• La società meno rigida genera insicurezza

    Nel mondo, ai ragazzi che stanno diventando adulti non si offrono chiare aspettative sul loro ruolo nella società futura. Mancano punti di riferimento precisi. Quelli che esistevano un tempo, quando i rituali di passaggio segnavano un confine netto tra la giovinezza e la fase successiva della vita.
    Frank Furedi, da 25 anni docente di Sociologia nell'università del Kent (UK), apre il volume degli atti della XXXV edizione delle Giornate del Centro Pio Manzù ("La potenza nomade", 2009) con una vivace ed interessante relazione in cui mette a confronto la società di ieri (regolata da convenzioni e schemi molto precisi se non rigidi), e quella di oggi. In cui la libertà delle scelte slegata dai ritmi antichi ha comportato l'abbandono dei punti di riferimento imposti, ma nello stesso tempo provoca insicurezza. Per crescere, oggi i giovani debbono affrontare una sfida maggiore, rispetto a quella delle generazioni precedenti. Conseguenza: si è allungata la giovinezza, si vuole diventare adulti il più tardi possibile, al punto che sempre più ragazzi non vogliono divenire tali. Questa situazione, spiega il prof. Furedi, è definibile come insicurezza dei giovani.
    Ma essa può essere considerata come l'effetto di un disorientamento degli adulti. I quali, come Furedi stesso confessa, temono il primo no che sarà loro detto dai figli. Davanti a quel no, un padre dovrà pensare che esso nasce da uno sviluppo positivo, anche se ci lascia ansiosi e spaventati. Ma pure con l'impegno a creare un mondo che faccia sentire i giovani sicuri di loro stessi, nella loro ribellione generazionale che deve mirare a rifare il mondo che verrà dopo di noi.
    Furedi delinea così i tratti di una pedagogia del dialogo che è l'unica prospettiva valida in ogni tempo, e si offre oggi come inevitabile, soprattutto perché non dimentica che il mondo in cui i giovani vivono è quello che gli offrono gli adulti. Ai quali spesso è applicata un'amnistia delle colpe, per evitare processi che ne segnalerebbero precise responsabilità sui guasti della vita contemporanea, di solito invece attribuiti ai giovani.
    Un altro sociologo, il francese Michel Fize, esamina il tema dell'impegno politico dei giovani: che definisce uguale a quello delle altre fasce d'età di oggi, ed a quello dei loro coetanei nelle generazioni passate. Spesso si modifica la storia sulla base della nostalgia, sostiene Fize: e si idealizzano i giovani ribelli degli anni 1960, sottovalutando quelli contemporanei.
    Agli anni 1960 rimanda un sociologo milanese dei Nuovi Media, Adam Arvidsson, che discute dei legami tra web e protesta, citando studiosi per i quali esiste un collegamento tra la ribellione americana contro la guerra nel Viet-Nam (1964-75), e la diffusione della tv. Per la verità, le rivolte dei campus statunitensi nacquero dal fatto che gli studenti con voti bassi erano obbligati a partire per il fonte.
    Ad un prete di 80 anni, Antonio Mazzi, che si definisce balordo, siamo debitori dell'invito ai giovani a non farsi incastrare dalla nostra società che non ha più i grandi sogni, e che lui considera una democrazia nella fase decadente.
    Giandomenico Picco, vice presidente del Pio Manzù, ad apertura del volume (che raccoglie in tutto 30 interventi), spiega che i giovani di oggi si trovano ad affrontare un'impresa ben più ardua rispetto alle prove che hanno dovuto superare i loro genitori. Sarebbe utile, aggiungiamo noi, anche ricordarsi dei dolori della generazione dei nonni, per essere sanamente realisti.

