• Casa Malatesti

  • Al nuovo indice delle "ARTI LIBERALI" del Tempio, 24.05.2019

    La cappella del Tempio malatestiano detta delle sette Arti liberali, presenta le materie di studio per gli uomini liberi (ai servi toccavano le arti manuali).
    Essa va "letta" con alcune precauzioni di metodo.
    Le materie sono Grammatica, Dialettica, Retorica (il "Trivio"), Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia (il "Quadrivio").
    Nella cappella le immagini sono però diciotto. Per questo motivo uno studioso come Corrado Ricci scrisse che in essa vi è "altro ancora", con un'incerta espressione simbolica delle figure.
    Noi proponiamo una veloce lettura delle diciotto immagini suddivise nelle due colonne laterali ed in tre strisce per colonna, partendo dall'alto verso il basso per ogni striscia che indichiamo con lettera dell'alfabeto.
    Striscia A: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia. La Natura viene definita da Alberti nel "De pictura" (1436) come "maestra delle cose". Strisce B e C, le materie di studio: Letteratura, Storia, Retorica (Arte del discorso), Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica.
    Nelle due strisce successive (D, E), si mostra come conoscere la Natura attraverso le Scienze che sono: Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica.
    L'ultima striscia (F) rivela lo scopo della Cultura, ovvero educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi: qui le tre immagini rappresentano la Concordia, la Città giusta, e la Scuola.
    Il tema della Concordia ha una doppia lettura. Esso riguarda non soltanto la vita della città (opponendosi ai governi dei prìncipi come Sigismondo), ma pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 con un decreto destinato a breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa.
    Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe Malatesti, scelta dal papa come sposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa.

    In quest'ultima striscia (F) con la Concordia, la Città giusta, e la Scuola, si dimostra che le «arti liberali» rendono possibile la conquista della libertà come situazione in cui poter realizzare un'armonica convivenza fra gli uomini, e potersi affermare nella società secondo quanto insegnato da Leonardo Bruni con il suo «umanesimo civile».
    Le arti liberali inoltre sono ritenute uno strumento per realizzare un'età nuova attraverso lo studio delle «humanae litterae», alle quali Poggio Bracciolini attribuisce un valore formativo umano e civile, considerando i classici come maestri di virtù civili.
    Vale la lezione petrarchesca della ricerca della «sapientia» che era stata rivolta a far risorgere la «misera Italia».
    Trionfa l'assunto di Coluccio Salutati per il quale gli «studia humanitatis» sono uno strumento per formarsi quali diffusori delle «virtù civili».
    E s'intravede il motto albertiano per cui «tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette».
    In questa "immagine" riminese si raccoglie e sviluppa quella che Eugenio Garin ha chiamato «la conquista dell'antico come senso della Storia», con gli elementi tipici del «primo Umanesimo» che fu esaltazione della vita civile non ancora dominata dalle Signorie.
    Ed il fatto che proprio un Signore come Sigismondo offra questa "immagine" di libertà nel suo Tempio, va letto semplicemente quale contrapposizione al potere ecclesiastico.

    L'immagine della Città giusta dell'ultima striscia (F) merita un approfondimento.
    La figura femminile in essa rappresentata, regge con la mano sinistra l'archipendolo, «lo strumento che simbolicamente tutto eguaglia», come scrive Vittorio Marchis in «Storie di cose semplici» (Milano, 2008, p. 46).
    Altre più antiche testimonianze collegano l'archipendolo alla figura di Nèmesi, che con esso misura «la rettitudine delle umane operazioni» (cfr. G. Minervini, «Vaso dipinto di Ruvo», in «Accademia Pontaniana», Fibreno, Napoli 1845, pp. 81-87, 85).
    Nèmesi nella mitologia greca e latina rappresenta la «giustizia distributiva» che punisce chi oltrepassa la giusta misura.
    Secondo Aristotele, la «giustizia distributiva» impone che «gli eguali siano trattati in modo eguale e gli ineguali in modo ineguale, cosicché la polis dovrà distribuire oneri e benefici in modo proporzionale» (M. Rosenfeld, «Enciclopedia delle Scienze Sociali», 2001)
    Vittorio Marchis (p. 47) spiega poi che l'archipendolo resta «simbolo di equilibrio sino a tutta l'età barocca», come testimonia il suo inserimento nell'«Iconologia» di Cesare Ripa (apparsa a Roma nel 1593).
    Da Cesare Ripa riprendiamo due spunti. A noi dalla cultura egizia deriva che, per ritrovare il giusto di una cosa, occorre raddrizzarla come fa l'Archipendolo (p. 456 dell'ed. veneziana del 1645).
    L'Archipendolo «per similitudine» insegna che, «rispetto alla rettitudine e all'uguaglianza della ragione», la virtù «non pende à gl'estremi, mà nel mezzo si ritiene» (ib., p. 191).
    Nella mano destra, infine, la Città giusta regge la «canna», simbolo delle regole morali e delle Leggi della giustizia divina.
    Sul pensiero di Aristotele in tema di giustizia, cfr. il testo di L. Guidetti e G. Matteucci, «Grammatiche del pensiero», Bologna 2012, passim.

     
    Il contesto degli antefatti.
    Per ciò che potremmo chiamare il contesto degli antefatti, inseriamo alcune notizie collegate al nostro tema.

    Di «città giusta» parla nella sua «Laudatio Florentinae urbis» (1404) il Cancelliere fiorentino Leonardo Bruni, richiamandosi ad Aristotele, come osserva Eugenio Garin, nel saggio «La città ideale» (cfr. in «Scienza e vita nel Rinascimento italiano», Bari 1965, pp. 33-56).
    Bruni, contro il mito di Roma, presenta Firenze quale modello ideale di una «città giusta, bene ordinata, armoniosa, bella». Bruni spiega che la città per essere libera dev'essere giusta, con leggi razionali.
    Per quanto ci riguarda, aggiungiamo soltanto che l'Alberti "riminese" del Tempio di Sigismondo, era di famiglia fiorentina.

    Secondo elemento. Come scrive F. Alessio, con l'Umanesimo «compare ex novo quel Platone che il grande ignoto della cultura delle scholae» (cfr. «Il pensiero filosofico», in F. Brioschi e C. Di Girolamo, «Manuale di letteratura italiana», I, Torino 1993, pp. 45-80, p. 77).
    Platone aveva sostenuto che Giustizia nella Città è assolvere per essa il compito per il quale la Natura ci ha resi adatti («Repubblica», IV).
    Come si legge nel «Dizionario filosofico» di N. Abbagnano (1971), la Giustizia «produce accordo ed amicizia», secondo Platone. Il quale ci spiega che per raggiungere la Giustizia dobbiamo avere una vista penetrante, capace di distinguere le parole scritte in carattere minuscolo (che corrispondono alla Giustizia dell'individuo), da quelle che sono scritte in grande, ovvero della Giustizia e delle altre virtù scritte (Cfr. R. Radice, «Platone», Milano 2014, pp. 87-88).

