• Rimini 150. Dal 1861

    La popolazione del Comune di Rimini del 1862 è calcolata per 4 rioni di città (Cittadella, Montecavallo, Pataro, Clodio), per 4 borghi (Sant'Andrea, San Giovanni, San Giuliano, Marina) e per la campagna. In tutto ci sono 33.272 persone. Metà nella campagna (16.398) e metà (16.874) fra rioni (10.413) e borghi (6.416). 
    Le famiglie sono 6.349. La media di persone per nucleo è di 5,24. Le case abitate sono 4.432. In ognuna la media degli occupanti è di 7,50 persone. Le case vuote sono 155.

    Il primo censimento regio, tenutosi l'anno prima (1861), registrava un dato ulteriore. La popolazione di fatto era sempre di 33.272 (17.427 maschi e 15.845 donne), mentre la popolazione di diritto scendeva a 32.860 (-412).
    Poco cambia nel 1871 (33.886 persone), con un aumento totale di 614 unità (+1,85%), delle quali 499 sono in campagna.

    Meritano un confronto i dati delle singole zone, registrati nel 1862 e nel 1871. I rioni scendono da 10.413 a 9.747 (-666 unità, -6.40%). I borghi crescono di 781 unità (+12,09%), passando da 6.461 abitanti a 7.242. Infine la campagna: quei 499 abitanti aumentati sono un +3,04%.

    Uno sguardo generale sui dati riportati, indica fra 1862 e 1871 questi punti:
    1) la popolazione totale aumenta di 614 unità (+1,85%);
    2) i 4 rioni di città con 666 abitanti in meno, perdono un 8,12% nel 1871 (quando scendono al 28,76%) rispetto ai dati globali del 1862 (quando sono il 31,3%);
    3) la popolazione dei borghi aumenta di 781 unità, con un dato relativo all'incidenza degli stessi borghi sull'intera popolazione pari al +16.02;
    4) per la campagna, le 499 persone in più fanno crescere il dato relativo alla sua popolazione dal 49,28 al 49,86%, ovvero c'è un aumento dell'1,18%.
    Morale della favola: il centro della città (rioni) perde abitanti che vanno soprattutto nei borghi.

    Siamo qui al 1871. Per curiosità diamo un'occhiata ad inizio secolo. Gli abitanti registrati a Rimini Comune sono 21.581 nel 1816. Saranno 33.552 nel 1865, 34.799 nel 1870, e 33.886 nel 1871 come si è già visto.

    Possiamo infine confrontare il 1833 con il 1865. I rioni aumentano complessivamente di 344 unità (da 9.586 abitanti a 9.930). I borghi passano da 4.629 a 6.363 unità (+1.734).
    L'aumento maggiore è quello nel borgo Sant'Andrea (+979) con un +188% della popolazione (da 521 a 1.500 persone).
    Il borgo Marina nonostante l'avvio del turismo, sale soltanto del 17,67%, passando da 1.590 a 1.871 unità.

    Nel 1859 gli aventi diritto al voto per il Municipio sono 2.500. Per le elezioni politiche del 1860 gli iscritti sono 575. Nel 1913 gli aventi diritto al voto passano da 6.466 a quasi 22 mila con il suffragio universale diretto.


     

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  • Rimini 150. Dal 1861Alla folla oceanica del fascismo si arriva dopo la "grande guerra". I marinai sono i primi a rimetterci. Tra i più anziani c'è chi distrugge «quei trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi sacrifici» (G. Facchinetti).

    Il biennio 1919-1920 passa fra bandiere rosse, camicie nere ed occupazioni contadine delle terre.
    Lo sciopero generale (1919) per il «poco pane» avviato dai ferrovieri, costringe il Comune a dimezzare i prezzi di tutti i prodotti.

    I proprietari fondiari non accettano di riformare il patto colonico. I contadini iniziano (luglio 1920) lo «sciopero delle vacche», durato otto giorni. Le portano dalle campagne ai padroni.

    Durante lo sciopero generale del primo luglio 1920 un possidente di San Lorenzo in Strada, Secondo Clementoni (44 anni), è ucciso. Tre anni dopo stessa sorte per suo figlio Pietro (23), ex presidente della locale cooperativa 'bianca' di consumo.

    La Sinistra vince le elezioni comunali (17.10.1920). Arriva il «biennio nero» 1921-22 con lo squadrismo giustificato da «L'Ausa» (organo dei popolari di don Sturzo): «Le oppressioni selvagge e vigliacche dei socialisti non si contano più. Con questi degenerati bisogna tornare al medio evo ed instaurare la legge del taglione».

    Il movimento fascista nasce ufficialmente in un albergo di piazza Cavour (24.4.1921). Il giorno prima su «L'Ausa» un articolo firmato G. (don Domenico Garattoni?) incensa il santo manganello: «La violenza fascista ha portato realmente un grande bene alla Nazione, purificando l'aria dai pestiferi bacilli rossi».

    Il foglio socialista «Germinal» ha anticipato (24.12.1920) la costituzione del fascio, descrivendo «un gran daffare tra i figli di papà mangiasocialisti di Rimini e qualche pezzo grosso del fascismo forestiero», non esclusi alcuni reazionari di San Marino.
    A Serravalle prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921 avviene il ferimento mortale del dottor Carlo Bosi. Che era con il figlio Vittorio, noto squadrista, vero obiettivo dell'agguato.

    Dalle urne locali escono primi i socialisti con 2.528 voti in meno. I comunisti al debutto ne prendono 2.198. I popolari 4.560 (+1.120 sul 1919).
    Il 19 maggio 1921 è ucciso Luigi Platania (31 anni). Anarchico, fondatore dei fasci, combattente in Libia ed interventista andato al fronte, ha fatto pure la «settimana rossa». Quando fu sospettato del furto di una cassaforte assieme a Carlo Ciavatti, al quale avrebbe sottratto parte del bottino. Ricevendone una minaccia che a Ciavatti costa 14 anni di galera.


  • Rimini 150. Dal 1861Rileggiamo le vicende di Rimini dopo l'Unità d'Italia, attraverso qualche parola. Cominciamo da "popolo".