  • Ebrei vittime delle spie

    Gli internati in Valmarecchia, 1940-44


    Pennabili 1943. Virgina Longhi si fidanza con un ebreo internato, Enzo Plazotta. Lui, nel febbraio 1944 fugge dal campo per unirsi ai partigiani. Lei, nell'agosto successivo per quella relazione sentimentale è fucilata da un plotone di camicie nere. I primi internati ebrei arrivano a Pennabili, San Leo e Sant'Agata Feltria nel luglio 1940. Dal 10 giugno l'Italia è in guerra. Il 1° giugno una circolare degli Interni ha spiegato che gli ebrei (al pari di squilibrati mentali e pregiudicati) debbono essere considerati pericolosi in vista del conflitto. Scoppiato il quale, essi vanno rinchiusi nei circa 400 luoghi selezionati. Questo è il tema di "Con foglio di via, Storie di internamento in Alta Valmarecchia 1940-1944" di Lidia Maggioli ed Antonio Mazzoni (Il Ponte Vecchio, Cesena).
    La prima anagrafe delle persone politicamente sospette, è istituita nel 1926. Nel 1935 si predispongono gli internamenti. Dal 1938 si stabilisce che può esserne colpito chi svolge attività antitaliana. Agli ebrei è diretto il 15 luglio 1938 il Manifesto della razza, tradottosi nelle infami leggi razziali sottoscritte dal re il 12 settembre. Le schedature del regno sono largamente utilizzate dalla repubblica di Salò e dai nazisti dopo l'8 settembre 1943 per le deportazioni verso i campi di sterminio. Nelle leggi razziali si stabilisce che gli ebrei stranieri, tra cui quelli che hanno lasciato Austria e Germania, debbono essere allontanati immediatamente dal nostro suolo.
    Il 6 giugno 1940 le questure sono sollecitate a vigilare sugli ebrei capaci di propaganda disfattista e di attività spionistica. Dopo il 10 giugno comincia il rastrellamento indiscriminato degli ebrei, che sono rinchiusi in carcere per essere avviati ai campi d'internamento. Dove li attende una segregazione dal mondo. Li liberano soltanto dopo il 10 settembre 1943 grazie ad una clausola dell'armistizio annunciato l'8 settembre.
    Dalla ricostruzione accurata fatta da Maggioli e Mazzoni con un prezioso lavoro di ricerca, apprendiamo: gli ebrei internati in Italia sono 2.412 nell'estate del 1940, e 5.636 alla fine del 1942; alla conclusione del conflitto, si contano 2.444 deportati con 1.954 vittime e 490 sopravvissuti ai lager; gli ebrei italiani deportati (1940-43) sono 4.148, nei lager ne sono uccisi 3.836 (più 179 ignoti) e soltanto 312 (più 35 ignoti) tornano a casa.
    Nella carta di Verona della repubblica di Salò (14.11.1943), gli ebrei sono definiti stranieri. Il 30 novembre si ordina il loro internamento nei campi di concentramento. I nazisti si congratulano con le camicie nere. Poi si dà la caccia agli ebrei misti, ovvero coniugati con ariani. Alla fine della guerra, i deportati ebrei per opera dei fascisti sono 6.806. Si salvano soltanto in 837.
    Nel volume c'è una serie di testimonianze che illustrano il dramma vissuto da intere famiglie perseguitate soltanto per motivi razziali, ma aiutate da ariani. A Pugliano i rifugiati ebrei giunti nel luglio 1944, sono salvati dall'ospitalità dei cittadini che li adottano e nascondono sino all'arrivo degli alleati.
    A Pennabili, San Leo e Sant'Agata per tutti i residenti le condizioni di vita sono modeste ai limiti della sopravvivenza con un'economia povera. I comuni già negli anni Trenta passano a nuclei di quattro o cinque persone soltanto una sola razione settimanale di sussistenza. La situazione peggiora con la guerra. In questo quadro agli internati si concede di lavorare per rimediare il cibo. Però agli ebrei sono riservate precise limitazioni.
    Gli autori premettono un'utile precisazione. L'immagine che degli ebrei emerge dagli atti ufficiali, è quella manipolata per lo più da segnalazione basate su spiate malevole costruite sui si dice. Circa il tema, ricordiamo un interessante studio relativo all'intero Ventennio, "Delatori. Spie e confidenti anonimi: l'arma segreta del regime fascista", di Mimmo Franzinelli (2001), dove si parla pure di Rimini.
    Antonio Montanari

  • Francesco Sberlati è uno studioso riminese di Letteratura italiana. Insegna all'ateneo di Bologna, ha avuto numerose esperienze didattiche negli Usa, nel solco di una tradizione di scambi culturali avviati mezzo secolo fa da Ezio Raimondi.
    Nel 2006 ha pubblicato un saggio intitolato "La ragione barocca. Politica e letteratura nell'Italia del Seicento" (ed. Bruno Mondadori). E' un libro molto importante. S'inserisce nel filone degli studi innovativi sul Barocco aperti dallo stesso Raimondi e continuati a Bologna da Andrea Battistini.
    Battistini nel 2000 al Barocco ha dedicato un volume in cui ne esamina "cultura, miti ed immagini". Battistini definisce il Barocco "una civiltà densa di futuro". Sberlati sviluppa questo tema con un'analisi che racconta ma che non vuole condensare in formule definitive.
    Proprio nel capitolo intitolato alla "civiltà" del Seicento, Sberlati termina il discorso in modo "aperto" parlando dell'"insoluto mistero del Barocco". Sberlati dimostra tutta la sua capacità critica lungo i vari capitoli, portando il lettore a decifrare in modo originale e convincente autori e questioni ad essi legate.

