• La nuova opera narrativa di Piero Meldini è una specie di romanzo storico, se l'etichetta non suona irriverente: un racconto che prende spunto dalle pagine autobiografiche di una persona esistita davvero, Achille Serpieri. Di esse lo stesso Meldini ed Oriana Maroni avevano curato nel 1989 la pubblicazione, in una felice collana editoriale di Maggioli. Dalla provincia e dal suo mondo un po' soffocante che è al centro del lavoro appena apparso presso Mondadori, Meldini è intellettualmente emigrato dopo i ripetuti successi letterari che gli hanno procurato i quattro romanzi apparsi tra 1994 e 2004.
    La pausa di otto anni finisce ora con la nuova opera dal titolo seriamente ambiguo, “Italia. Una storia d'amore”, dove il nome di battesimo della protagonista si confonde con il Paese che vive momenti drammatici alla vigilia dell'ingresso in guerra nel 1915. Il doppio binario del racconto ripercorre le cronache politiche con i giovani a Bologna che protestano in nome di un'Italia che non voleva più parole ma fatti, ovvero cannoni che sparassero contro gli austro-tedeschi e soprattutto mettessero a tacere i neutralisti.
    Su questo sfondo, il protagonista del romanzo vive un'avventura d'amore (tranquillizzo i lettori, non ne cito i particolari), all'insegna del più facile discorso sentimentale. Un incontro casuale in treno da Bologna a Rimini, prelude ad una sosta nella nostra città, per raccontarla alla fine di un Ottocento languido che avvolge tutto nella nebbia della memoria.
    C'è la malinconia del Kursaal, c'è l'ovvio oppio dei popoli che rende il Tempio malatestiano il monumento dell'amore tra Sigismondo ed Isotta, ci sono le audaci conferenze di Paolo Mantegazza che fanno arrossire la protagonista con imbarazzi che nascono non improvvisi, ma quasi meditati, per un eccesso di verecondia. La quale diventa l'onesto paravento delle finzioni psicologiche e sociali che soltanto alla fine si rivelano tali, quando sappiamo che la bella giovane non è quella che si è raccontata prima in treno e poi nella sosta a Rimini con il compagno di viaggio. Diceva di dover raggiungere un marito geloso, capace di compiere un delitto, se avesse scoperto la tresca con quel passeggero che ha preso il treno a Bologna diretto verso il mare. Ma quel marito è inventato come paravento sociale, ed il lettore scopre la verità soltanto alla fine, e non gliela sveleremo.
    Quando Meldini pubblicò “Le avventure galanti di un sovversivo”, ovvero del ricordato Serpieri, ne fece un ritratto efficace, definendolo “generoso, passionale e doppiamente ingenuo”. Oriana Maroni ne scrisse raccontando pure la Rimini di fine Ottocento, con proprietari terrieri e grossi borghesi che avevano preso le redini dei poteri politici ed amministrativi della città, per mantenervi una struttura prevalentemente artigianale nel centro urbano e “la statica realtà mezzadrile della campagna”. Fu una scelta che, in alternativa a quella industriale, aveva il “pregio di portare denaro senza alimentare conflitti di classe”.
    Da quei giorni in cui Serpieri colloca la sua vicenda sentimentale con la signora di nome Italia (tra 1868 e 1869), si arriva al loro racconto ideato da Meldini nel contesto inquieto del 1915, quando l'Italia ha una svolta per molti versi drammatica. Dopo il 1918 arriva quel 1922 della marcia su Roma di Mussolini, preannunciata dai toni violenti dei cortei studenteschi nella Bologna dell'aprile 1915.