    Infine, apriamo il primo volume de «I sentieri del lettore» di Ezio Raimondi (Bologna, 1994, p. 208) dove troviamo la memoria di una crisi bolognese. Ne parla Lapo di Castiglioncello, attorno al 1430.
    Inaugurando il suo corso universitario di Eloquenza, egli sostiene: si vive in tempi miseri e luttuosi, ai quali occorre reagire con l'ideale dell'uomo «saggio, forte, liberale e temperante», e con il progetto di affidare ai «boni viri» la difesa della comunità dalle «rivolte, dalle guerre civili, dagli omicidi, dalle rovine pubbliche».
    Lapo dimostra così «fede nella rinascita di un mondo morale connesso ai valori più profondi della sapienza antica», osserva Raimondi.

    Infine, va ricordato che, già dai primi decenni del Quattrocento, avviene «una generale riorganizzazione del sistema educativo e dei saperi in chiave storica e antiteologica», per cui la «storia» è «in una volta, comprensione del tempo trascorso e modello del presente» (cfr. N. Gardini, «Rinascimento», Torino 2010, pp. 15, 126).

    Nella scelta delle immagini c'è la mano dello stesso architetto (ed ottimo scrittore) Leon Battista Alberti, seguace di un umanesimo civile che vuole una società nuova diversa dai principati.

    In tutte le immagini è compendiato un programma pedagogico di impronta umanistica: per formare una società rinnovata dalla concordia, si parte dallo studio della natura. In tal modo è eclissata la teologia. Ecco la rivoluzione di Sigismondo e del suo circolo di intellettuali ed artisti, che tanto dispiacque a Pio II.
    Il tema della città nuova si collega a quello della «città ideale» proposto dalla famosa opera della scuola di Piero della Francesca, dietro la quale ci sarebbe invece la mano del progettista del tempio riminese, Leon Battista Alberti, autore del "De Re Aedificatoria" (cfr. G. Morolli, "La vittoria postuma: una città niente affatto 'ideale'", ne "L’Uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze fra Ragione e Bellezza", Firenze 2006, pp. 393-399).
    La «concordia dei cittadini» d’ispirazione ciceroniana, è citata in un proverbio latino: «Concordia civium murus urbium». Di qui il collegamento allegorico tra la stessa concordia e l’arte edificatoria.
    Per la Mitologia si può rimandare a Macrobio che la chiama «narratio fabulosa»: «haec ipsa veritas per quaedam composita et ficta proferetur» ("Commentarii in somnium Scipionis", 2, 7).
    Nel Tempio Malatestiano ci sono due epigrafi scritte nella lingua greca, considerate da Augusto Campana come le prime testimonianze del Rinascimento sia italiano sia europeo. Nella cappella dei Pianeti del Tempio, c'è l'immagine del "rematore", letta di solito come raffigurazione dell'anima di Sigismondo, scesa agli Inferi e risalita in Cielo.
    Essa ci sembra però riassumere la storia dell'Ulisse dantesco ("Inferno", c. 26, vv. 90-142) che ai compagni d'avventura con la sua "orazion picciola" ("fatti non foste a viver come bruti"), lancia un "manifesto pre-umanistico", come lo definisce un noto studioso dell'Alighieri, Franco Ferrucci.
    Ulisse insegna che la nostra dignità sta nel "seguir virtute e canoscenza", anche se ciò può costarci un naufragio in cui però si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello dell'età e delle pagine di Dante. La smorfia del volto del "rematore", richiama l'Ulisse dantesco. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il "turbo" che affonda la "compagna picciola" (vv. 101-102).
    Alla corte di Rimini nel 1441 prima dell'edificazione del Tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ciriaco ha frequentato i circoli umanistici di Firenze, ed è un "lettore di Dante" che per la sua ansia di sapere ama presentarsi nei panni d'Ulisse, come leggiamo in Eugenio Garin. A Ciriaco potrebbe attribuirsi il suggerimento del tema di Ulisse da inserire nel Tempio, quale parte del discorso umanistico per la cappella delle Arti liberali.

    Secondo Anthony Grafton, è Ciriaco a comporre le epigrafi riminesi, ispirandosi a quelle napoletane da lui trascritte ("Leon Battista Alberti. Un genio universale", 2003, p. 315).
    A proposito della figura dantesca di Ulisse, è utile rileggere quanto osservato da Ezio Raimondi ("Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale", 2004, pp. 190-191): "... l'avventura di Ulisse è anche l'avventura vitale di Dante scrittore in esilio". Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
    Raimondi si riferisce alla lettera XV, libro XXI delle "Familiares", diretta a Boccaccio. In cui leggiamo questo passo: "In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret, cum multi quam magni tam delicati ingenii sint, ut ab intentione animi leve illos murmur avertat; quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est". ("E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio.")
    Il punto di Petrarca "non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas", rimanda al c. XXVI, vv. 94-97 dell'"Inferno" dantesco: "Né dolcezza di figlio, né 'l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta....".
    Ecco quindi il citato giudizio di Raimondi: Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
    Raimondi prosegue: "L'Ulisse di Dante è una controfigura negativa di Dante stesso. Presenta, sul piano dell'azione di colui che esplora l'ignoto, qualcosa che per Dante rappresenta la sua stessa operazione poetica, e che Petrarca individua subito".

    Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani.
    Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio.
    Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (1678-1694).
    A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese, con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727. Il ritardo di tanti anni significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli.
    Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro di esse mette in guardia Franco Bacchelli in un saggio prezioso (2002).
    Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica".
    Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri".
    Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che sul finire del XV secolo Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
    Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani ed echi pagani.
    Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella (scomparsa) Biblioteca dei Malatesti in San Francesco.

    Il dato locale di Rimini va però inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo".

    La Biblioteca dei Malatesti in San Francesco, a fianco del Tempio, è la prima pubblica in Italia, e modello di quella gloriosa (e sopravvissuta) di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432.
    Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio.
    Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche.
    Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella di San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante solario, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792).
    Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: nel testo latino non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa", legato alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse culturale verso il tema dell'Umanesimo riminese.
    Il saggio di Franco Bacchelli si trova nel volume dedicato alla "Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti", a cura di Antonio Piromalli, con scritti pure di Augusto Campana e di Aldo Francesco Massèra. È il XIV della "Storia delle Signorie Malatestiane", edita da Bruno Ghigi.

    Alle pagine sull'Umanesino riminese. Indice.


  • Bartolomeo Malatesti, un "dimenticato" Vescovo di Rimini (1445-1448).

     

    Il titolo di queste pagine nasce dalla conclusione di ricerche biografiche per un personaggio "dimenticato", nel senso che, dovunque, si legge che della sua famiglia di provenienza non sappiamo nulla.
    L'unica fonte che contiene una notizia fondamentale è Frate Bernardino Manzoni il quale, nel suo "Caesena Sacra" (Pisa 1643, I, p. 72), scrive che Bartolomeo Malatesti è "Pandulphi Malateste Soliani Comitis [...] germanus frater". Di Pandolfo Malatesti, fratello di Bartolomeo, si precisa poi che "anno 1391 Patricius, Consiliarusque Caesenaticenis Urbis erat".
    Dal 4 gennaio 1391 i fratelli "Carlo Pandolfo Malatesta e Galeotto di Galeotto Malatesti" sono vicari di Cesena (Mazzatinti, p. 325). Quindi Bartolomeo Malatesti è pure lui figlio di Galeotto I (+1385), nato da Pandolfo I, figlio a sua volta di Malatesta da Verucchio.