    Piace ai politici, è tenuto d'occhio dai pulizai. Novembre 1861 (il regno d'Italia è nato il 17 marzo), viaggio inaugurale della ferrovia Bologna-Ancona. Il re Vittorio Emanuele II sosta in stazione sul mezzogiorno, per uno spuntino. Scrive Luigi Tonini: «Gran concorso di gente, donne, popolo, ma pochissimi evviva».

    Nel settembre 1888 un altro re, Umberto I, visita lido e Kursaal. Nel luglio 1900 arriva l'anarchico Gaetano Bresci. Con la rivoltella portata da Paterson (New Jersey). Come ricordava Guido Nozzoli, si esercita nel cortile di palazzo Lettimi, sotto gli occhi di Domenico Francolini, repubblicano poi socialista ed anarchico, che vi abita quale marito di donna Costanza Lettimi.

    Bresci è ospitato nel borgo San Giuliano dall'oste anarchico Caio Zanni, arrestato dopo il regicidio (29 luglio) e trasferito al carcere di San Nicola di Tremiti.

    Da palazzo Lettimi (lo testimoniava una lapide dettata nel 1907 da Domenico Francolini), s'erano mossi «nel 1845 gli audaci rivoltosi, preludenti l'italico risorgimento», guidati da Pietro Renzi. Quando «tutta Romagna ribolliva», e Rimini era «una delle città riscaldate» (L. Tonini).

    10 settembre 1912, è firmato il nuovo patto colonico riminese che non soddisfa i socialisti e che (osserva «L'Ausa») è applicato da «troppo pochi proprietari». Le agitazioni nelle campagne continuano e sfociano nella «settimana rossa» (giugno 1914).

    Il 25 luglio 1914 arrivano i deputati repubblicani. Sono contro l'intervento a fianco dell'Austria. Il 26 Benito Mussolini grida sull'«Avanti!» che dirige: «Abbasso la guerra!». Tocca al «proletariato d'Italia» muoversi per non farsi condurre «al macello un'altra volta». 

    L'«altra volta» è la guerra di Libia. Anche per le imprese coloniali sono morti molti nostri giovani: in Eritrea, in Somalia (Carlo Zavagli è il più noto) ed in Libia.

    Il 2 agosto Roma sceglie la neutralità. Mussolini dal suo nuovo giornale «Il Popolo d'Italia» vuole l'intervento. Per realizzare la rivoluzione sognata durante la «settimana rossa».

    «L'Ausa» lo definisce «un ciarlatano ombroso e un arrivista qualunque» da fischiare e spazzar via. Prima lo aveva elogiato come «battagliero nemico delle ipocrisie e delle mezze coscienze, pieno di rude franchezza romagnola».

    Il pomeriggio del 23 maggio 1915 i carabinieri a cavallo annunciano a tromba la guerra. Rimini avrà 644 caduti.


  • Un "Diario" inedito di Aurelio Bertola
    Terza edizione (non apparsa a stampa), 2010

    Parte prima

    Gli ultimi anni della vita di Aurelio De' Giorgi Bertola [1753-98] sono talora liquidati con formule brevissime che non riescono a descrivere una situazione drammatica.
    Dove il discorso è più analitico, si dice che "i documenti sono scarsi". (1)
    Ciò è vero soltanto in parte. Ad esempio, presso la Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, si trova un "Diario" inedito, relativo ai periodi dal 14 giugno 1793 al 28 gennaio 1795, e dall'11 ottobre 1796 al 15 gennaio 1797. Si tratta di due fascicoli separati, di 18 e 8 fogli. (2)
    Il secondo è quello più significativo per comprendere i momenti cruciali della vicenda di Bertola, mentre sull'Italia si abbatte la ventata napoleonica.

    Non è qui possibile spiegare in maniera completa la storia personale di Bertola, in relazione al quadro politico. Mi soffermerò solamente su alcuni aspetti, cominciando da ciò che non è scritto nel "Diario", sotto la data del 15 gennaio 1797, domenica.
    Lo spazio bianco che segue a questa data, lo si spiega se ci si documenta con quanto lo stesso Bertola comunica ad Ippolito Pindemonte il 24 ottobre 1797: "Fuggendo una persecuzione del Governo romano verso la metà di Gennaio passai a Roma: arguite come io fossi sicuro della mia innocenza. Ivi mi fermai un mese: di là in Toscana; e divisi due mesi fra Siena e Firenze". (3)
    L'11 febbraio 1797 Bertola ha spiegato a Lorenzo Mascheroni di essersene andato da Rimini per sottrarsi "all'imminente pericolo di essere arrestato e condotto in assai miser luogo, come uomo di opinioni infette e perverse". (4)
    Il 3 marzo un altro poeta, Vincenzo Monti, fugge da Roma verso Milano e Napoleone.

    Perché Bertola scappa da Rimini? Il 23 giugno 1796 a Bologna si è firmato l'armistizio tra Napoleone e la Santa Sede: il Papa ha ottenuto la restituzione della Romagna. La Curia romana teme effervescenze giacobine nelle nostre terre. Bertola in quei giorni è a Rimini. Tra fine ottobre ed inizio dicembre 1796, si trova malato a Bologna che fa parte della Cispadana dal 16 ottobre. Non ha potuto raggiungere Pavia, a causa dell'infermità. A Pavia ha la cattedra, su cui non siede più dal 1793, sempre per le sue precarie condizioni di salute.

    Il viaggio a Pavia, aveva uno scopo ben preciso, ottenere "il sussidio", come si legge nel "Diario" del 2 novembre. Pavia è sotto il dominio napoleonico: Bonaparte è entrato in Milano il 15 maggio 1796.
    Bertola è suddito del Papa: per sopravvivere però ha bisogno della pensione che può decretargli chi comanda in Lombardia da fine agosto, sotto il nome di "Amministrazione generale", primo nucleo della Repubblica Transpadana.
    Nel "Diario" il 13 novembre 1796 Bertola annota: "Su le ragioni del mio partire; nessuno può accusarmi né qual cattolico né qual suddito, dunque son tranquillo. Non so quel che farò". Il 23 scrive [a Serafina Mularoni]: "Le mie circostanze mi richiamano a Rimini dove passerò il verno". Il 28 si rivolge ad una sua grande benefattrice, la poetessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati, come si legge nel "Diario": "Ma e della pensione a cui ho diritto ora ancor più di prima? Per pietà me la ottenga. Sono senza un soldo. […] quella piccola pensione mi basterà fino a miglior sorte".