    2004. Il mercante dei destini comprati
    [Fonte dell'articolo]
    Ambientato nel primo Ottocento, il nuovo romanzo di Piero Meldini, "La falce dell'ultimo quarto" (Mondadori, 186 pp., 16 euro), racconta la storia di Bartolomeo Bartolini che "discendeva da svariate generazioni di commercianti di granaglie. Gli anni di abbondanza li avevano resi ricchi; quelli di carestia ne avevano raddoppiato il patrimonio: perché, piovesse o splendesse il sole, fossero i raccolti magri o abbondanti, erano sempre loro che fissavano i prezzi, loro che intascavano i guadagni". Sullo sfondo c'è una Rimini i cui abitanti hanno uno speciale genio per intrighi e pettegolezzi: litigiosi e "condiscendenti con se stessi ma inflessibili con gli altri", amano godere delle altrui sconfitte più che delle loro vittorie. Il risultato si vede: "Così la città deperiva a vista d'occhio, come un corpo i cui organi siano in guerra fra loro. E come un uomo malato, più peggiorava più si isolava dal mondo circostante". Lo speziale Gioseffo, protagonista secentesco de "L'avvocata delle vertigini" (opera seconda di Meldini, 1996) già aveva detto di Rimini: "Città ingrata, più contenta delle altrui disgrazie che delle proprie fortune, cieca ai meriti, insensibile all'ingegno. Patria disgraziata!".
    Forte del suo denaro, Bartolomeo Bartolini progetta di condizionare il futuro della propria famiglia con la stessa sicurezza con cui opera negli affari. Vedovo e con un figlio che ha tutt'altri interessi, privilegia nel rapporto umano ed aziendale un nipote ex fratre che gli dà grandi soddisfazioni. L'occhio del commerciante di granaglie osserva i loro comportamenti, cerca di indirizzarne la vita secondo i propri piani. Usa come strumento le volontà testamentarie, che muta in continuazione adeguandole agli eventi sorprendenti o dolorosi e tragici che si susseguono nella sua famiglia. Quegli atti notarili che lui fa stendere con inutile preveggenza e consolatorie provvidenze, rappresentano ai suoi occhi la certezza che il destino dovrà avere il corso che lui immagina. Ma le singole esistenze del figlio e del nipote subiscono scarti dalla linea prefissata. Il libero arbitrio delle persone non si fa comperare dal mercante che detta i testamenti con la stessa arroganza con cui può dirigere le compre di grano o stabilirne il prezzo.
    Bartolomeo Bartolini è un "uomo tolemaico", una di quelle persone cioè che si considerano al centro dell'universo, come era la terra nell'antico sistema soppiantato dall'eliocentrismo copernicano. E reputa che quanti gli gravitano attorno ricevano da lui luce e calore, ovvero la vita. Ma le pagine dell'esistenza quotidiana di ognuno si girano senza che il ricco mercante possa fermarle. Non gli resta che tentare di resistere al destino, alla Mietitrice che incombe nel dolore e nella malattia, con la speranza sempre più debole, che un filo, un filo soltanto di tutta la matassa esistenziale, gli conceda la possibilità di governare l'altrui destino, le sorti della ditta e della famiglia.
    Ma anche quel filo si logora, probabilmente nella meccanica, continua ripetizione d'un fallimento dei suoi progetti. Il romanzo si chiude senza spiegare come e quando si spezzerà l'ultimo sogno. Il lettore può pensare che alla fine, nell'ultimo giorno, a Bartolomeo Bartolini resterà soltanto il ricordo di un'illusione, senza che niente di quanto lui avrebbe voluto e desiderato, possa avverarsi. Il destino degli altri non si compra con il denaro del testamento, non è una partita di granaglie, non è un contratto capestro, non è la forza corruttrice di un'elemosina elargita al clero per avere soddisfazione alle proprie pretese, non è il gioco mondano che permette, a lui ricco, di chiedere per i suoi due eredi la mano di ragazze aristocratiche d'una famiglia in rovina economica.
    No, il destino individuale non è in vendita. E Bartolini se n'accorge ogni volta che costringe il notaio a modificare le proprie volontà: "predeterminava le esistenze dei suoi discendenti, e dei loro nati, poneva un'ipoteca sul più lontano futuro". Se n'accorge, ma non lo confessa. Va sempre avanti così, con quell'illusione che lo sorregge nella continua battaglia con la Mietitrice. Con cui dialoga anche nell'ultima pagina: "Aspetta. Che fretta hai?".