    Sberlati segue proprio la "linea" di Ezio Raimondi che definì il Barocco come "anche segno di razionalismo" (1995, "Il colore eloquente").
    E sembra proprio che da Raimondi sia mutuato il senso del titolo, "La ragione barocca", per indicare le novità del suo approccio di studioso della nostra letteratura. Quella "Ragione" che si vuole far nascere soltanto nel 1700, Sberlati la ricerca nel Barocco come segno di un futuro che sta sorgendo, dando così uno scossone alle idee convenzionali su quel secolo di cui racconta anche i fatti più ricchi di conseguenze per tutta la società europea.
    L’indagine di Sberlati percorre la duplice strada di un esame innovativo dei testi (con attenta analisi delle fonti critiche), e del racconto biografico dei vari autori, costruendo così pure un vivace ritratto della società del Seicento. In essa sono proiettati i temi delle singole opere analizzate. Anche i cosiddetti generi sono inquadrati nei contesti storici, come quando leggiamo che la satira è espressione di un’utopia sociale divaricata rispetto al sistema letterario concordemente accettato dalle classi dominanti.
    Alle quali si rivolge quel Marino solitamente presentato nelle scuole come esempio della deprecabile meraviglia. Osserva Sberlati che alla base delle sue arguzie ingegnose e della ricerca enfatica di quella meraviglia, sta la convinzione di fare opera durevole per il signore. Marino, conclude Sberlati, ebbe un lungo ed accidentato tirocinio con anche due tristi intervalli in carcere che gli fanno conoscere il contrasto tra la sua attitudine letteraria e la coercizione politica. Così la sua poesia non vuole essere più soltanto un divertimento cortigiano ma un aprirsi alla vita pubblica.
    Antonio Montanari

  • Nove racconti di Anna Rosa Balducci

    Balducci


    Al lettore il segreto lo spiega "il bibliotecario vecchissimo di una di quelle biblioteche che stanno in cima a città antiche, circondate da mura screpolate e arricchite di piazze". Una città divisa in due parti esatte, di qua i ricchi, di là i poveri.

    Questo antico signore ad un  tratto si desta dal suo dormiveglia, per merito di una scrittrice (Anna Rosa Balducci) che lo mette al centro delle proprie pagine, con il compito di raccontare una storia che ha lunghi incanti ed improvvisi misteri.

    La scrittrice fa del bibliotecario il suo doppio, per chiarire la chiave di lettura non delle pagine che compone, ma della vita stessa di ogni giorno delle persone qualsiasi. Il bibliotecario diventa così una specie di grande saggio, capace appunto di svelare certi segreti, ma soprattutto di interrogarsi sulle stranezze che accadono a tutti, lungo il cammino dell'esistenza.

    Ma questo compito lo mette in crisi. Quando gli chiedono il perché di quelle strane luci apparse nei suoi occhi ad un certo punto del racconto, il bibliotecario s'interrompe. E fa una confessione che contiene il registro principale di queste pagine: "Che pasticcio, ragazzi miei, andar dietro a storie che sono anche un poco favole, che bel pasticcio davvero".

    In tutti i racconti del nuovo libro di Anna Rosa Balducci, "Girasole e altre storie" (Il Ponte Vecchio, Cesena 2010, pp. 164), il lettore è coinvolto in strane atmosfere ben riassunte da una descrizione che appare quasi all'inizio: "Questa casa è un caleidoscopio, muta forma, contiene tutto quello che le chiedi".

    Un'asciutta e precisa analisi del volume è fatta dalla studiosa riminese (e per giunta bibliotecaria), Oriana Maroni, che nella presentazione ne sottolinea efficacemente gli aspetti fondamentali: lo "scorazzare in un mondo liberato dalla storia ufficiale", non per nostalgia, ma con "sdegno, e dunque un preoccupato spiare il futuro".

    Maroni al proposito cita il racconto più angosciante, quello in cui si prefigura lo scenario da incubo dell'anno di grazia 2252. In cui tutta la vita degli individui è decisa dall'antico psicologo divenuto "psicotropo". Il quale attua la politica voluta dai "grandi controllori". A cui tutti dovranno sottostare. Ai posteri auguriamo che lo scenario da incubo qui prefigurato, non si avveri. Anche se nella contemporaneità qualcosa s'intravede già.
    Ai contemporanei suggeriamo la lettura attenta delle pagine più autobiografiche del volume. Quelle dedicate alla scomparsa della nonna di Mariola, ovvero la mamma di Anna Rosa.