    Bertola ritorna a Rimini all'inizio di dicembre. Il 28 appunta nel "Diario": "Forse a Roma donde mi si fa sperare soccorso". Il 31 scrive al Cardinal Legato una lettera di cui ho trovato la copia (5): vi si proclama "suddito affezionato e fedele", ed esprime "una profonda riconoscenza". Forse per aver ricevuto un aiuto in denaro da quell'"umano e caldo protettore delle lettere".

    A metà gennaio 1797, come si è visto, Bertola scappa a Roma, di qui passa in Toscana, per poi ritornare in aprile a Rimini, dove trascorrerà l'ultimo anno della sua esistenza lavorando al "Giornale patriottico".
    Nella citata lettera a Pindemonte del 24 ottobre 1797, scrive: "Non deve essere in voi maggior meraviglia in risapere ch'io non sia morto […]".
    Nel marzo del 1798 è a Milano. Poi ritorna nel suo "casino" a San Lorenzo a Monte, a Rimini: qui il 17 giugno conferma il testamento fatto in Milano. Quando si aggrava, Bertola è portato in casa Martinelli, ove il 22 consegna un nuovo testamento al parroco di Santa Maria in Trivio (Chiesa di San Francesco), padre Francesco Maria Veroli. Lì muore il 30 giugno. Nel registro dei defunti, padre Veroli lo chiama "Civis Ariminensis". Soltanto il notaio lo definisce anche "Sacerdote".

    Il 24 ottobre 1793 Bertola annota nel "Diario": "avuti dalla Sacrati per cambiale, scudi 50" [vedi lettera alla Sacrati, 63.143 FPS, 12 aprile 1795]. Il 7 novembre: "epilogo dell'affare per cui la pregai". Il 28 dello stesso mese, riassumendo una lettera inviata sempre alla Sacrati: "attese le difficoltà, non faccio altro impegno". Il 5 dicembre, nuova epistola alla medesima persona: "non scordi il mio affare". Il 6 marzo 1794, ancora in riferimento alla corrispondenza con Orintia Sacrati, Bertola scrive: "Ricevuto il denaro […] per la compra […] cercherò denaro a interesse […]: ho veduto il luogo che è bello: vi son debiti del venditore […]". Tre giorni dopo (9 marzo), a proposito di un'altra missiva diretta alla Sacrati, leggiamo nel "Diario": "le ho già scritto che bisogna nell'affare andare con pie' di piombo. Che le manderò la pianta del casino […]".


    Parte seconda

    Il "casino" della cui "compra" Bertola parla in questa lettera, è una proprietà a San Lorenzo a Monte (Rimini). Il testo del 9 marzo contiene altri accenni al "casino" che il poeta a lungo sognò come il proprio "buen retiro". La grafia minuscola di Bertola rende talora difficile se non impossibile decifrare tutte le parole del passo (come accade assai sovente con i suoi autografi). Sembra che il poeta voglia difendersi dalla curiosità dei posteri, rendendo dura l'opera di scavo nelle sue pagine, e quindi nei suoi segreti.
    Accostando le parti meno ostili alla decifrazione, si ricava che: il "casino" non era abitabile, ma tale lo avrebbe reso Bertola; la posizione su cui sorgeva era "ridente"; "il primo d'aprile" Bertola sarebbe andato "in una casetta del fattor di Martinelli, vicina", per cui aggiungeva contento: "sarò in città e in villa". Le difficoltà di salute infatti lo ostacolavano nei movimenti.
    Da altra fonte (6), sappiamo che il 22 febbraio dello stesso 1794 Bertola ha stipulato un contratto biennale d'affitto con Giovanni Pagliarani per una villa mobiliata (in località Crocifisso, ai piedi del Covignano), con due camere, una saletta e un pezzo di terra: è la "casetta" di cui parla nel "Diario".

    Nelle pagine successive del "Diario", Bertola registra minuziosamente ogni spesa per il "casino": l'onorario al perito, la mancia per trasportarvi uno specchio, l'acquisto di trecento mattoni, carbone, due capponi, "canapé a letto", canne, sabbione, ecc. Il 29 e 30 aprile è citata la spesa di 70 scudi per "soffitto a S. Lorenzo". Il contadino che lavora per Bertola si chiama Battistini.

    La ristrutturazione dell'edificio dissangua le finanze di Bertola. In maggio scadono cambiali in scudi romani. Le preoccupazioni economiche si assommano a quelle per la salute che costituisce l'oggetto principale di molte lettere. Ancora una volta, la Sacrati viene in suo soccorso: a luglio gli manda trecento scudi. Per tutto agosto proseguono i lavori nel "casino". E così le spese.
    È un'estate che vede il contrasto fra l'entusiasmo per il nido che Bertola va allestendosi, ed il peggiorare della sua situazione fisica. "Fiacchezza" ha annotato il primo luglio, ricordando anche la "febbre". Il 18-19 agosto, si legge: "tosse, dolore, tristo avvenire […] essendo in peggior stato di salute". Bertola ha 41 anni. L'11 novembre scrive alla Sacrati: "che mi mandi le lenzuola".

    Le parole con cui si conclude il primo fascicolo del "Diario" (nel gennaio 1795), sono rivolte ancora alla Sacrati: Bertola le ha inviato un anello; lei ha equivocato sul dono; lui si giustifica, proclamando la propria innocenza e deprecando che "ella già diffidi di me da non qualche tempo". La Sacrati, allora trentenne, temeva di essere corteggiata da quell'inguaribile Don Giovanni? Bertola le spiega: "per l'annello non ebbi altra intenzione che il pegno": forse per quei trecento scudi di luglio. (7)
    Sotto il 25-28 gennaio, Bertola riassume un'altra lettera inviata all'amica cesenate: e qui la grafia protegge con un velo quasi compassionevole il segreto di una pagina che è facile immaginare inquieta come il suo spirito. Nel 1786 la Sacrati ha scritto a Giancristofano Amaduzzi che l'"instabile" Bertola mancava di riconoscenza e "pulitezza", cioè cortesia. (8)

    Al pari delle citazioni qui riportate dal "Diario", è inedito anche questo passaggio del testamento bertoliano del 22 giugno 1798: "Avendo io ricevuti molti considerabili benefizi e segnatam[ente] un ajuto in denaro per l'aquisto di un Podere, e Casino nella Par[rocchi]a di S. Lorenzo a Monte dalla Cittadina Orintia Sacrati nata Romagnoli di Cesena, lascio alla med[esim]a a titolo di Legato detto Podere, e Casino, compresovi un Campo da me ultimamente aquistato dalla famiglia Lettimi". (9)


