanotti, Atti, p. 207).
    Della sinagoga «vechia» in questo documento del 1555 si scrive che è posta vicino («iuxta») alla strada detta «Rivolo della Fontana» o «del Corso», cioè nell’angolo della piazza Cavour con la contrada di Santa Colomba (via Sigismondo). Il «Rivolo» andava dalla piazza del Castello sino alla piazza Cavour, cambiando poi qui il nome in contrada di San Silvestro. La sinagoga «vechia» era quindi situata nella parrocchia di San Silvestro, delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e via Sigismondo e piazza Cavour. La nuova sinagoga è trasferita prima nella zona della parrocchia di Santa Colomba che è speculare verso monte rispetto alla parrocchia di San Silvestro; e poi nella parrocchia di Sant’Agostino sul lato dove sorge la chiesa.
    Nel 1569, dopo che il 26 febbraio papa Pio V ha dato il bando agli Ebrei da tutte le sue terre ad eccezione di Ancona e Roma, gli israeliti di Rimini decidono di vendere l’ultima sinagoga, quella posta nella parrocchia di Sant’Agostino. Il 16 maggio il bolognese Prospero Caravita (abitante in Rimini) ed il ravennate Emanuellino di Salomone, come rappresentanti della comunità israelitica locale, stipulano l’atto relativo, consapevoli che per l’editto pontificio tutti gli Ebrei che si trovavano nella nostra città l’avrebbero dovuta abbandonare entro breve tempo. Quest’ultima sinagoga è composta di tre stanze («una domum consistentem ex tribus stantiis»): la più grande è quella dove si riunivano a pregare gli uomini, un’altra più piccola dove si adunavano a pregare le donne, ed un’altra infine posta sopra quest’ultima e sempre ad uso delle donne.
    Pure questo documento ci è stato tramandato da Zanotti (Atti, pp. 152-154), ed è ricordato da Carlo Tonini nella sua preziosa storia degli ebrei Rimini, dove però non parla di una casa con tre stanze bensì di tre case distinte (VI, 2, p. 759).
    Della presenza ebraica a Rimini si perdono le tracce nei due secoli successivi. Nel 1775 le cronache di Zanotti e Capobelli registrano un battesimo conferito all’Ebreo Isacco Foligno (C. Tonini, VI, 2, p. 762, nota 1). Sappiamo da documenti della Municipalità che nel 1796 gli «Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» gestivano cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi.
    Il 30 maggio 1799 durante la rivolta dei marinai si registra il saccheggio di due loro botteghe. Zanotti nel suo «Giornale» del 1796 (SC-MS. 314, BGR, p. 155) scrive che i fondachi ebraici si trovavano «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi […], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni» (Dolcini, p. 495). Palazzo Valloni è quello del Cinema Fulgor, all’angolo di corso Giovanni XXIII.
    Forse quegli Ebrei erano tornati a Rimini al tempo del pontificato di Clemente XIV (1769-1774) che aveva assunto un atteggiamento favorevole nei loro confronti, cercando di risollevarne le sorti economiche. Un episodio ci illumina sul suo atteggiamento: «Da cardinale il Ganganelli era stato inviato dal papa Clemente XIII a Jampol in Polonia per fare un'inchiesta, sollecitata da una ambasceria inviata al papa dagli Ebrei di quella città, su un presunto omicidio rituale. Il resoconto del Ganganelli (di cui una copia, che si trovava presso la Comunità di Roma, fu scoperta dallo storico Abramo Berliner), spiega che si trattava di un caso di suggestione collettiva» (Mascioli).