    Meldini offre in questo quarto romanzo (a dieci anni dal debutto narrativo di successo con "L'avvocata delle vertigini"), un'altra prova di grande maturità artistica che s'esprime anzitutto nello stile con cui costruisce il racconto, poi nella stessa scansione degli eventi che procedono narrando la normalità di vite qualunque, nelle quali si condensano però le ferite simboliche, le angosce nascoste, le speranze tagliate di tutti.
    L'abilità dello scrittore dissemina lungo il testo sapienti suggestioni che si offrono al lettore con la discrezione di appunti delicati, senza ostentazioni arroganti. Si veda la scena della nebbia, nella quale il mercante prova "una paura che affondava in ricordi antichi e che riaffiorava di tanto in tanto nei sogni. Era la paura di dissolversi; di disperdesi in una miriade di atomi disertori; di diventare polvere e fumo".
    Quegli "atomi disertori" valgono da soli un'emozione che il lettore incassa sollecitando in se stesso un confronto con l'altra pagina in cui a Bartolini sembra di poter veramente raggiungere il suo scopo, combinando il matrimonio del nipote, in una splendida giornata di fine dicembre: "Il cielo era di un fulgido e immacolato color zaffiro, e il sole illuminava tutte le stanze sul davanti della casa, a cominciare dalla sala da pranzo. La luce dorata che entrava dalle finestre, alleata al tepore che spandeva il fuoco del camino annunciava la primavera". Ma quella luce e quel tepore sono un inganno, a conferma che le immagini che scorgiamo non rendono piena testimonianza della verità delle cose, come la figura del santo vescovo Gaudenzio che in piazza della Fontana, "dall'alto del piedistallo, lo guardava arcigno. Il braccio levato sopra la testa e le tre dita aperte non sembravano impartire una benedizione, ma lanciare una scomunica".

    1999. Le "lune" dolorose di Meldini
    [Fonte dell'articolo]
    L'"avvocata delle vertigini" del primo romanzo (1994, Adelphi) non ha mai avuto il dono dell'essere nella carne e tra le cose del mondo, ma Meldini le plasma attorno una biografia che ne fa un personaggio vero, non improbabile e neppure assurdo. Anzi quasi esemplare. L'astuzia narrativa dell'autore introduce leggende che "accennavano, concordi, ad una giovinezza alquanto dissipata", a cui tenne dietro la conversione, dopo un fatto straordinario che muta radicalmente la vita di questa giovane dal nome di Isabetta. Il fatto è un tentativo di suicidio dall'alto di un campanile: ma a salvarla intervengono provvidenzialmente quelle vertigini di cui parla il titolo, e per le quali diventa protettrice di quanti soffrono del male che le impedì il salto nel vuoto.
    La storia letteraria dell'"avvocata delle vertigini", è soltanto lo spunto per proiettare il romanzo da questo medioevo (letto e rivissuto attraverso pagine biografiche o documenti), alla nostra realtà contemporanea che s'intravede come sfondo alle scene che inquietano la vita di personaggi dalle esistenze sino ad allora piatte, e turbate all'improvviso proprio dalla presenza di fantasmi di carta che ben presto però diventano minacciosi eventi reali.
    Nel secondo romanzo "L'antidoto della malinconia" (1996, Adelphi, Premio Selezione Campiello), Meldini intreccia le parti del suo racconto (ambientato in un cupo scenario di fine Seicento), mescolandovi gli ingredienti più vari. Un amore negato dalla famiglia a Matilde, invaghitasi dell'"uomo sbagliato", per cui viene rinchiusa in monastero. La disperazione di Matilde (figlioccia dello speziale maestro Gioseffo, ed incline "ai pensieri malinconici"), finita pur essa nel suicidio. Il violento "uomo sbagliato" che torna riverito in società, nonostante la macchia di un delitto nato, "nelle fitte nebbie del vino", da una contesa inizialmente intessuta "per gioco". E sullo sfondo Rimini, contro la quale inveisce maestro Gioseffo: "Città ingrata, più contenta delle altrui disgrazie che delle proprie fortune, cieca ai meriti, insensibile all'ingegno. Patria disgraziata!".