    Il 10 agosto 1793 Bertola comunica alla Sacrati: "da Verona le scriverò a lungo sul libro che dedicherò a lei, e per cui voglio il suo ritratto". Sotto l'8 settembre, si legge: "Sacrati: mandi il disegno, ma presto". Poi, al 9 marzo 1794: "pel ritratto aspetti". Il 1° maggio Bertola invia ad Orintia "versi pel suo ritratto". Il libro di cui parla Bertola è l'edizione (che uscirà nel 1795 a Rimini "per l'Albertini"), del "Viaggio sul Reno e ne' suoi contorni", con la prefazione dedicata appunto "Alla nobil donna la Signora Marchesa Orintia Sacrati nata Marchesa Romagnoli".

    Il viaggio in Svizzera e in Germania, progettato già nel 1783, si è svolto dal 19 luglio al 15 novembre 1787. Una prima stesura (parziale) del "Viaggio" fu pubblicata nel 1790 sulla "Biblioteca fisica d'Europa". Nel passo ricordato del "Diario" sotto la data dell'8 settembre 1793, si legge che Bertola ne richiede alla Sacrati cento copie, a otto scudi l'una. (10)
    L'edizione albertiniana del 1795 appare senza il ritratto della Sacrati, del quale Bertola parla nei passi appena citati del "Diario". La prefazione dedicata alla Sacrati inizia: "Queste Lettere, Signora Marchesa, a Voi dirette alquanti anni addietro, doveano assai prima d'ora tornarvi sott'occhio messe alla stampa. Ma molti ostacoli, il più fastidioso e ostinato de' quali fu la mia salute, non vollero che io soddisfacessi al mio desiderio".


    Parte terza


    Nel "Diario", per l'autunno 1793, ci sono molte annotazioni sulle condizioni fisiche del poeta, sempre in riferimento a lettere inviate alla Sacrati. Il 26 ottobre, Bertola le scrive da Verona: "salute sfasciata: aria di Venezia che sola mi conviene". [A Venezia ha soggiornato a settembre.] Il 7 novembre: "malato in Verona". Il 23 novembre, a Pindemonte: "riavutomi andrò a Rimini a passar l'inverno". Pindemonte gli risponde: "[…] non dubito che passando l'inverno a Rimini, ed avendo diligentissima cura della vostra salute, voi non possiate ristabilirvi anche in breve tempo". (11)
    Del 28 novembre è un'altra lettera di Bertola alla Sacrati: "pericolo di mal sottile, e passerò il verno, come potrò muovermi a Pisa o in patria". Il 9 dicembre Bertola lascia Verona ‘fiamma'): "non scrivo di proprio pugno, perché il dolor fisso s'inasprisce alla più piccola azione".
    Le comunica che conta di andare a Venezia, salute permettendo: "se non dovrò restar qui", e precisa: "non curo di esser stimato pazzo […] per venire a Rimini senza necessità". In altre epistole di questo periodo, Bertola racconta a vari corrispondenti che "il latte non passa". Nel gennaio 1794 "il dolor fisso persiste", per cui dovrà muoversi soltanto in primavera. All'inizio di febbraio Bertola scrive a Pindemonte: "meglio di salute". Il 16 marzo: "male, dolor che persiste".
    L'11 ottobre comunica alla Sacrati: "avrei bisogno di partire […] ma la salute non potrà permettermelo". In novembre e dicembre, il "Diario" registra salassi e applicazioni di mignatte, spese per il chirurgo e per il medico.

    Nella prefazione del "Viaggio sul Reno e ne' suoi contorni" dedicata alla Sacrati (con la data "Di Covignano 13. Aprile 1795"), la tristezza dell'animo di Bertola è espressa da questo passo: "Io non so se la condizione a che le infermità m'han ridotto, consentirà ch'io più scriva": "questo libro è l'ultimo lavoro della mia penna".

    Dello stesso 1795 (17 novembre), è una lettera di Bertola alla contessa Soardi: "i fantasmi della bellezza semplice e ingenua da me raccolti, anni addietro, e che tuttora mi vanno oscillando per l'anima, basterebbero a farmi comporre l'intera giornata". (13) A proposito di "fantasmi".
    Nella "Lettera I." del "Viaggio sul Reno", rivolgendosi sempre alla Sacrati, Bertola aveva ricordato: "Io potrei quasi dire di avere con voi fatto il mio viaggio […]. Guardando, e notando io vi bramava sempre meco; e talvolta mi vi figurava al mio fianco; e così parevami di godere anche più, dividendo quei nobili e puri piaceri con un'anima sì pronta sì gentile sì esercitata nel contemplare ogni specie di bello come la vostra".

    Le notizie che seguono, relative alla proprietà del "casino" prima e dopo l'acquisto del Bertola, sono tratte da documenti notarili (14).
    Con atto del 25 novembre 1790 del notaio Gaetano Urbani, Caterina Mengozzi (vedova del Governatore di Rimini Marco Sualli, figlia del fu Carlo di Rimini, e madre di Francesca, Teresa, Laura ed Antonia Sualli, abitante a Roma), per necessità finanziarie vende una "Possessione" ereditata dal marito, "di terra arativa, pergolariata, frascata, olivata, vignata, moretata, fruttiferata, caneverata con casa sopra ad uso del colono, e Casino ad uso de Padroni di cinque Camere compresa la Cucina, ed altresì un oratorio pubblico unito alla d[etta] Casa posta nel Bargellato di questa città, in contrada S. Lorenzo in Monte, Cappella S. Lorenzo".
    Della vendita fa parte pure la piccola vigna posta in San Martino in XX, affittata a Vincenzo Tonini. Nel documento si parla anche di "poche mobilia esistenti in d[etto] Casino", segnato al n. 330 del "Catasto Calindri" di San Lorenzo.