  • NOTA BIBLIOGRAFICA

    C. Clementini, Raccolto istorico, II, Rimini 1627, p. 663
    O. Delucca, Una terra fra le acque. Il borgo e il territorio Sant’Andrea nel Medioevo, in «Sant'Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 29-64
    A. Dolcini, Napoleone il “bifronte”, Bologna 1996 (qui il cognome dei «Conti Bandi» cit. da Zanotti, Giornale 1796, è erroneamente riportato come «Bondi»)
    A. Falcioni, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L’economia, Rimini 1998
    M. G. Muzzarelli, Rimini e gli Ebrei fra Trecento e Cinquecento, «Romagna arte e storia», 10/1989, pp. 31-48
    C. Ravara Montebelli, Le acque nel borgo Sant’Andrea in epoca romana, in «Sant’Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 11-26
    R. Segre, Gli Ebrei a Ravenna nell’età veneziana, in «Ravenna in età veneziana» a cura di D. Bolognesi, 1986, pp. 155-170
    Carlo Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 1, 1887; vol. VI, 2, 1888, pp. 748-763
    Luigi Tonini, Rimini dopo il Mille, a cura di P. G. Pasini, Rimini 1975
    Luigi Tonini, Storia di Rimini, vol. I, 1848
    Luigi Tonini, Storia di Rimini nel secolo XIII, III, 1862
    Mascioli, <http://www.mascioli.info/storiaebreiitaliani.html>
    A. Montanari, Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Stilgraf, Cesena 2000, pp. 671-731; e Furore dei marinai, in corso di stampa (ma leggibile in Internet)
    A. Montanari, 1615, distrutto il ghetto in «Il Sito riminese del 1616, Quante storie n. 2», p. 8, «il Ponte», 20 novembre 2005
    M. Zanotti, Atti, SC-MS 285, Biblioteca Gambalunga [BGR], Rimini
    M. Zanotti, Giornale di Rimino 1796, SC-MS 314, BGR, Rimini
    Gli scritti di Jones e Vasina sono ripresi da Studi Malatestiani, Studi storici, fascc. 110-111, Istituto storico italiano per il Medio evo, 1978

    ACR, ASR = Archivio comunale, in Archivio di Stato di Rimini


  • Ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700
    Alcuni restano in città. Una di loro si fa monaca nel 1858

    Gli Ebrei residenti a Rimini sul finire del XVIII secolo si dichiarano «membri e dipendenti dal ghetto di Pesaro», come scrive il notaio Zanotti nel suo «Giornale di Rimino» relativamente al 1796 (Dolcini, p. 495). Dai documenti della nostra Municipalità risulta che in quell'anno gli «Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» gestiscono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi («il Ponte», 11.12.2005). Un'altra notizia relativa al 1775, tratta dalle cronache riminesi di Zanotti e Capobelli, riferisce di un battesimo conferito all'Ebreo Isacco Foligno.
    Partendo da questi dati, siamo andati a cercare elementi di collegamento fra le città di Pesaro e Rimini in un importante studio di Viviana Bonazzoli («L'economia del ghetto», pp. 16-53).