    Gioseffo lavorava ad un trattato, da cui Meldini riprende il titolo per il suo romanzo. Lo stratagemma dell'autore moderno di rifarsi all'autore antico, di scrivere un libro su di un libro che non esiste più perché distrutto alla fine dallo stesso Gioseffo ("...cominciò a strappare le pagine a una a una. Il fuoco, onnivoro, le divora con noncurante ingordigia"), permette di realizzare (ancora una volta, come nell'"Avvocata"), una trama leggibile su due piani: in superficie, c'è il racconto delle apparenze (la vita così come ci si mostra), mentre la sottile ma intensa filigrana fa intravedere la "substantia rerum", ed i segreti individuali che si scontrano con quelle stesse apparenze.
    La terza prova di Piero Meldini ("Lune", Adelphi, 1999) naviga con grande perizia stilistica in un territorio misterioso ed enigmatico, per dimostrare montalianamente che il calcolo dei dadi mai non torna. E' un racconto fatto in prima persona, nell'angoscioso momento dell'attesa di un intervento chirurgico, con il drammatico rincorrersi di silenzi pungolanti alla meditazione, con l'immagine soave e terribile di un giovane morente, con le infermiere che recano tisane, prelevano sangue. Tutto ha il colore di una paura che spinge il protagonista a spiegarsi in un "grosso quaderno con la copertina nera e i tagli rossi che ricorda un messale".
    Sale quasi dall'inconscio l'immagine purificatoria del messale, dove saranno però contenute anche notizie di un carattere tutto sfrenatamente istintivo, che Meldini presenta senza alcun compiacimento, per testimoniare che Andrea Severi, il suo protagonista, vuole stendere un freddo (tuttavia compromettente) verbale a futura memoria, per chiarire a se stesso la serie degli eventi accaduti durante un viaggio in Grecia.
    Il libro non si può raccontare, non solo perché la sua conclusione va compresa soltanto dopo averlo letto tutto e non anticipata per gusto di pura cronaca; ma anche perché una volta giunti a quella conclusione, si deve ripassare mentalmente tutta l'opera, cercare di coglierne la struttura ed il valore simbolico dell'indecifrabilità del mondo in cui viviamo, testardamente convinti di essere, tutti noi, registi astuti nell'ideare e costruire ogni passo, ogni momento e situazione.
    L'abilità dell'autore sta nel presentarci questa storia complessa con la massima semplicità possibile, con quella 'leggerezza' che può nascere soltanto da un perfetto controllo tecnico e formale della materia. Senza di essa, il racconto avrebbe avuto il carattere non dello straordinario, ma dell'ovvio e del quotidiano; e non avrebbe reso il senso della ricerca del filo per dipanare la matassa delle incongruenze, delle contraddizioni e delle incomprensioni che ci accompagnano.
    C'è una frase in cui Meldini riassume il senso del 'castello' entro cui agiscono i suoi personaggi: "Quando, nella rassicurante casualità dei fatti, ci sembra di cogliere una traccia di maligna ostinazione, invochiamo il destino. Qualche volta succede anche a me di pensare che una volontà misteriosa governi gli eventi [...]".
    Verso la fine del suo 'verbale', ad Andrea Severi sembra che le parole scritte su quel quaderno si scompongano e ricompongano "per cancellare questa storia". Ma la vita non si cancella. Aspetta di essere raccontata. Sempre.