    Il compratore, "Lorenzo Leurini di Rimino" paga 1.500 scudi, cento in più di quanto stabilito dalla perizia. Leurini s'impegna altresì a soddisfare i censi del venditore. Figlio del mercante Domenico e di Cristina Arienti, Leurini è sposato con Colomba Mengarelli. Il 20 marzo 1794 Lorenzo Leurini vende per 1.682 scudi e 85 bajocchi, ad Ottavio Brilli (figlio di Adamo da San Giovanni in Marignano) tale proprietà "a favore della Persona da nominarsi" dal compratore. Ottavio Brilli è fratello del notaio che stipula l'atto, Amadio Vincenzo (15). Che tale "Persona da nominarsi" sia da identificarsi nel Bertola, lo si ricava da altro documento del 26 giugno 1795 (notaio Gio. Battista Martelli). In esso infatti si fa il nome del "Sig.r don Aurelio del fu Sig.r Cap[itan]o Antonio Bertoli Nobile Riminese attualmente uno de Professori dell'Università di Pavia", come di colui che aveva comprato "possessione e Casino vendutagli dal Sig. Leurini". Con tale documento del 1795 (in cui la proprietà è localizzata con l'aggiunta: "Fondo Calastra"), la vedova Sualli concede a Bertola una "dilazione di anni quattro" per il pagamento degli scudi 375 previsti dall'atto del 25 novembre 1790: gli impegni di Leurini verso la vedova Sualli ricadevano su Bertola.


    Parte quarta

    Nel "Libbro Volture dal 1774 al 1779, Intitolato Catasto de Nobili" (16), al nome "Bertolli nob.le Sig. Abb.e Aurelio", la compera del "Casino" fu registrata come avvenuta per atto del notaio Martelli del 12 giugno 1795, e non con quello del notaio Brilli del 20 marzo 1794. Poco prima di questo atto del 1794, il giorno 6 dello stesso marzo, in riferimento alla corrispondenza con Orintia Sacrati, Bertola (come si è già visto), aveva annotato nel suo "Diario": "Ricevuto il denaro […] per la compra […] cercherò denaro a interesse […]: ho veduto il luogo che è bello: vi son debiti del venditore […]".

    Un allegato all'atto del 20 marzo 1794, contiene l'"Inventario degli Arredi sacri e mobili esistenti nel Casino e Casa Colonica del Sig. Lorenzo Leurini". Tra gli "Arredi sacri", conservati nell'oratorio pubblico che faceva parte della proprietà, troviamo: "Un quadro dell'Altare rappresentante la B. V. intitolata delle grazie con sua cornice, e cimasa dorata. Una croce di legno col Cristo. […] Un reliquiario di rame inargentato. Quattordici quadretti della Via Crucis in scielti rami con cornice marmorina verniciata a lustro, con suoi filetti, e Croce d'oro a velatura". L'elenco dei mobili dell'abitazione è molto più esteso: si va da "quattro banche da letto" a "un comodo per la notte d'abeto con suo vaso", ai servizi di sei chicchere da Cioccolato e da Caffè, "con suoi piattini, e zuccariera" e quattro "Cucchiaini da Caffè".
    Non mancano le immagini religiose: la Beata Vergine de' Monti, un Ecce Omo, il Salvatore, San Carlo, San Vincenzo e "4 diversi Santi".
    I soggetti profani di altri quadri, riguardano "ville, pascoli, e marine", oppure "battaglie".
    Ci sono pure due scaldini e "un scaldaletto padella, teglia, tutto di rame".

    Dopo la morte di Bertola, la proprietà di San Lorenzo a Monte fu messa all'asta dal tribunale, il 1° aprile 1801, con decreto del 28 marzo, su istanza di Orintia Sacrati, quale creditrice nei confronti dell'Eredità Bertola. Orintia non si considerò ricompensata da lettere e dediche del riminese: voleva recuperare gli scudi che gli aveva prestato. Le carte non furono più poetiche, ma legali.

    "La Possessione del Casino" viene venduta in asta a Carlo Guelfi per il figlio Giovanni, con atto del notaio Claudio Bonini dello stesso 1° aprile 1801, come si legge nell'"Estimo 1803-1809" (17). "Ad istanza della Citt. Orinzia Romagnoli e del Citt. Nicola Martinelli", quali creditori, erano stati citati a comparire davanti alla Legge, Serafina Mularoni (originaria di Verucchio) e marito. Bertola, nel testamento del 22 giugno 1798, aveva nominato propria erede universale la Mularoni, allora sua governante, riservando il podere e il "casino" di San Lorenzo a Orintia Sacrati. Per entrarne in possesso, la Sacrati avrebbe però dovuto pagare cento scudi alla Mularoni ed altri cento a Maria Mingoni, "in benemerenza d'aver servito", quest'ultima, la casa di Bertola "per anni quattordici".

    Il testamento del 22 giugno 1798, affidato da Bertola a padre Francesco Maria Veroli, Curato di S. Maria in Trivio (parrocchia in cui si trovava l'abitazione -in via Serpieri- dei Martinelli presso i quali il poeta era ospitato), annullava "qualunque altro Test[ament]o ed ultima volontà fino ad ora fatto, o fatta, e specialm[ment]e quello fatto in Milano per gli atti del Citt.o Gio. Pietro Rusca, annullando ancora altra Carta sigillata consegnata al Citt.o Claudio Bonini not[ai]o di Rimino; volendo che la pr[esen]te mia disposizione prevalga ad ogni altra non solo in q[ues]to ma in ogn'altro miglior modo". Nello stesso giorno, 22 giugno, il testamento di Bertola veniva consegnato al notaio Nicola Masi (18) da padre Veroli. Il notaio lo trascrive nelle cc. 357-360.
    Negli "Atti Masi" si trova anche la lettera di padre Veroli al notaio, controfirmata da Girolamo Mancini e (con croce) da Giorgio Buzzi, testimoni, alla c. 356.


    Parte quinta

    Bertola muore il 30 giugno (19). Lo stesso giorno il notaio Masi, "veduto prima il di lui Cadavere", dissigilla e apre il testamento (20), che poi legge "con voce alta, ed intelligibile", nella casa dei "Fratelli Martinelli abitazione del sud[dett]o fù Citt.o Bertola"; e poi verbalizza la consegna, da parte del "Cittadino Francesco Figlio del q[uondam] Giuseppe Martinelli […] qual Esecutore Testamentario del fù Aurelio Bertolla", di "un Foglio del d[etto] Aurelio Bertolla lasciato dopo la sua morte contenente varj debiti, crediti, e legati". Il foglio (21), diviso in due parti, reca per la prima la data del 22 giugno, e quella del 25 per la seconda (in cui Bertola dimostra la sua riconoscenza alla vecchia governante -passata a servizio in casa Soardi- Maria Mingoni, "per assistenza usatami negli ultimi giorni").