    Le possiamo sintetizzare nelle righe con cui la nipotina rammenta quel San Gabriele di cui le era stato tanto volte detto perché nel paesello della nonna "ogni volta che un bambino malato si guariva, si regalava al Santo una vestina da battesimo ricamata di bianco". Mariola invano sognava allora che anche per la nonna si potesse portare a San Gabriele quella vestina per ringraziamento. La vita non contiene tutto quello che le chiedi.
    Antonio Montanari

    [05.04.2010, anno V, post n. 90 (1181), © by Antonio Montanari 2010. Mail.]

    Divieto di sosta. Antonio Montanari. blog.lastampa.it
    © RIPRODUZIONE RISERVATA[/COPYRIGHT]

    La foto è presa dal blog di ARB

    All'articolo su "Pane a colazione" di ARB (2008)


  • Pane a colazione, un romanzo di Anna Rosa Balducci (2008)
    Cultura e società
    Sono storie di due generazioni, quella delle madri e quella delle figlie, raccolte come in un mazzo, per documentare la lunga linea rossa che attraversa la vita, sotto il segno degli amori e delle infelicità, intendendo con questa parola tutto: l'affacciarsi dei problemi, le inquietudini nell'affrontarli, i tentativi di svicolare o di ritornare indietro nel tempo e nello spazio, alla ricerca più o meno intensa e disperata di quegli ieri che sono immersi nell'oggi, indispensabili per capire il presente, inutili soltanto a parole, essenziali nel vivere i fatti dei quali forse nemmeno ci rendiamo conto.

    Anna Rosa Balducci costruisce in oltre 230 pagine questo convincente romanzo dell'umile quotidiano, reso con efficacia dal titolo "Pane a colazione". Il quale rimanda per contrasto ad un altro libro di mezzo secolo fa, quel celebre "Cioccolata a colazione" (1957) di Pamela Moore, oggetto di venerazione e di scandalo, ritratto della "gioventù bruciata" di Hollywood, di un'America allora sognata, copiata e strapazzata, lontana da tutto quello che dieci anni dopo furono gli Usa. Dai campus in rivolta alla guerra nel Viet-Nam. Anzi per rispettare il rapporto causa-effetto, dalla guerra nel Viet-Nam ai campus in rivolta. Dalla "nuova frontiera" di JFK, alla sua uccisione, a quella di Martin Luther King e di Robert Kennedy .

    Nel libro di Anna Rosa Balducci siamo nella provincia pigra che ha tuttavia le sue simboliche figure di qualcosa che agita e tormenta per chi le sa vedere ed interpretare.
    Proprio all'inizio del romanzo c'è un passo in cui tutto ciò è riassunto e spiegato, quando Giovanna passa nel centro della città e si trova davanti il tempio malatestiano di Rimini: «Quella figura di pietra bianca è così accomodata in quel punto esatto della terra, eppure lei sa che tra le sue linee si nascondono storiche inquietudini, imprecisate anomalie ideologiche, rabbuffi grotteschi lasciati come criptogrammi da decifrare, apparentemente inesistenti tra la perfezione delle linee evidenti».

    Le nostre storie di tutti i giorni sono così, "apparentemente inesistenti", eppure vere, collocate da qualche parte, forse in quella stanza degli affetti smarriti che finisce per essere la vita. Ma grazie al cielo se in quella stanza ci si può ritrovare, o da soli o con la "compagnia" che era partita ed è ritornata, tra il balenare di ricordi e l'illuminazione di speranze.

    L'autrice sa ricostruite il legame tra le scene, accompagnare sulla pagina i protagonisti, introdurre il lettore alla varie parti di una storia che non è la documentazione di tutto il possibile oppure di tutto l'accaduto.
    Tra il possibile e l'accaduto, esiste un legame ambiguo che è la forza del racconto: per dimostrare che alla fine costano fatica le strade sulle quali si cammina per ritrovare la certezza dei fatti avvenuti, ma che spesso questa fatica non è ripagata dalla certezza.
    Il possibile rassomiglia sempre di più all'accaduto, perché l'accaduto resta indecifrabile, fitto di interrogativi, per cui nella vita si corre il rischio di considerare fatti veri quelle che per forza di cose sono soltanto ipotesi, appunto il possibile che immaginiamo successo nel passato o possa avvenire nel futuro.
    Verso la fine del libro c'è una scena magistralmente simbolo di questa situazione esistenziale, il treno che si ferma in aperta campagna, e nessuno sa niente né perché si è bloccato né perché poi piano piano, alla fine, è ripartito.
    Grande abilità nella narrazione, segno di una maturità da vera scrittrice, nelle pagine di "Pane e colazione" dimostra Anna Rosa Balducci. C'è una frase che mi ha felicemente colpito, quando l'autrice parla di un vecchio signore, le cui idee "mai erano diventate in lui una gabbia di cattiverie e malefici". Basta questa piccola frase per riassumere un intero saggio sulla vita.