    1996. La malinconia, "epidemia del secolo"
    [Fonte dell'articolo]
    A due anni dal fortunato esordio con "L'avvocata delle vertigini", Piero Meldini torna in libreria e conferma la sua qualità di felice, originale narratore. Il nuovo libro "L'antidoto della malinconia" (Adelphi, lire 22.000), prosegue il discorso tematico avviato con l'opera prima, di cui ha la stessa natura di racconto filosofico. Rispetto ad essa, presenta però una visione più amara e tragica della realtà umana. Se Isabetta veniva salvata provvidenzialmente dal suicidio, il protagonista di questo secondo romanzo (lo speziale maestro Gioseffo), non ha nessuno che lo trattenga dal mettere in atto il suo disperato progetto.
    Nella conclusione della vicenda di maestro Gioseffo, il lettore avverte con commozione la discesa della parabola esistenziale di un personaggio che attraversa le varie scene (della vita e del libro), con una lucida e sofferta meditazione la quale sottolinea, momento dopo momento, ansie, contraddizioni, persecuzioni quotidiane.
    Ancora una volta, Meldini intreccia le parti del suo racconto (ambientato in un cupo scenario di fine Seicento), mescolandovi gli ingredienti più vari. Un amore negato dalla famiglia a Matilde, invaghitasi dell'"uomo sbagliato", per cui viene rinchiusa in monastero. La disperazione di Matilde (figlioccia dello speziale, ed incline "ai pensieri malinconici"), finita pur essa nel suicidio. Il violento "uomo sbagliato" che torna riverito in società, nonostante la macchia di un delitto nato, "nelle fitte nebbie del vino", da una contesa inizialmente intessuta "per gioco". E sullo sfondo Rimini, contro la quale inveisce maestro Gioseffo: "Città ingrata, più contenta delle altrui disgrazie che delle proprie fortune, cieca ai meriti, insensibile all'ingegno. Patria disgraziata!".
    Gioseffo lavorava ad un trattato, da cui Meldini riprende il titolo per il suo romanzo. Lo stratagemma dell'autore moderno di rifarsi all'autore antico, di scrivere un libro su di un libro che non esiste più perché distrutto alla fine dallo stesso Gioseffo ("...cominciò a strappare le pagine a una a una. Il fuoco, onnivoro, le divora con noncurante ingordigia"), permette di realizzare (ancora una volta, come nell'Avvocata), una trama leggibile su due piani: in superficie, c'è il racconto delle apparenze (la vita così come ci si mostra), mentre la sottile ma intensa filigrana fa intravedere la substantia rerum, ed i segreti individuali che si scontrano con quelle stesse apparenze.
    La dimostrazione di questo procedere (ambiguo non in sé, ma tale soltanto perché rispecchia e riproduce la duplicità dell'esistenza), è proprio nella pagina conclusiva del romanzo di Meldini. Il notaio Bentivegni, cronista della città e fonte preziosa per i futuri "avveduti" lettori, annota "addì 7 novembre 1690" la notizia del ritrovamento del corpo di maestro Gioseffo, e riferisce sul libro da cui egli attendeva la fama: "Il manoscritto non è stato trovato. C'è chi dice che maestro Gioseffo l'abbia distrutto in un moto d'ira. Chi mormora che gli sia stato rubato. I più maligni insinuano che non sia mai esistito se non nella sua immaginazione, fervida quanto alterata. Costoro sostengono che le pagine del libro che lo speziale porse al suo augusto protettore, in accademia, fossero tutte bianche".
    Le ultime righe della citazione riferiscono l'avvenimento in cui culmina la vicenda personale di Gioseffo. Accortosi che l'"augusto protettore" (un gelido cardinal Legato), non aveva letto neppur una delle numerose lettere che gli aveva scritto con sofferta elaborazione, Gioseffo gli si ribella proprio nel momento che doveva esser per lui di maggior gloria, sotto gli occhi di tutta la ridicola "accademia dei Pennuti". All'"augusto protettore", egli non porge l'omaggio del libro, ma pronuncia parole che suonano estranee e stonate, in quell'ambiente, come risultava a lui stesso la sua voce: ""Tiranni come la sorte," mormorò "e altrettanto ciechi, i Grandi concedono i loro favori, o li negano, come detta loro il capriccio. [...] Fieri del loro potere, abbagliati dalla loro bellezza, appagati dalla loro perfezione, i Grandi" disse "non vedono e non sentono. [...] Ma che preghiamo o imprechiamo," gemette "che sussurriamo o gridiamo, la nostra è la voce di poveri uomini. Di poveri uomini inascoltati."".