    Negli "Atti Masi" si trova allegata pure una dichiarazione autografa di Bertola, datata "Rimini S. Lorenzo a Monte 17. Giugno 1798", in cui si confermava il testamento fatto in Milano, aggiungendo al nome di Nicola Martinelli quale esecutore testamentario anche quello del "Cittadino Francesco Martinelli" (Nicola era troppo preso dalla politica, come componente il Consiglio de' Seniori a Milano [22], ed era spesso assente da Rimini), e disponendo che fino all'apertura del testamento, la sua governante Serafina Mularoni potesse abitare il "casino di S. Lorenzo a Monte", "tanto dovendo io all'assistenza usatami dalla medesima nella mia malattia". Il foglio veniva consegnato (alla presenza di due testimoni) al parroco di San Lorenzo, Cittadino Sampieri, perché lo passasse "ad un pubblico notaio di Rimini" (23).
    Serafina Mularoni, forte di questa dichiarazione del Bertola, alla morte del padrone non abbandona il "casino", ed anzi attende i cento scudi previsti nel testamento del 22 giugno 1798. Dopo quasi tre anni di contese con la Sacrati, viene sfrattata dal Tribunale.

    Il 26 aprile 1804, il Cittadino Nicola Martinelli ottiene che sia messa all'asta un'altra proprietà dell'eredità Bertola, la possessione denominata Pasotta (sempre a San Lorenzo), in cambio della quale ottiene tre case da Francesco Piccioni. (24) Dei crediti di Nicola Martinelli sappiamo che, sotto la data del 22 giugno 1798 del citato "Foglio" di Bertola, si legge: "Più si pagheranno alla Famiglia di Casa Martinelli scudi 10". (25)

    Nel suo testamento [cfr. cc. 359v-360r], Bertola lascia a "Niccola" Martinelli "come un piccolo attestato della mia sincera riconoscenza tutti i miei Libri, e Scritti Litterarj esistenti nel casino di S. Lorenzo, avvertendolo fra' gli scritti contenersi molte Lettere ed altre Carte di Uomini illustri che non sono da trascurarsi". (26) Invece la "Libraria" rimasta a Pavia [c. 359v], è destinata alla Sacrati.

    Nicola Martinelli aveva sposato nel 1764 la bellissima Diamante Garampi. La loro unica figlia Maria sposa Luca Soardi (1761-1824): da loro nasce Giambattista Soardi che eredita tutte le Carte Bertola, lasciate dal poeta a Nicola Martinelli.
    Diamante era figlia di primo letto di Francesco Garampi che in seconde nozze sposò Gertrude Martinelli, il cui nonno (Ignazio, aggregato ai nobili nel 1716 [27]) era fratello del nonno (Giulio) di Nicola Martinelli, marito della stessa Diamante Garampi. Francesco Garampi (padre di Diamante e fratello del card. Giuseppe) era figlio di Lorenzo, inserito (28) tra i nobili di Rimini nel 1712, quattro anni dopo le nozze con Diamante Belmonti che gli aveva portato in dote tremila scudi.
    Lorenzo si chiama anche il figlio di Francesco Garampi e Gertrude Martinelli: generò un'altra Diamante, andata sposa a Giuliano Soleri, padre di Pietro.
    Questo Lorenzo Garampi farà causa (29) contro Maria Martinelli (figlia della propria sorellastra Diamante), e il di lei marito Luca Soardi per contestarle diritti ereditari legati ai contratti matrimoniali: Lorenzo ne uscirà perdente (nel 1808) con la condanna a pagare le spese di giudizio (lire 689,23).
    Pietro Soleri erediterà da Giacinto Martinelli (figlio del Pietro che era fratello della Gertrude maritata Garampi): pure una sua figlia si chiamerà Diamante.