    Tutto il nuovo che si può scrivere sopra Bartolomeo Malatesti Vescovo, è in queste poche righe di Frate Bernardino Manzoni. Altre notizie, non ne ho trovate, tranne quelle di cui dirò per esaminare un altro passo del "Caesena Sacra", dove si attribuisce al nostro Bartolomeo anche il titolo di Vescovo di Dragonaria, confuso da Frate Manzoni con un bolognese, un altro Bartolomeo, che però faceva di cognome Gardini, e che scompare nel 1403.
    La mancanza di altri dati biografici e la necessità di precisare le informazioni contenute nel "Caesena Sacra", mi avevano suggerito il titolo di queste pagine, appunto "Storie senza storia", che in un primo momento però non mi convinceva molto. Esso mi sembrava contenere in sé la contraddizione logica tra quella parola plurale che ha valore affermativo, e le altre due della precisazione che sottraevano alla prima la sua stessa sostanza.
    Mi chiedevo, insomma: ma se sono Storie possono mancare di storia, ovvero di un contenuto che in effetti non c'è? Il paradosso logico mi si è svelato come verità metodologica soltanto grazie alla lettura di un breve saggio del prof. Nicola Gardini intitolato "Parole e omissioni". La luce che ha riacceso la speranza di poter mantenere quel titolo, deriva da questo passo di Nicola Gardini: "La lacuna mira non alla diminuzione, ma allo sviluppo".
    Gardini si riferisce alle lacune dei testi narrativi o alle mutilazioni delle opere d'arte come la Venere di Milo. E richiama il "De oratore" dove Cicerone spiega il ruolo del lettore, come quello di un cercatore d'oro che va a scavare dove il testo gli indica.
    Il lettore della biografia di Bartolomeo Malatesti Vescovo di Rimini, deve scavare pure lui, per scoprire così appunto il "Caesena Sacra". Dove un'ulteriore azione ci porta lontano, a constatare (come si è detto) che Frate Bernardino Manzoni confonde il nostro Bartolomeo con un altro Bartolomeo, quando lo definisce Vescovo di Dragonaria. Il buon Manzoni chiama a testimone un autore che non ha però nessuna colpa.
    Frate Bernardino Manzoni racconta pure che il nostro Bartolomeo è stato nel 1397 Vescovo di Dragonaria, indicando come fonte bibliografica un'opera dell'emiliano Pietro Ridolfi da Tossignano (1536-1601), "Historiarum Seraphicae Religionis libri tres", edito a Venezia, "apud Franciscum de Franciscis Senensem", nel 1586.
    Ridolfi, nel II libro della sua opera, tratta dell'origine dei Malatesti e ricorda la presenza di Bartolomeo Malatesti a Rimini ("Custodia Foroliviensis", pp. 268-269).
    A p. 266 invece, sotto l'anno 1397, si ricorda un "magister Bartholomeus episcopus Dragonarie", attivo a Bologna. Non dice, Ridolfi, che sia Bartolomeo Malatesti come invece leggiamo in Manzoni. Il quale Manzoni scrive appunto "Rodulphio teste", ovvero per testimonianza di Ridolfi, relativamente a Bartolomeo Malatesti. (Nel III libro, p. 333, incontriamo una breve biografia del ricordato Pietro Ridolfi da Tossignano.)
    La "mutilazione" di questa seconda (falsa) notizia m'ha obbligato a scavare ancora, facendomi raccogliere materiale molto interessante che costituisce una mappa di notizie tra il religioso ed il politico, molto simile a quelle che si possono tracciare per le vicende malatestiane tra fine Trecento ed inizio Quattrocento.
    Alla fine, le parole di Gardini mi hanno convinto a lasciare il titolo che avevo pensato e poi criticato. Tra le stranezze o le casualità della Storia, ricordo en passant che quello studioso di letteratura ha lo stesso cognome del Bartolomeo Vescovo di Dragonara, appunto Gardini.

    Torniamo al principio di tutte le cose, almeno a quelle che riguardano il nostro Bartolomeo Malatesti figlio di Galeotto I (defunto il 21 gennaio 1385). Per pura prudenza biologica, la nascita di Bartolomeo può essere collocata soltanto prima di questo 1385. I biografi ci raccontano che Bartolomeo quando scompare il 5 giugno 1448 "morì vecchio assai", come riporta Luigi Nardi (p. 224) rimandando ai "nostri Storici" e all'Ughelli.
    Ad occhio e croce, come dicevano saggiamente i nostri vecchi, e con una botta di conti veloce, non è azzardato collocare la nascita di Bartolomeo circa 80 anni prima del decesso, il che fa ipotizzare una data attorno al 1370.
    Di Galeotto I sappiamo soltanto che nel 1323 è promesso sposo ad Elisa della Valletta (le nozze avvengono il 3 giugno 1324). Considerata pure l'usanza di nozze precoci in quel tempo, non possiamo però collocare la nascita di Galeotto troppo vicina a questa unica notizia che abbiamo sui suoi primi anni.
    Elisa della Valletta è nipote del governatore pontificio della Marca, Aurelio di Lutrec, e figlia di Gugliemo signore della Valletta. Gli sponsali sono un atto di ringraziamento diretto ai Malatesti per la loro militanza a favore della Chiesa, come osserva Tania Cazzotti.
    Accettiamo la lectio autorevole di Anna Falcioni che pensa, "con ogni probabilità", ai "primi anni del Trecento", poco dopo il fratello "Malatesta detto l'Antico, con il quale condivise, in perfetta sintonia, larga parte della propria esistenza". Per l'Antico, detto anche Guastafamiglia, Falcioni colloca la sua venuta al mondo "intorno al 1299".
    Da questo punto in avanti procediamo soltanto per ipotesi per quanto riguarda la cronologia di Bartolomeo Vescovo di Rimini, mentre tutti gli altri elementi che elenchiamo, sono rigorosamente documentati nelle storie malatestiane di ieri e di oggi. Tutti queste elementi costituiscono quella mappa di notizie tra il religioso ed il politico, di cui si è prima detto.