    Da Venezia
    a Pesaro
    Il cognome Foligno si trova attestato a Pesaro: un Elia Foligno nel 1787 figura fra i sindaci ed amministratori della Scuola spagnola del ghetto (p. 24). Due anni dopo, nel 1789, con la stessa carica a Pesaro troviamo indicato Moisé Aron Costantini (ib.). Nei documenti riminesi appaiono Samuel ed Elcana Costantini. La forma corretta per il secondo nome è Elcanà, come ricaviamo sempre da Bonazzoli, nel cui saggio si legge che nel 1716 «Sara Mazor vedova di Moisé di Elcanà Costantini costituisce suo procuratore il suocero», per «poter vendere et alienare li capitali che essa si trova havere in Venezia» essendo il figlio proprio Samuele ancora in età minore (p. 46).
    In un testamento pesarese del 1754 si legge che una figlia di Elcanà Costantini era Consola, sorella quindi del ricordato Moisé (marito di Sara Mazor), e vedova di Leone Costantini che le aveva dato due figli, Moisé ed Elcanà. Probabilmente questo Elcanà figlio di Leone e di Consola è quello che incontriamo a Rimini nel 1796. Nel 1754 Consola Costantini designa eredi universali i figli Moisé ed Elcanà, riferendosi ad un capitale «che ella si ritrova avere nella Zecca di Alvina» cioè nel deposito del dazio del vino in Venezia (p, 47). Il richiamo a Venezia per Consola è il secondo dopo quello di Sara Mazor. La città lagunare, scrive Bonazzoli, era la regina dell'Adriatico, e la posizione di Pesaro va collocato nel sistema di scambi fra le due coste, ricordando che la «simbiosi Ragusa-Ancona» era «al tempo stesso complementare e competitiva nei confronti di Venezia». Pesaro ed altri porti adriatici secondari si trovavano «in posizione subordinata e con funzione di centri intermedi di redistribuzione e raccolta - quanto a merci in entrata e in uscita - e di collegamento fra le principali correnti degli scambi e le economie dell'entroterra» (p. 26). Tra gli altri porti secondari della costa occidentale dell'Adriatico, possiamo porre (per motivi che vedremo) anche quello di Rimini.
    Sempre secondo Bonazzoli «in relazione a questo contesto adriatico dove mercati intercontinentali, mercati sovraregionali e mercati subregionali si presentano strettamente integrati», va considerato il ruolo del nucleo ebraico di Pesaro (ib.). In quel contesto va pure esaminato il significato del passaggio di alcune famiglie ebraiche da Pesaro a Rimini nel corso del 1700. Renata Segre riferisce che nel secolo XVIII le pelli d'agnello commerciate da Abramo Levi (p. 172) e dirette verso il nord Europa erano imbarcate proprio a Rimini. Se ne parla in un documento romano del 1793. Abramo Levi aveva per le mani la maggior parte di quel prodotto, e «la sua concorrenza suscitava le proteste dell'Università dei pellicciai, ultimi deboli echi di motivi antiebraici delle corporazioni di mestiere».
    Sempre a proposito della presenza degli Ebrei a Pesaro (che alla fine del XVIII secolo assommano a circa 450 persone, con un aumento di una quarantina d'unità in mezzo secolo), occorre fare un salto indietro nel tempo. Bisogna riandare al 1555, l'anno della «bolla» di Paolo IV «Cum nimis absurdum» che istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa. In quell'anno Pesaro è sottoposta al dominio del duca d'Urbino, e quindi non è toccata dal provvedimento. Poi nel 1569 Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. La situazione di Pesaro cambia quando nel 1631 cessa il dominio roveresco e la città passa alla Santa Sede per la morte di Francesco Maria II, con un atto di devoluzione firmato dall'arcivescovo di Urbino Paolo Emilio Santori. Anche gli Ebrei di Pesaro diventano quindi sudditi pontifici. Però, come scrive Renata Segre, «avevano motivo di ritenere che la politica di sradicamento [...] non si sarebbe estesa a loro» (p. 155). C'era il precedente verificatosi nei domini estensi che nel 1598 erano passati sotto il governo di Roma. Ma sapevano pure che anche nella Legazione di Urbino come a Ferrara «si sarebbe perseguita con durezza e intransigenza» una politica di isolamenti e conversione. Quindi gli Ebrei di Pesaro continuano a vivere nella città dopo il 1631.

    Commerci
    e fiere
    Circa le loro attività commerciali, Segre spiega che essi frequentano le fiere annuali di Senigallia (a luglio) e di Fermo (in agosto), ma s'indirizzano pure verso il Ravennate dove tentano di sottrarre alla concorrenza degli Ebrei ferraresi «l'attività commerciale attorno al Riminese» (pp. 162-163). Il vescovo di Imola nel 1776 scrive al papa che gli Ebrei si dividono il territorio per non danneggiarsi reciprocamente come fanno i cappuccini quando vanno a cercar le «loro limosine» (p. 180, nota 76). Segre avverte però che in concorrenza con Senigallia ci sono pure le fiere di Rimini, già a partire da metà Seicento (ib.). Su queste fiere e sulla presenza in esse di Ebrei di Pesaro, Ancona Urbino diremo altra volta.
    A Rimini sin dal 1500 si teneva una «fiera delle pelli», che possiamo collegare all’attività di Abramo Levi, per la ricorrenza di sant’Antonio dal 12 al 20 giugno, seguìta da quella di san Giuliano (nata nel 1351) nell’omonimo borgo (tra ponte di Tiberio e Celle) dal 21 giugno (vigilia delle festa del santo) sino a tutto luglio: il calendario resta stabile sino all’inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre (Adimari, II, p. 9). Nel 1627 esse come unica «fiera generale» retrocedono dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 si tengono dall’8 settembre all’11 novembre (C. Tonini, «Storia di Rimini», VI, I, pp. 416, nota 1, e 455), assorbendo quella di san Gaudenzio istituita nel 1509 per il mese di ottobre (ib., VI, 2, p. 865). Nel 1656 nasce invece la nuova fiera di sant'Antonio sul porto dal 6 all’11 luglio (scoperta soltanto di recente, Moroni, p. 75; Serpieri, p. 71). Nello stesso anno, non a caso, a «un tal Hebreo Banchiere» si concede di aprire un banco portando con sé la famiglia. Gli Ebrei erano stati cacciati da Rimini nel 1615 dopo una rivolta popolare con distruzione del ghetto. Nel 1666 il Consiglio cittadino rigetta (con 31 no e 14 sì) la richiesta di crearne uno nuovo.
    Su questo sfondo di attività commerciali che collegano i vari centri costieri del medio Adriatico, avviene il passaggio per Rimini di mercanti ebraici, e poi il loro stabilirsi (come racconta Zanotti nel suo «Giornale»), «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi [...], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni», quello per intenderci del Cinema Fulgor, all'angolo di corso Giovanni XXIII.