    Parte sesta. NOTE al testo

    1 Cfr. A. Piromalli, La storia della cultura in "Storia di Rimini dal 1800 ai giorni nostri", V, Ghigi, Rimini 1981, p. 25.
    2 Sono conservati nella cartella "Bertola" della Miscellanea Manoscritta Riminese del Fondo Gambetti.
    3 Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la 'fratellanza' con Aurelio De' Giorgi Bertola, Bastogi, Foggia 1987, p. 155.
    4 Cfr. in Studi su A. B. nel II centenario della nascita, Steb, Bologna 1953, il saggio di G. Gervasoni: "Dodici lettere inedite di A. B.", p. 140.
    5 La copia è nella cartella di cui alla nota 2.
    6 Cfr. A. Piromalli, A. B. nella letteratura del Settecento, Olschki, Firenze 1959, p. 121.
    7 In corsivo sono sottolineate alcune particolarità ortografiche.
    8 Cfr. lettera del 3 giugno 1786 in Fondo Amaduzzi, ms. 21, Biblioteca dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone.
    9 Cfr. in Atti Nicola Masi 1798, cc. 357v-358r, presso Archivio di Stato di Forlì-sez. di Rimini (ASR). Il "Campo" è ottenuto in permuta, da Andrea Lettimi (Atti Masi, cc. 66-68, 16 gennaio 1798).
    10 Il titolo è: "Viaggio sul Reno fatto nel settembre del 1787".
    11 Cfr. Luzzitelli, op. cit., p. 123.
    12 Ibidem, p. 124.
    13 Cfr. Piromalli, A. B. nella letteratura del Settecento, cit., p. 127. La contessa Soardi è Maria Martinelli, figlia di Nicola e Diamante Garampi.
    14 Essi sono conservati presso l'ASR.
    15 Debbo la spiegazione alla cortesia di Luigi Vendramin dell'ASR. (Nel ms. 636 della Gambalunghiana, c. 32 v, leggo: "1813, 29 dicembre. La sera fu ucciso il Signore Ottavio Brilli da un Ufficiale Napoletano".)
    16 Presso l'ASR.
    17 Presso l'ASR.
    18 Cfr. in Atti Masi 1798, c. 346rv, presso l'ASR.
    19 Sul momento del decesso, alla c. 355 [30.6.1798] in Atti Masi, si legge: "circa le ore 20 e mezzo italiane"; nell'atto di morte dell'Archivio di S. Maria in Trivio, è scritto: "ad horam post meridiem quintam". Per una biografia di A. B., cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna, Il Ponte, Rimini 1992 [I ristampa, 1993].
    20 Nella cit. c. 355rv degli Atti Masi 1798.
    21 In Atti Masi 1798 alla c. 362.
    22 Cfr. c. 359v in Atti Masi 1798.
    23 Sulla quarta facciata del documento si legge: "Codicillo del Citt. Aurelio Bertolla consegnato al Notaio Claudio Bonini sotto li 19. Giugno 1798". È il documento di cui si parla nel testamento del 22 giugno 1798. Si trova nei citt. Atti Masi 1798.
    24 Sulla proprietà Pasotta, nella Perizia Valadier (relativa ai danni del terremoto del 1786, in AP 620, ASR), si legge "Casotta". Nella Perizia Morigia (AP 816, ASR), si legge "Casotta", poi corretta in "Pasotti".
    25 Sui debiti di Bertola, vedi alle cc. 359-360 in Atti Masi citt.: "i Beni Stabili sopra indicati […] restano gravati di molti pesi", tra cui frutti annui alla Cittadina Eleonora Sacrati di Ferrara. Un "Sagrati marchese Tomaso" è registrato tra i proprietari forestieri del "Libbro Volture dal 1774 al 1799, Intitolato Catasto de Forestieri" in ASR. Il marito di Orintia Romagnoli era di Ferrara (cfr. c. 161 di C. A. Andreini, Notizie delle Famiglie Illustri di Cesena, Famiglia Romagnoli, Biblioteca Malatestiana Cesena 164, 34, v tomo).
    26 Secondo p. G. Giovanardi, "Francesco [Martinelli] fu mecenate del poeta riminese A. Bertola che ospitò nel suo palazzo, aiutò ed assisté nell'ultima sua malattia" (cfr. p. 6, I Martinelli conti di Francolino, Tip. Operaia, Rimini 1927). I documenti permettono di avanzare dubbi sul mecenatismo dei Martinelli, o almeno sulla gratuità dell'assistenza prestata a Bertola.
    27 Cfr. AP 872, c. 226r in ASR
    28 Cfr. AP 872, c. 174r in ASR.
    29 Cfr. il volume Causa Garampi-Martinelli, passim.


    Parte settima. Aggiunta al testo

    Nel 2007 ho ricevuto questa mail.

    Durante un ricerca su internet, mi sono imbattuto, sebbene con 3 anni di ritardo, nel suo articolo su Il Rimino (2004), “Contro il volere del padre”.
    Sfogliando l’articolo, sono giunto al capitolo 5. “Povera ma onesta e buona”: Serafina Mularoni. Il nome non mi era del tutto nuovo, mi ricordavo di averlo letto da qualche parte nell’archivio di famiglia. Ho effettuato alcune ricerche e il nome Mularoni è comparso in un un Liber Confirmatorum con inizio nell’anno 1747, appartenente alle carte dell’Architetto Antonio Tondini.

    Inoltre, nell’articolo sono nominati altri personaggi a me familiari, fra cui Biagio Giuccioli e Giuseppe Pecci.
    La vicenda mi interessa personalmente dato che Biagio Giuccioli è lo zio di mio trisnonno Gennaro Cinti (in linea materna, nato Verucchio nel 1790), che si unì a 19-20 anni a Napoleone (penso influenzato dal Giuccioli che lo aveva allevato essendo diventato orfano a 12 anni), e che, ritornato dall’esilio, sposò una parente dell’Architetto Antonio Tondini. I suoi discendenti, fra cui mia madre, hanno ereditato le carte del Tondini.
    Anche Giuseppe Pecci è imparentato con i Cinti avendo mio bisnonno sposato una Pecci.

    Ma torniamo alla Mularoni.

    Detto Liber Confirmatorum di Verucchio è riferito agli anni 1747, 1753, 1761, 1766, 1772, 1781, 1782, 1788.

    Rifacendomi a quanto lei scrive nel suo articolo: “…mancava la fede della cresima. (…) Non hanno dato frutto alcuno le ricerche dell’atto di battesimo nell’Archivio parrocchiale di Verucchio. Forse la famiglia era immigrata.(…)”, ho riscontrato che alcuni Mularoni sono presenti in Verucchio fin dal 1747 e quindi probabilmente non recenti immigrati.

    Ecco la cronologia:

    7 maggio 1747 (nella parrocchia dei SS. Andrea e Biagio).

    N° 13 Francesco figlio di Fran.co Mancini d’anni 8. Fu compare Gio: Mularoni di questa Parocchia.

    N° 25 Antonio figlio di Gio: Mularoni d’anni 12. Fu compare Fiorenzo Celli.

    N° 40 Barbara figlia di Gio: Mularoni d’anni 8. Fu comare Madalena Brocchi della Pieve.

    2 settembre 1753 (nella chiesa di S. Francesco dei Padri Conventuali)

    N° 2 Giuseppe figlio di Lorenzo Mularoni di anni 8. Fu compare Gio: Serafini.

    N° 5 Marino Fran.co figlio di Lorenzo Mularoni d’anni 7. Fu compare Sebastiano Bellocci.

    8 giugno 1772 (nella chiesa cattedrale di S. Colomba da parte di Mons. Castellini vescovo di Rimini)

    N° 6 Gio: figlio di Marino del Bene d’anni 13. Tenuto da Francesco Mularoni.

    26 agosto 1781 (nella chiesa dei Padri Conventuali di S. Francesco)

    Maschi:

    N° 5 Giovanni figlio di Antonio Maria Mularoni d’anni 7. Fu compare Michele Martelli

    24 agosto 1788 (nella chiesa dei Padri Conventuali di S. Francesco)

    Maschi:

    N° 21 Marino figlio di Antonio Maria e di Maria Mularoni d’anni 6. Compare Gregorio figlio di Sebastiano e di Antonia Bellocci.

    Di Serafina nessuna traccia.

    Inoltre, sono anche in possesso di un libro, Officium Hebdomedae Sanctae, formato tascabile, pubblicato a Venezia nel 1774 (ereditato dalla famiglia paterna Bacchiani di Pesaro) sul cui foglio di risguardo risulta la seguente dicitura “Comprato in Rimino l’anno 1822 alli 23 marzo: ad uso di me Giovanni Mularoni”. (Forse il Giovanni dell’anno 1781).
    Per quanto ne so, il libro era appartenuto ai Bacchiani da generazioni, così mi diceva mia nonna (che era del 1880).