    Quando nel 1385, scompare Galeotto, i Malatesti hanno vissuto trent'anni di forte esperienza politica, in momenti molto inquieti, a partire dal 1355, quando ottengono il Vicariato in temporalibus di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone, divenendo attori privilegiati della scena italiana. Nel 1387 Malatesta I (o "dei sonetti") di Pesaro presta soldi ad Urbano VI che lo ha incaricato pure di proteggere l'arcivescovo di Ravenna, Cosimo Migliorati, cacciato dalla sua Chiesa. Nel 1404, Migliorati diventa papa Innocenzo VII.
    Zoommiamo sui Malatesti che sono Vescovi. Il primo che s'incontra è Leale che occupa due sedi: dapprima a Pesaro (1373) e poi proprio a Rimini (1374-1400). Sono gli anni in cui il bastardino (absit iniuria verbis) Bartolomeo viene al mondo, facendo forse balenare a molti l'idea che una vita conventuale prima ed una carriera ecclesiastica garantita dalla parentela poi, potevano essere strade facilmente praticabili per non far vivere a disagio la povera creatura.
    Leale ha qualcosa che lo avvicina a Bartolomeo. Leale è un figlio "spurio" di Malatesta Antico e di una non meglio precisata Giovanna, il cui nome è fatto dallo stesso Leale nel proprio testamento.
    Si sa che Leale ebbe un fratello frate, come si legge in L. Tonini (IV, 1, p. 323). Fu legittimato da papa Urbano II il 5 febbraio 1363.
    Nella recente "Storia della Chiesa Riminese" (II, pp. 432-433) Enrico Angiolini definisce Leale il "caratteristico cadetto avviato alla carriera ecclesiastica", mentre per Bartolomeo (Vescovo di Rimini, 1445) non esclude "il classico ruolo di figlio naturale legittimato ed avviato alla carriera ecclesiastica".

    Nel 1391 Malatesta I di Pesaro è nominato Vicario pontificio della sua città. Nel 1398, per il II semestre, è eletto pure Senatore di Roma. Tre anni dopo lo vediamo aggregato tra i nobili veneziani.
    Brillante iter politico registriamo anche il per il ramo riminese dei Malatesti, con quel Carlo, figlio di Galeotto I e quindi fratello del Vescovo Bartolomeo, che nel 1385 è nominato rettore di Romagna e nel 1386 gonfaloniere della Chiesa. Sarebbe troppo lungo ricordare battaglie e guerre che coinvolgono i Nostri. E che ci travolgerebbero anche attraverso semplici cenni. Le diamo per conosciute, ed amen, soltanto per ragioni di spazio.
    Nel 1390 nasce da Malatesta I di Pesaro (figlio di Pandolfo II) un infante che riceve il nome del nonno e che sarà famoso nelle storie ecclesiastiche per essere stato amministratore loco Episcopi di Brescia (1414), Vescovo di Coutances in Francia (1418) e poi Arcivescovo di Patrasso dal 1424. Scompare nel 1441. Circa la sede francese, si legge in un interessante saggio disponibile sul web ("La France de 1350 a 1450", p. 125) che non è sicuro che Pandolfo si sia recato effettivamente nella sua diocesi.
    Un suo fratello, Carlo (da non confondere con l'omonimo riminese), nel 1416 sposa Vittoria Colonna nipote di Martino V, papa dal 1417 al 1431. Una sorella di Vittoria, Caterina è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro, la cui prima consorte era Rengarda sorella di Carlo di Rimini.
    A proposito di scambi di persona, in una storia ecclesiastica francese sui vescovi di Coutances, il Pandolfo che ha quel titolo, è detto figlio di Carlo di Rimini e non di Malatesta "dei sonetti". Il celebre Broglio (Gaspare Broglio Tartaglia, Cronaca (1982 p. 32) addirittura considera l'arcivescovo di Patrasso come padre dei suoi due fratelli Carlo e Galeazzo...
    Resta da ricordare l'ultimo Vescovo Malatesti, Antonio, presente a Cesena tra 1435 e 1439. Antonio, vedovo e figlio di Nicolò Filippo di Ghiaggiolo, quarto nella discendenza di Paolo, muore nello stesso 1439. Aveva scelto di assumere l'abito clericale dopo la morte della moglie, come leggiamo in "Caesena sacra", p. 39.

     