    Notizie anche
    per l'Ottocento
    Qui troviamo, come abbiamo scritto sopra, Abram e Samuel Levi. Il cognome Levi a Pesaro è presente in vari documenti citati da Bonazzoli. Il nostro Moisé di Bono Levi potrebbe esser figlio di Diamante a cui si riferisce un atto del 1788 dove la donna è detta vedova di Bono Levi (p. 20). L'atto si riferisce alla divisione dell'inquilinato perpetuo di una casa nel ghetto (o «jus gazagà», concesso dietro corresponsione di un canone annuo ai proprietari cristiani delle abitazioni), sino a quel momento posseduto «ab indiviso». Alla divisione partecipa anche Ester vedova di Moisé Samuel Levi. Il Samuel Levi riminese potrebbe essere un suo nipote. Nel 1792 a Pesaro è citato un Abram Levi (altro nome riminese), sindaco della locale «compagnia della Carità della scuola itagliana di questo ghetto».
    Nel 1779 a Pesaro sono ricordati Elia Foligno e Salomon Mondolfo (p. 24). Questi due cognomi ricorrono di frequente a Pesaro fra 1600 e 1700. A Rimini si parla di «fratelli Foligno», per cui ogni ulteriore approfondimento è impossibile, allo stato della ricerca. Nel 1842 un Giuseppe Foligno di Pesaro è citato in un avviso a stampa di Rimini come «creditore pignorante» (SG 232). Circa i Mondolfo scrive Bonazzoli: «Frequentissime sono le relazioni fra i mercanti del ghetto di Pesaro e gli ebrei residenti a Venezia, dove le principali ditte hanno procuratori o corrispondenti; così, solo a titolo di esempio, il 21 marzo 1678, Gabriel e Isac Mondolfo sono in relazioni commerciali con Isac Baldoso, anche lui esponente di una famiglia sefardita [proveniente dalla Spagna, n.d.r.] di rilievo e stretto interlocutore dei Costantini» (p. 31). Gli stessi Costantini sono una «importante famiglia serfardita veneto-candiota» (p. 30).
    Le relazioni all'interno della comunità ebraica e delle singole famiglie sono destinate a produrre riflessi pure all'interno delle città che esse toccano con i loro commerci o che abitano stabilmente. Da ciò si comprende l'importanza che, per ricostruire meglio la storia riminese, ha l'esame della presenza ebraica in città: sul quale argomento purtroppo non c'è molto da leggere.
    Quando nel 1888 pubblica il secondo tomo della sua storia, Carlo Tonini denuncia il «fitto bujo» addensatosi nella memoria dei concittadini a proposito delle vicende ebraiche, e chiede scusa «se a taluno sembrasse che fossimo stati troppo minuti» nel raccontarle (p. 763). A molti esse interessavano soltanto quando per qualche «israelita» si addiveniva alla conversione. Succede per Rosa Levi che il 22 aprile 1852 riceve il Battesimo come Maria Matteini, e nel 1857 entra nel monastero di Santa Catterina di Forlì dove il 9 dicembre 1858 professa i voti, fornendo allo stesso Carlo Tonini l'ispirazione per una ode a stampa (SG 10-12).

    Nota bibliografica

    R. Adimari, «Sito riminese», Brescia 1616
    V. Bonazzoli, «L’economia del ghetto» in «Studi sulla comunità ebraica di Pesaro», a cura di R. P. Uguccioni, Pesaro 2003, pp.16-53
    M. Moroni, «Il porto e la fiera di Rimini in età moderna » in «Tra San Marino e Rimini: secoli XIII-XX», San Marino 2001, pp- 43-93
    R. Segre, «Gli ebrei a Pesaro sotto la Legazione apostolica» in «Pesaro dalla devoluzione all’illuminismo», Venezia 2005, pp. 155-186
    A. Serpieri, «Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra storia e cronaca», Rimini 2004
    SG = Schede Gambetti, Biblioteca Gambalunga di Rimini (Ringrazio la dottoressa Cecilia Antoni della Gambalunga per la ricerca del materiale qui utilizzato.)