    Le invio queste note a titolo informativo e anche per il caso in cui lei avesse intenzione di proseguire le ricerche sulla Mularoni.

    [Il testo su Diamante e Serafina si legge qui (alla sintesi del convegno degli Studi Romagnoli 2001).]

    Casa MalatestiAll'indice delle pagine dedicate a Bertola.


  • Casa Malatesti

    La processione degli ignari 
    Che cosa non funziona in certe notizie storiche


    Il latino serve per non finire in acqua...


    Come si fa a far nascere Pandolfo II Malatesti nel 1325 e poi affidargli nel marzo 1335 (quando il poverino avrebbe avuto nove o dieci anni) addirittura il comando di armati vittoriosi grazie ai quali sarebbe divenuto podestà di Fano? Dimenticando oltretutto che la questione era stata posta da uno studioso italiano già nel 1907 (anticipando al 1310-1315 quella nascita). Come ben sanno gli autori di un testo apparso a Stoccolma nel 2004…

    Ma la processione degli «ignari», ovvero di «coloro che non sanno», è lunga.

    Cominciamo da una iscrizione del 1490 (e non 1420 come in un primo tempo era stata letta). Essa ricorda il trasferimento della biblioteca dei Malatesti al piano superiore del convento di San Francesco da quello a terra, «pregiudicievole a materiali sì fatti» (Battaglini, Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, 1794, p. 169). Questa iscrizione è tuttora conservata nel Museo della Città di Rimini.

    Di questa iscrizione non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come «sum» quanto va trascritto come «summa».

    Il testo latino è questo: «Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490».

    Ecco la traduzione: «Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490».

    Nella processione degli ignari, compare poi chi non s'accorge che il terzo abate che regge una chiesa non può precedere cronologicamente il secondo suo predecessore, anche se i poveretti sono costretti ad essere ricordati soltanto nella dignità precaria delle note (le leggiamo, non le leggiamo…?).

    Lo stesso autore non s'accorge che una lapide del 1686 non può essere datata con un decennio d'anticipo soltanto in virtù della propria fama di pasticcione conclamato ed acclarato. E che il 1682, «M.D.C.XIIXC», non può esser trasformato in un impossibile 1698.

    Circa questi numerosi «ignari», una particolare attenzione merita il caso di Ciriaco d'Ancona, sulla cui venuta a Rimini è stata bellamente inventata una data da nessuno studioso serio ipotizzata.

    Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455) è un «bizzarro e geniale archeologo» che frequenta i circoli umanistici di Firenze. Ed è pure un «lettore di Dante» che per la sua ansia di sapere ama «presentarsi nei panni d'Ulisse» (Garin), ed ha ripetuti incontri con Sigismondo Pandolfo Malatesti signore di Rimini. Su invito di Sigismondo («Sigismundo Pandulphi filio Malatesta principe clarissimo favitante»: cfr. il suo Itinerarium edito da L. Mehus, Giovannelli, Firenze 1742), visita Rimini nel 1441 o forse due anni dopo (1443) come indica altra fonte (cfr. Corpus inscriptionum latinarum, XI, I, p. 80, n. 365).


    Queste due date sono accettate da tutti, tranne uno che riporta tutt'altra indicazione («1435», «o comunque in un momento non lontano»!). Questa indicazione non risulta da nessuna fonte, ed è spacciata in nota come «versione corrente», ripresa «in modo acritico». Ma «versione corrente» letta e tramandata dove? Nello stesso libro, leggiamo con altro autore che la visita di Ciriaco è avvenuta «prima del 1441». Ovviamente non fa nessuna differenza fra 1441 o «prima del 1441», «o meglio nel 1443» (come un cattedratico riminese spiega in un ampio testo dedicato al Tempio malatestiano, ed edito a Cesena nel 2000).


    La «versione corrente», stando alla nostra personale ignoranza, tanto «corrente» non dovrebbe essere, dal momento che non è citata né dall'altro autore del libro né nell'imponente tomo del cattedratico sullodato.

    Ma l'autore ignaro ed inventore pure in un altro punto non convince: quando parlando di Giovanni Di Marco (a cui il libro è riservato, trattando dei suoi libri lasciati alla Biblioteca Malatestiana di Cesena), lo dichiara morto il 23 febbraio 1474. Da Angelo Battaglini (Dissertazione accademica sul commercio degli antichi e moderni librai, 1787, p. 51, nota 105), apprendiamo che Giovanni Di Marco «morì in Roma nel 1474, e fu sepolto a dì 23. Febbrajo». Battaglini non scrive che Giovanni Di Marco morì e fu sepolto il 23 febbraio, ma (ripetiamo) che «morì in Roma nel 1474», e che alla data del 23 febbraio «fu sepolto».


    Battaglini riporta un documento riminese che è la sua fonte, il testo latino del notaio Nicolino Tabelioni del 5 marzo 1474, l'inventario dei beni di Giovanni Di Marco. Qui leggiamo che il medico riminese Giovanni Di Marco «obiit & ab hac vita migravit ac sepultus fuit…». Qui poi va notata la differenza, temporale in questo caso, che comporta quell'«ac» che non congiunge soltanto ma puntualizza («morì, e precisamente fu sepolto»), come ben comprese Battaglini quando (ripetiamo) scrisse: «morì in Roma nel 1474, e fu sepolto a dì 23. Febbrajo». Ovviamente gli storici del 1700 conoscevano il latino… Che invece ignora il nostro contemporaneo che in altro testo e per altro argomento non sa che nella lingua dei padri «in» e l'accusativo è molto diverso dall'«ad» usato con lo stesso caso. Ma l'ignaro non può farci caso e bellamente inventa una sua personale traduzione. Ed affoga per colpa di quell'«in» finendo dentro l'acqua, dalla quale si sarebbe salvato se avesse saputo dell'«ad»…

    © Antonio Montanari. 47921 Rimini, via Emilia 23 (Celle), tel. 0541.740173
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    1384. Pagina creata, 04.09.2010, 18:00.
    http://digilander.libero.it/antoniomontanari/ilrimino.2010/ignari.html