    APPENDICI

    Appendice A. Gli enigmi di Frate Bernardino Manzoni
    Frate Bernardino Manzoni (che fu bibliotecario della Malatestiana di Cesena tra 1625 e 1626, come segnalato da A. Domeniconi [1963] e P. Errani [2009]), racconta che il nostro Bartolomeo è stato nel 1397 Vescovo di Dragonaria, indicando come fonte bibliografica un'opera dell'emiliano Pietro Ridolfi da Tossignano (1536-1601), "Historiarum Seraphicae Religionis libri tres", edito a Venezia, "apud Franciscum de Franciscis Senensem", nel 1586.
    Ridolfi, nel II libro della sua opera, tratta dell'origine dei Malatesti e ricorda la presenza di Bartolomeo Malatesti a Rimini ("Custodia Foroliviensis", pp. 268-269). A p. 266 invece, sotto l'anno 1397, si ricorda un "magister Bartholomeus episcopus Dragonarie", attivo a Bologna. Non dice, Ridolfi, che sia Bartolomeo Malatesti come invece leggiamo in Manzoni.
    Il quale Manzoni scrive appunto "Rodulphio teste", ovvero per testimonianza di Ridolfi, relativamente a Bartolomeo Malatesti. (Nel III libro, p. 333, incontriamo una breve biografia del ricordato Pietro Ridolfi da Tossignano.)
    A questo punto se ci indirizziamo alle vicende religiose di Bologna sul finire del XIV sec., scopriamo quanto segue.
    1. Nel 1382 è fatto Vescovo di Dragoneria (sì, il luogo è indicato così, e non Dragonaria) un Bartolomeo Gardini (cfr. A. Masini, "Bologna perlustrata", parte II, Bologna, Benacci, 1666, p. 82). In questa stessa fonte si legge che il 7 giugno 1390 Bartoloneo Gardini "fece la Cerimonia di porre la prima pietra per la fabrica del Maestoso nuovo Tempio di S. Petronio di Bologna". E che lo stesso Bartolomeo morì nel 1403. (La fonte è la "Cronaca" di Pietro di Mattiolo, su cui cfr. C. Albicini, "Bologna secondo la Cronaca di Pietro di Mattiolo", pp. 487-506 del II vol., III serie, "Atti e memorie della Regia Deputazione di storia patria per le province di Romagna, a. a. 1883-1884", Bologna 1884. Per l'evento relativo a S. Petronio, si veda a p. 496.)
    2. Bartolomeo Gardini risulta ascritto ai Collegio dei Teologi di Bologna dal 1371, e Lettore di Sacra Teologia nell'anno 1376. Cfr. S. Mazzetti, "Repertorio di tutti i professori antichi, e moderni, della famosa università", Bologna, Tip. di S. Tommaso d'Aquino, 1848, p. 296). In Mazzetti si legge pure che Bartolomeo fu Vescovo di Dragonara dal 1382 sino al 1390.
    3. È spostata a tre anni dopo l'uscita di scena del Nostro da altro autore, dove leggiamo che appunto nel 1393 Bartolomeo Vescovo di Dragoneria, è espulso a forza dal suo Vescovado, "per aver seguito il partito di Lodovico I d'Angiò". (Cfr. G. Guidicini, "Cose notabili della Città di Bologna", IX, Bologna, Compositori, 1870, p. 364.)
    4. Sul cognome Gardini in Bologna, sono utili le parole di S. Mazzetti, "Repertorio" cit., p. 140: il padre Giambattista Melloni nelle sue "Memorie di San Petronio" (1784), p. 106, dubita molto di tale cognome Gardini attribuito a Bartolomeo da vari autori.
    5. In Ferdinando Ughelli ("Italia sacra", VIII, Venezia, apud Sebastianum Coleti, 1721, coll. 282-283), del Vescovo francescano Bartolomeo si dice che era figlio di Pietro. La fonte di Ughelli è Francesco Alidosi, cardinale (1455-1511), autore di un testo sui Vescovi bolognesi, p. 36.
    6. Circa Draconaria (che significa in latino "grotta") ma anche Dragonaria e Dragoneria, possiamo leggere in varie fonti che la diocesi della località, posta "in finibus Apuliae", era suffraganea della metropolitana di Benevento.Infine la notizia più "sconvolgente" (nel senso che rovescia tutti i discorsi del nostro Frate Manzoni) si trova nel Masini ("Bologna perlustrata", p. 82), che, come si è visto, fa scomparire il Bartolomeo Gardini nel 1403. Aldilà di tutti gli enigmi che possono circondare la biografia del Vescovo Bartolomeo prima del suo arrivo a Rimini, resta importante quanto Frate Bernardino Manzoni suggerisce circa la sua parentela con la casa Malatesti. Restano aperte molte questioni. Se il Vescovo di Rimini non è quel Benedetto morto nel 1403, dove come e quando inizia la sua carriera episcopale?
    7. È da ricordare che, in un'opera uscita a Benevento presso la Stamparia Arcivescovale nel 1646, e curata da Giovanni Michele Cavalieri, il tomo primo della "Galleria de' sommi pontefici, patriarchi, arcivescovi, e vescovi dell'ordine de' predicatori", ovvero dei Domenicani, si legge (p. 250): "circa all'anno 1450" il padre Bartolomeo da Bologna fu eletto vescovo di Dragonara nella Provincia di Terradilavoro del Reame di Napoli. Un suo omonimo Bartolomeo da Bologna (p. 251) nello stesso 1450 è Vescovo di Segna in Croazia.
    8. Circa Dragonara, riproduco da un saggio disponibile sul web (Gabriele Tardio, "I vescovi de Tartaglis e Macini provenienti dall'abazia nullius di San Giovanni e San Marco in Lamis nelle diocesi di Lesina, Dragonara e Minervino"): "La diocesi di Dragonara ha vissuto vicende difficili che andrebbero studiate più attentamente, perché era una nomina importante, come non ricordare il difficile caso di fra Bartolomeo da Bologna, francescano, che non riuscì ad esercitare il suo episcopato a Dragonara e a Bologna benedisse la prima pietra della basilica di san Petronio".
    Tardio nella nota 25 cita varie fonti bolognesi che ricopiamo: "passando ai bolognesi Vescovi ma non Cardinali, entra innanzi a tutti Frate Bartolommeo di Pier da Bologna, dell'Ordine Francescano, Vescovo di Dragonara nel Regno di Napoli dal 1380 al 1390. Fu questi che pose la prima pietra nelle fondamenta della Chiesa di san Petronio in sua patria, dove predicò ed ufficiò sino al 1403, che passò di vita: ed ebbe sepolcro in san Francesco." Salvatore Muzzi, Annali della citta` di Bologna, dalla sua origine al 1796, Bologna 1843, p. 274. "Bologna 7. Giugno (1390.) Il Rev. Fra Bartolommeo Vescovo di Dragonara (22) cantò una solennissima Messa in S. Pietro e in quella benedisse una bella pietra lavorata con l'armi del comune di Bologna, per cominciare di fondare la chiesa nova di s. Petronio e così fu portata alla piazza dove si dovea fare detta chiesa processionalmente.... Dal Lib. II. Provis. fol. 77 (in Archiv. Pub.) abbiamo, che l'anno 1393, a dì 23. Aprile si fece decreto da Magistrati della Città di assegnar al Rev. Bartolommeo di Dragonara Cittadino Bolognese espulso dalla sua Diocesi, ed interdettegli l'entrate sue, lire sessanta d'argento annue per la Messa da celebrarsi tre volte almeno la settimana, pregandolo ad assistere al popolo colla divina parola, e con promessa del primo Benefizio, che fosse per vacare in detta Chiesa: levandogli in quel caso la provvisione delle lire 60. Similmente dal Lib. 9. Introit. & Expens. del Convento di S. Francesco fol. 167, sotto l'anno 1393 7 Settembre abbiamo, che il Vescovo di Dragonaria predicava in Piazza per raccoglier limosine per la fabbrica di S. Petronio. Dragonara, secondo il Baudrand, urbe fuit parva Regni Neapolitani in Provincia Capitanata Episcopalìs sub Archiepiscopo Beneventano, nunc exeisa jacens, e tantum tenuis Vicus, Dragonara dictus, sed Episcopatus suppressut fuit, e Cathedralis Ecclesìa ad ruralem Archipresbyteratum redacta, unita ad Episcopatui S. Severi, teste Ughellio". Giovambattista Melloni, Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, Bologna 1786, p. 401 e s.".
    Da Giovambattista Melloni, "Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna", Bologna 1786, p. 401 e s., sono poi ripresi nel testo questi passi, anch'essi da ricordare: "Note sono le vicende di quei tempi torbidissimi: lo scisma dell'Antipapa Clemente, l'occupazione di Napoli, fatta coll'assenso d'Urbano VI dal Re Carlo, appellato dalla Pace, nipote del Re d'Ungheria; l'investitura del medesimo Regno di Napoli, conceduta dall'Antipapa Clemente a Lodovico Duca d'Angiò Zio del Re di Francia, adottato prima per figliuolo da Giovanna Regina di Napoli; le aperte nemicizie, che pattarono tra papa Urbano ed il predetto Re Carlo; la ribellione de' Napoletani, che ricevettero in Napoli Lodovico figlio del predetto Lodovico d'Angiò, coronato Re dall'Antipapa: nelle quali circostanze costretto fu il detto Vescovo a partirti dalla sua Chiesa di Dragonara, e tornarsene a Bologna. Qui egli esercitò diverse funzioni Vescovili, riferite nella Cronaca dal detto D. Pietro di Mattiolo Fabro".9. Sui cronisti bolognesi del Medio Evo, on line è disponibile l'interessante tesi di laurea di Flavia Gramellini (Università di Bologna) su "Le antichità di Bologna di Bartolomeo della Pugliola".