  • La Rimini degli Anni Trenta, grazie a Federico Fellini ed al suo «Amarcord» (1972), diventa simbolo di «un mondo sbagliato, meschino, gretto e violento».
    Nel film c'è Lello, lo «zio Pataca». Diceva Fellini: «Pataca da noi significa un uomo da poco, un farfallone, che vive ai margini sognando cose difficili, assolutamente lontane dalle sue possibilità».
    Lello tradisce il cognato antifascista presso cui vive da vitellone parassita, facendogli infliggere la lezione dell'olio di ricino. 
    Per Oreste Del Buono, «Amarcord» fa «un discorso civile» in cui non c'è quell'autobiografismo come luogo comune e scontato di cui parlano i «critici superficiali» all'apparire del film.
    Natalia Ginzburg osserva: «Mai mi era successo di vedere evocati gli anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e tanto orrore».
    Il fascismo, spiega la scrittrice (vedova di Leone Ginzburg, ucciso dalle sevizie subìte come antifascista nel 1944 a Regina Coeli), era «sordido, miserabile, atroce».
    Allora i giovani ne conoscevano «bene soltanto gli aspetti grotteschi. Quelli tragici» li avrebbero «capìti più tardi». In questo film, concludeva Natalia Ginzburg, riconosciamo «il fascismo bevuto e respirato senza che lo sapessimo». Nelborgo di «Amarcord» c'è coralmente l'Italia.
    Il cognato «pataca» più che un «uomo da poco, farfallone o sognatore», pare piuttosto l'uomo «da niente», senza moralità e dignità. In apparenza è gelido e noncurante. In sostanza si dimostra una perfetta carogna.
    E se dal tono leggero della raffigurazione scendiamo nei labirinti della Storia, se dal grottesco ci avviamo cautamente verso il tragico, allora vengono alla mente pagine ancora peggiori di quegli anni. Quando una soffiata era ricompensata con un cartoccio di sale, e ci scappava il morto, frutto ed oggetto di delazione politica.
    Lello è un traditore, un brutto ceffo, non una simpatica canaglia od un compassionevole illuso. Per Alberto Moravia, la Romagna che «Amarcord» racconta, è «senza deformazioni satiriche e fantastiche». 
    Lo «zio Pataca» con la sua azione di delatore, è protagonista non isolato di un clima ben evidente nella sequenza del grammofono che dall'alto del campanile diffonde le note dell'«Internazionale». E nella scena degli oppositori portati alla casa del fascio, con la predica del gerarca paralitico: «Quel che addolora, è che non vogliano capire».
    Valerio Riva scrive che a quel punto allo spettatore, «Amarcord» appariva non più e soltanto «una antologia di ricordi», ma «un grosso film politico, il più esplicito, almeno in questo senso, che abbia fatto Fellini».
    Lo zio Lello rappresenta una delle tre categorie umane che ci accompagnano nel cammino esistenziale. Le altre due sono quella alquanto rara di chi disprezza la menzogna, e in nome della verità è disposto a sopportare tutto. E quella (alquanto diffusa) di quanti per convenienza si celano nel proprio «particulare» e fingono di non vedere per non aver rogne. Anche loro tradiscono i reciproci doveri su cui si basa l'umana convivenza.
    «Amarcord» dimostra, secondo Miro Gori, «come una città di provincia, con la sua vita futile e uggiosa, possa diventare, nelle mani di un 'poeta', l'ombelico del mondo».
    Fellini in «Amarcord» narra Rimini con quel misto di odio e di nostalgia che sono il lievito d'ogni memoria: anche se il film «per l'autore non doveva apparire come il rispecchiamento di situazioni e personaggi reali» (Tullio Kezich).
    Nel 1990 Cinzia Fiori sul «Corriere della Sera» chiama Rimini una città a due facce, l'antico borgo e la marina tutta cemento selvaggio che fa venire la nostalgia del passato: «Siamo all'amarcord di Amarcord», conclude. Federico sempre lontano, tuttavia sempre presente.
    Con il suo mondo oscillante tra favola e verità, egli offre un'utile chiave di lettura delle vicende più recenti di Rimini, ogni volta diversa ma alla fine eternamente uguale a se stessa.
    Sospesa tra mito e realtà come un canovaccio di Federico, Rimini è sempre alla ricerca di un'identità definita ma non definitiva nel divenire inquieto dell'attuale società globalizzata.