    Appendice B. Un errore austriaco del 1912
    Enea Silvio Piccolomini, nelle lettere pubblicate a Vienna da Rudolf Wolkan nelle "Fontes Rerum Austriacarum" (vol. LXVII, 1912), cita un "Malatesta quidam ex ordine auditorum" che nel 1447 fa il sermone funebre per papa Eugenio IV (p. 254).A tenere un secondo sermone è il Cardinale di Bologna, ovvero quel Tomaso Parentucelli di Sarzana che succede ad Eugenio IV stesso, con il nome di Niccolò V.
    In una pagina precedente (179) per eventi relativi al 1433 Piccolomini cita il Vescovo di Rimini che, erroneamente, nell'indice è identificato in Bartolomeo Malatesti (p. 287).
    Il Vescovo di Rimini del 1433 è Girolamo Leonardi, frate dell'ordine degli agostiniani. Del Vescovo Leonardi ha scritto E. Angiolini nella recente "Storia della Chiesa Riminese" (II, p. 438), che, di estrazione riminese, fu "di rinomata cultura teologica ma anche [...] diplomatico della cerchia di Carlo Malatesti". La precisazione su Carlo Malatesti torna utile al discorso su Bartolomeo il quale era fratellastro di Carlo.
    Il passo più interessante di Piccolomini nelle "Fontes Rerum Austriacarum", è a p. 165, dove si ricorda l'azione svolta per conto della Chiesa da Carlo Malatesti al Concilio di Costanza, e si definisce lo stesso Carlo "uomo di singolare prudenza".

    Appendice C. Bernardino Manzoni contestato nel 1922
    Frate Bernardino Manzoni, nel suo "Caesena Sacra" (Massa e De Laudis, Pisa 1643, I, p. 72) scrive che Bartolomeo Malatesti è "Pandulphi Malateste Soliani Comitis [...] germanus frater".
    Questa notizia è infondata, secondo Aldo Francesco Massera (curatore nel 1922 delle "Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV", tomo XV, 2 di "Rerum Italicarum Scriptores").
    Il motivo è spiegato da Massera nella nota 1 di pagina 105: "nessuno dei Malatesti di Sogliano portò il nome di Pandolfo per tutto il secolo XIV e il XV"; inoltre "il titolo comitale fu concesso loro solo nel 1480". Insomma ci troveremmo di fronte ad una specie di invenzione del Frate Manzoni. Massera avrebbe potuto verificare la fondatezza della fonte Manzoni, attraverso Luigi Tonini ("Storia di Rimini", IV, 1, Albertini, Rimini 1880, pp. 351-356).
    Ricapitoliamo. Quando Bonifacio IX concede i Vicariati ai Malatesti figli di Galeotto I, Cesena tocca a Carlo Pandolfo (Carlo) detto pure Conte di Sogliano. A Sogliano, il quinto Signore Malatesta VIII scompare nel 1380. La di lui vedova, Agnesina, nel 1389 sposa Bertolaccio Mainardi (cfr. A. Delvecchio, "Le donne dei Malatesti di Cusercoli e Valdoppio" ne "Le Donne di casa Malatesti" a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, p. 663), affidando la tutela del figlio Giovanni nato attorno al 1374 ["Non può esser nato più tardi del 1374", L. Tonini, "Storia di Rimini", IV, 1, p. 356] ad un cittadino di Sogliano.
    Bertolaccio Mainardi è stato podestà di Rimini tra 1381 e 1382, scrive ancora L. Tonini (ib., p. 355).
    Quindi con il giovane Giovanni, Sogliano è messa sotto tutela del patrizio cesenate Carlo Pandolfo Malatesti, detto da Bernardino Manzoni "Conte di Sogliano". La notizia non è inventata come suppone Massèra, ma rimanda al quadro complessivo descritto ieri da Tonini, ed oggi ben narrato da Delvecchio.
    Infine, nel II vol. della "Istoria di Romagna" di Vincenzo Carrari (1539-1596), edito da U. Zaccarini nel 2009, a p. 34 si legge che sul finire del 1300 il Castello di Sogliano obbediva al Comune di Cesena. Per il contesto esclusivamente cesenate, si può leggere Scipione Chiaramonti, “Caesenae historia…”, Neri, Cesena 1641. (pp. 687-689).

    Appendice D. Poggio Bracciolini
    Il nome di Bartolomeo Malatesti è richiamato in un'opera di Poggio Bracciolini, "Contra hypocritas" (apparsa nel 1449), nel cui finale troviamo un'invettiva violenta diretta appunto al vescovo di Rimini, citando la sua morte recente.
    Bartolomeo scompare il 5 giugno 1448, per cui gli studiosi datano il testo di Bracciolini a qualche mese dopo.
    Bartolomeo è accusato di aver introdotto ridicole innovazioni nella cancelleria riminese (cfr. Ernst Walser, "Poggius Florentinus Leben und Werke", Leipzig 1914, nota 1, p. 244).
    Qui si ricorda una lettera di Poggio diretta al veneziano Pietro Tommasi l'11 novembre 1447, in cui troviamo: "Nunc adversus ypocritas calamum sumpsi ad exagitandam eiusmodi hominum perversitatem". (Tommasi è figura celebre per i suoi studi medici e letterari: cfr. F. M. Colle, "Storia scientifico-letteraria dello Studio di Padova", III, Tipografia della Minerva, Padova 1825, p. 232.)
    Scriveva Maria Luisa Gengaro (1907-1985) che l'attacco a Bartolomeo Malatesti è dovuto al fatto che il vescovo aveva limitato lo stipendio di Poggio, allora presente alla corte di Rimini (cfr. p. 155 di "Paideia", 2-3, 1947).
    In numerose altre fonti bibliografiche si citano i rapporti burrascosi tra Poggio e Bartolomeo Malatesti (cfr. ad esempio i "Saggi sull'Umanesimo" di S. F. Di Zenzo, 1967, p. 29).

    NOTE bibliografiche.
    Il testo indicato come "Mazzatinti, p. 325", è un documento pubblicato sempre in maniera erronea. Esso è contenuto nel volume di Giuseppe Mazzatinti (1855-1906), "Gli archivi della storia d'Italia, I e II", apparso presso la casa editrice Licinio Cappelli di Rocca San Casciano nel 1897-1898 (nuova edizione presso Georg Olms Verlag, Hildesheim 1988).
    Si tratta di un documento proveniente da Roma, come alla p. 322 dello stesso volume si precisa, riportando un brano del prof. Giuseppe Castellani che qui riproduciamo: "Mons. Gaetano Marini, profittando della carica di Prefetto degli Archivi apostolici del Vaticano, arricchì l'Archivio Comunale di Santarcangelo di Romagna, sua patria, della copia di una serie numerosissima di documenti, la maggior parte inediti, che si riferiscono alta storia del Comune di s. Arcangelo, o de' suoi cittadini, o delle terre e castelli che facevano parte del suo Vicariato".
    In esso si trova la data del 4 gennaio 1391 per il rinnovo dei vicariati da parte di Bonifacio IX ai figli di Galeotto I. Tale data è sempre apparsa come 3 gennaio.
    Sulla cit. da G. Castellani, si veda il suo "Il duca Valentino. Due documenti inediti", in "Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia patria per le province di Romagna", serie III, XIV (1896), pp. 76-79. La cit. è presa da p. 76.
    I testi di Anna Falcioni sono contenuti nel DBI (Volume 68, passim, 2007).
    Il saggio "Parole e omissioni" di N. Gardini si legge ne “la Repubblica” del 29 agosto 2013 come anticipazione dell'intervento previsto al Festival della Mente di Sarzana per il 31 agosto successivo.

    SUL WEB
    Per il contesto religioso-politico in cui agiscono i Malatesti si vedano queste pagine web:
    a) Alle origini di Rimini moderna. 1. Malatesti e l'Europa
    b) Alle origini di Rimini moderna. 2. Il potere delle donne
    c) Pandolfo I. Dal Papa in premio una nuora
    d) Malatesti, Europa e Chiesa
    e) 1357, intrighi politici fra Milano e Praga. Malatesti, Petrarca e Visconti
    f) Londra contro i Malatesti, 1357. Pandolfo gira l'Europa per conto della Chiesa

    ARCHIVIO MALATESTI
    Per l'indice di tutte le pagine sui Malatesti si veda questa pagina.
    Per le pagine precedenti sui Vescovi di casa Malatesti, esiste questo indice.

    Antonio Montanari


  • L'unica fonte biografica di Bartolomeo vescovo di Rimini, è in Frate Bernardino Manzoni, (cfr. "Caesena Sacra", Pisa 1643, I, p. 72) che suggerisce una parentela mai ripresa dagli studiosi.
    Lo abbiamo già osservato nella pagina dedicata a questo Vescovo, ricordato in tutte le storie della città e del Tempio di Sigismondo Pandolfo come un personaggio senza storia.

    Frate Bernardino Manzoni racconta pure che il nostro Bartolomeo è stato nel 1397 Vescovo di Dragonaria, indicando come fonte bibliografica un'opera dell'emiliano Pietro Ridolfi da Tossignano (1536-1601), "Historiarum Seraphicae Religionis libri tres", edito a Venezia, "apud Franciscum de Franciscis Senensem", nel 1586.
    Ridolfi, nel II libro della sua opera, tratta dell'origine dei Malatesti e ricorda la presenza di Bartolomeo Malatesti a Rimini ("Custodia Foroliviensis", pp. 268-269).
    A p. 266 invece, sotto l'anno 1397, si ricorda un "magister Bartholomeus episcopus Dragonarie", attivo a Bologna. Non dice, Ridolfi, che sia Bartolomeo Malatesti come invece leggiamo in Manzoni. Il quale Manzoni scrive appunto "Rodulphio teste", ovvero per testimonianza di Ridolfi, relativamente a Bartolomeo Malatesti. (Nel III libro, p. 333, incontriamo una breve biografia del ricordato Pietro Ridolfi da Tossignano.)

    A questo punto se ci indirizziamo alle vicende religiose di Bologna sul finire del XIV sec., scopriamo quanto segue.

    1. Nel 1382 è fatto Vescovo di Dragoneria (sì, il luogo è indicato così, e non Dragonaria) un Bartolomeo Gardini (cfr. A. Masini, "Bologna perlustrata", parte II, Bologna, Benacci, 1666, p. 82).
    In questa stessa fonte si legge che il 7 giugno 1390 Bartoloneo Gardini "fece la Cerimonia di porre la prima pietra per la fabrica del Maestoso nuovo Tempio di S. Petronio di Bologna". E che lo stesso Bartolomeo morì nel 1403. (La fonte è la "Cronaca" di Pietro di Mattiolo, su cui cfr. C. Albicini, "Bologna secondo la Cronaca di Pietro di Mattiolo", pp. 487-506 del II vol., III serie, "Atti e memorie della Regia Deputazione di storia patria per le province di Romagna, a. a. 1883-1884", Bologna 1884. Per l'evento relativo a S. Petronio, si veda a p. 496.)

    2. Bartolomeo Gardini risulta ascritto ai Collegio dei Teologi di Bologna dal 1371, e Lettore di Sacra Teologia nell'anno 1376. Cfr. S. Mazzetti, "Repertorio di tutti i professori antichi, e moderni, della famosa università", Bologna, Tip. di S. Tommaso d'Aquino, 1848, p. 296). In Mazzetti si legge pure che Bartolomeo fu Vescovo di Dragonara dal 1382 sino al 1390.

    3. È spostata a tre anni dopo l'uscita di scena del Nostro da altro autore, dove leggiamo che appunto nel 1393 Bartolomeo Vescovo di Dragoneria, è espulso a forza dal suo Vescovado, "per aver seguito il partito di Lodovico I d'Angiò". (Cfr. G. Guidicini, "Cose notabili della Città di Bologna", IX, Bologna, Compositori, 1870, p. 364.)

    4. Sul cognome Gardini in Bologna, sono utili le parole di S. Mazzetti, "Repertorio" cit., p. 140: il padre Giambattista Melloni nelle sue "Memorie di San Petronio" (1784), p. 106, dubita molto di tale cognome Gardini attribuito a Bartolomeo da vari autori.

    5. In Ferdinando Ughelli ("Italia sacra", VIII, Venezia, apud Sebastianum Coleti, 1721, coll. 282-283), del Vescovo francescano Bartolomeo si dice che era figlio di Pietro. La fonte di Ughelli è Francesco Alidosi, cardinale (1455-1511), autore di un testo sui Vescovi bolognesi, p. 36.

    6. Circa Draconaria (che significa in latino "grotta") ma anche Dragonaria e Dragoneria, possiamo leggere in varie fonti che la diocesi della località, posta "in finibus Apuliae", era suffraganea della metropolitana di Benevento.
    Infine la notizia più "sconvolgente" (nel senso che rovescia tutti i discorsi del nostro Frate Manzoni) si trova nel Masini ("Bologna perlustrata", p. 82), che, come si è visto, fa scomparire il Bartolomeo Gardini nel 1403.
    Aldilà di tutti gli enigmi che possono circondare la biografia del Vescovo Bartolomeo prima del suo arrivo a Rimini, resta importante quanto Frate Bernardino Manzoni suggerisce circa la sua parentela con la casa Malatesti. Restano aperte molte questioni. Se il Vescovo di Rimini non è quel Benedetto morto nel 1403, dove come e quando inizia la sua carriera episcopale?

    7. È da ricordare che, in un'opera uscita a Benevento presso la Stamparia Arcivescovale nel 1646, e curata da Giovanni Michele Cavalieri, il tomo primo della "Galleria de' sommi pontefici, patriarchi, arcivescovi, e vescovi dell'ordine de' predicatori", ovvero dei Domenicani, si legge (p. 250): "circa all'anno 1450" il padre Bartolomeo da Bologna fu eletto vescovo di Dragonara nella Provincia di Terradilavoro del Reame di Napoli. Un suo omonimo Bartolomeo da Bologna (p. 251) nello stesso 1450 è Vescovo di Segna in Croazia.