  • 16 giugno 1938, Benito Mussolini ispeziona i lavori quasi ultimati per l'isolamento dell'arco d'Augusto, mentre la folla urla «il suo incontenibile entusiasmo [...] in un abbraccio quasi pauroso», scrive «Ariminum».
    S'alza una voce: «Vogliamo la provincia». Più che un desiderio, è un ordine. Il duce, lo sguardo imperioso, forse nascondendo a malapena quel disgusto che nutre naturalmente per la nostra città, è lapidario: «Sulla carta». Come dire, scordatevela.
    Arriva soltanto nel 1992 dopo 18 anni di Circondario, e diventa operativa nel 1995. Ostacoli e rifiuti furono sempre opposti alle richieste della nostra città.
    Politica e deteriore folclore si mescolano in certi scritti fascisti (1921) che definiscono Rimini «città dei rammolliti e dei vili, paese di mercanti e di affittacamere», per aver disertato il funerale di Luigi Platania, ucciso il 19 maggio di quell'anno.
    Platania, 31 anni, è uno dei fondatori nel 1919 dei fasci di combattimento dopo esser stato anarchico ed interventista. Ha fatto la «settimana rossa», combattuto in Libia e nella grande guerra. Mutilato e pluridecorato, figura tra i fascisti più accesi.
    Su di lui correvano voci di misfatti compiuti a Cesena ed a Pesaro. Durante la «settimana rossa» Platania fu sospettato del furto di una cassaforte compiuto assieme a Carlo Ciavatti detto «il monco», al quale avrebbe sottratto parte del bottino ricevendone la minaccia: «Faremo i conti».
    C'è un altro Platania sulla scena cittadina. 1922, sabato 28 ottobre, giorno della marcia su Roma, e domenica 29 anche Rimini è occupata. Durante la presa del carcere alla Rocca malatestiana un fascista di Foligno, Mario Zaccheroni, è ucciso da fuoco amico per mano appunto di Giuffrida Platania, fratello di Luigi ed allora direttore della «Penna fascista», che tenta il suicidio «per scrupolo eccessivo» (scrive «L'Ausa»).
    Mussolini ricordava i giudizi di quegli scritti fascisti del 1921, confortato pure dalle opinioni ufficiali locali come quella del federale Ivo Oliveti che in un convegno indetto appunto sulla richiesta riminese, lanciò una specie di anatema chiedendo ai presenti: «Vi vergognate forse di appartenere alla provincia del Duce?».
    Il quale aveva insignito Rimini d'una etichetta rimasta celebre: «Scarto delle Marche e rifiuto della Romagna».

    Dalla provincia al provincialismo.
    Leggiamo alcune pagine di Guido Nozzoli sulla Rimini tra le due guerre: «Con tutte le sue pretese di modernità e di cosmopolitismo era - ce ne saremmo accorti più tardi - una cittadina provinciale di gusto quasi ottocentesco, con tante ville circondate da cespugli di oleandri e di ligustri, qualche solido albergo di stile floreale, la litoranea sonnecchiante fino al tramonto in una sua aristocratica solitudine, e una rete di viali e vialetti, per metà di terra battuta, fiancheggiati dalle cancellate e dalle siepi di qualche orto».
    Prosegue Nozzoli: «L'unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare 'di Palloni'. Tra il porto e l'Ausa, nel tratto di spiaggia più elegante, il lungomare cancellò le dune - 'i muntirun' - e divenne subito il ritrovo pomeridiano dei bagnanti, l'equivalente estivo del Corso d'Augusto per i riminesi seduti a gruppo sulla lunga balaustrata all'ora del passeggio o pigramente ronzanti in uno sfarfallio di biciclette. Il centro di quel firmamento, il perno di quella giostra, era il Caffè con orchestra di Zanarini, dove si videro i primi gagà spregiatissimi dal fascismo (erano poi tutti figli di fascisti) prendere l'aperitivo seduti sul marciapiede. Tenuta quasi di rigore: la maglia a girocollo blu da cui spuntavano colletti immacolati [...]».
    Morale della favola: «Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell'800», conclude Nozzoli.