    8. Circa Dragonara, riproduco da un saggio disponile sul web (Gabriele Tardio, "I vescovi de Tartaglis e Macini provenienti dall'abazia nullius di San Giovanni e San Marco in Lamis nelle diocesi di Lesina, Dragonara e Minervino"): "La diocesi di Dragonara ha vissuto vicende difficili che andrebbero studiate più attentamente, perché era una nomina importante, come non ricordare il difficile caso di fra Bartolomeo da Bologna, francescano, che non riuscì ad esercitare il suo episcopato a Dragonara e a Bologna benedisse la prima pietra della basilica di san Petronio".
    Tardio nella nota 25 cita varie fonti bolognesi che ricopiamo: "passando ai bolognesi Vescovi ma non Cardinali, entra innanzi a tutti Frate Bartolommeo di Pier da Bologna, dell'Ordine Francescano, Vescovo di Dragonara nel Regno di Napoli dal 1380 al 1390. Fu questi che pose la prima pietra nelle fondamenta della Chiesa di san Petronio in sua patria, dove predicò ed ufficiò sino al 1403, che passò di vita: ed ebbe sepolcro in san Francesco.” Salvatore Muzzi, Annali della citta` di Bologna, dalla sua origine al 1796, Bologna 1843, p. 274. “Bologna 7. Giugno (1390.) Il Rev. Fra Bartolommeo Vescovo di Dragonara (22) cantò una solennissima Messa in S. Pietro e in quella benedisse una bella pietra lavorata con l’armi del comune di Bologna, per cominciare di fondare la chiesa nova di s. Petronio e così fu portata alla piazza dove si dovea fare detta chiesa processionalmente…. Dal Lib. II. Provis. fol. 77 (in Archiv. Pub.) abbiamo, che l'anno 1393, a dì 23. Aprile si fece decreto da Magistrati della Città di assegnar al Rev. Bartolommeo di Dragonara Cittadino Bolognese espulso dalla sua Diocesi, ed interdettegli l'entrate sue, lire sessanta d'argento annue per la Messa da celebrarsi tre volte almeno la settimana, pregandolo ad assistere al popolo colla divina parola, e con promessa del primo Benefizio, che fosse per vacare in detta Chiesa: levandogli in quel caso la provvisione delle lire 60. Similmente dal Lib. 9. Introit. & Expens. del Convento di S. Francesco fol. 167, sotto l'anno 1393 7 Settembre abbiamo, che il Vescovo di Dragonaria predicava in Piazza per raccoglier limosine per la fabbrica di S. Petronio. Dragonara, secondo il Baudrand, urbe fuit parva Regni Neapolitani in Provincia Capitanata Episcopalìs sub Archiepiscopo Beneventano, nunc exeisa jacens, e tantum tenuis Vicus, Dragonara dictus, sed Episcopatus suppressut fuit, e Cathedralis Ecclesìa ad ruralem Archipresbyteratum redacta, unita ad Episcopatui S. Severi, teste Ughellio”. Giovambattista Melloni, Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, Bologna 1786, p. 401 e s.".
    Da Giovambattista Melloni, "Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna", Bologna 1786, p. 401 e s., sono poi ripresi nel testo questi passi, anch'essi da ricordare: "Note sono le vicende di quei tempi torbidissimi: lo scisma dell'Antipapa Clemente, l’occupazione di Napoli, fatta coll’assenso d'Urbano VI dal Re Carlo, appellato dalla Pace, nipote del Re d'Ungheria; l'investitura del medesimo Regno di Napoli, conceduta dall'Antipapa Clemente a Lodovico Duca d'Angiò Zio del Re di Francia, adottato prima per figliuolo da Giovanna Regina di Napoli; le aperte nemicizie, che pattarono tra papa Urbano ed il predetto Re Carlo; la ribellione de' Napoletani, che ricevettero in Napoli Lodovico figlio del predetto Lodovico d'Angiò, coronato Re dall'Antipapa: nelle quali circostanze costretto fu il detto Vescovo a partirti dalla sua Chiesa di Dragonara, e tornarsene a Bologna. Qui egli esercitò diverse funzioni Vescovili, riferite nella Cronaca dal detto D. Pietro di Mattiolo Fabro".

    9. Sui cronisti bolognesi del Medio Evo, on line è disponibile l'interessante tesi di laurea di Flavia Gramellini (Università di Bologna) su "Le antichità di Bologna di Bartolomeo della Pugliola".


  • Frate Bernardino Manzoni, nel suo "Caesena Sacra" (Pisa 1643, I, p. 72) scrive che Bartolomeo Malatesti è "Pandulphi Malateste Soliani Comitis [...] germanus frater".
    Questa notizia è infondata, secondo Aldo Francesco Massèra (curatore nel 1922 delle "Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV" nel tomo XV, 2 delle "Rerum Italicarum Scriptores").
    Il motivo è spiegato da Massèra nella nota 1 di pagina 105: "nessuno dei Malatesti di Sogliano portò il nome di Pandolfo per tutto il secolo XIV e il XV"; inoltre "il titolo comitale fu concesso loro solo nel 1480".
    Insomma ci troveremmo di fronte ad una specie di invenzione del Frate Manzoni.

    Massèra avrebbe potuto verificare la fondatezza della fonte Manzoni, attraverso Luigi Tonini ("Storia di Rimini", IV, 1, pp. 351-356).

    Ricapitoliamo. Quando Bonifacio IX concede i Vicariati ai Malatesti figli di Galeotto I, Cesena tocca a Carlo Pandolfo (Carlo) detto pure Conte di Sogliano.
    A Sogliano, il quinto Signore Malatesta VIII scompare nel 1380. La di lui vedova, Agnesina, nel 1389 sposa Bertolaccio Mainardi (cfr. A. Delvecchio, "Le donne dei Malatesti di Cusercoli e Valdoppio" ne "Le Donne di casa Malatesti" a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, p. 663), affidando la tutela del figlio Giovanni nato attorno al 1374 ["Non può esser nato più tardi del 1374", L. Tonini, "Storia di Rimini", IV, 1, p. 356] ad un cittadino di Sogliano.
    Bertolaccio Mainardi è stato podestà di Rimini tra 1381 e 1382, scrive ancora L. Tonini (ib. p. 355).

    Quindi con il giovane Giovanni, Sogliano è messa sotto tutela del patrizio cesenate Carlo Pandolfo Malatesti, detto da Bernardino Manzoni "Conte di Sogliano".
    La notizia non è inventata come suppone Massèra, ma rimanda al quadro complessivo descritto ieri da Tonini, ed oggi ben narrato da Delvecchio.

    Infine, nel II vol. della "Istoria di Romagna" di Vincenzo Carrari (1539-1596), edito da U. Zaccarini nel 2009, a p. 34 si legge che sul finire del 1300 il Castello di Sogliano obbediva al Comune di Cesena.


  • Un altro Malatesti appare negli elenchi dei Vescovi italiani: si tratta di Antonio, vedovo e prelato di Cesena nel 1436, figlio di Nicolò Filippo di Ghiaggiolo, quarto nella discendenza di Paolo, che muore nel 1439. Aveva scelto di assumere l'abito clericale dopo la scomparsa della moglie, come leggiamo in "Caesena sacra" di Bernardinio Manzoni, Pisa 1643, I, p. 39.


    Antonio Montanari





    Suivre le flux RSS des articles de cette rubrique