    Messo a tacere, tra i rumori di protesta dell'aula, lo speziale fece ritorno a casa, per scrivere l'ultimo capitolo della sua vita, consistente nel cancellare col fuoco il libro in cui aveva cercato di distillare sapientemente l'antidoto alla malinconia, "veleno dei letterati" ed "epidemia del secolo". Dalla fine di quel libro -di Gioseffo-, comincia questo -di Meldini-, cioè inizia il gioco letterario che l'autore moderno argutamente conduce, rendendosi complice ed antagonista al tempo stesso, dello scrittore antico. Dalle ceneri delle pagine di Gioseffo, prendono forma le pagine di questo 'malinconico' romanzo riminese.

    1994. "L'avvocata delle vertigini"
    [Fonte dell'articolo]
    Il romanzo di Piero Meldini ha una struttura composita: si presenta sin dall'inizio come un racconto fitto di misteri, e finisce per essere in sostanza il resoconto probabile dell'unico mistero che attanaglia l'uomo, quello della sua stessa esistenza.
    Per rendere questa struttura, l'autore fa ricorso ad una serie di artifizi narrativi, con abbondanza di provocazioni letterarie che attirano il lettore all'interno di una specie di labirinto, ove si mescolano suggestioni eleganti e disperati resoconti di cronaca nera: è una specie di grande gioco delle ombre cinesi, o se si vuole una specie di riproposta del mito platonico della caverna. Le cose che ci stanno di fronte, che cosa rappresentano? Gli accadimenti, anche i più tragici, a che servono, da chi sono voluti? Il fattaccio di sangue, le tracce che spaventano i frettolosi passanti di una città qualsiasi (ma sappiamo, è la nostra città), hanno una loro logica, o sono uno scherzo del destino? O piuttosto non qualcos'altro ancora, che non sveliamo per non togliere al lettore il gusto di scoprire da solo significati, meriti e sostanza di questo romanzo.
    La storia parte dal personaggio a cui va l'onore del titolo del libro, quell'"avvocata delle vertigini" che non è mai esistita storicamente. Quando Alberto Cousté ha presentato tempo fa, alla Sala degli Archi, il suo "Sigismondo" edito da Longanesi, un romanzo storico che non teme l'invenzione, ha dovuto rispondere all'osservazione di chi gli faceva notare che a Pesaro non si trova una certa porta di cui parla nel libro. La sua risposta è stata: "Non c'è, ma io l'ho vista".
    Anche la nostra "avvocata delle vertigini" non ha mai avuto il dono dell'essere nella carne e tra le cose del mondo, ma Meldini le plasma attorno una biografia che ne fa un personaggio vero, non improbabile e neppure assurdo. Anzi quasi esemplare. L'astuzia narrativa dell'autore introduce leggende che "accennavano, concordi, ad una giovinezza alquanto dissipata", a cui tenne dietro la conversione, dopo un fatto straordinario che muta radicalmente la vita di questa giovane dal nome di Isabetta. Il fatto è un tentativo di suicidio dall'alto di un campanile: ma a salvarla intervengono provvidenzialmente quelle vertigini di cui parla il titolo, e per le quali diventa protettrice di quanti soffrono del male che le impedì il salto nel vuoto.
    La storia letteraria dell'"avvocata delle vertigini", è soltanto lo spunto per proiettare il romanzo da questo medioevo (letto e rivissuto attraverso pagine biografiche o documenti), alla nostra realtà contemporanea che s'intravede come sfondo alle scene che inquietano la vita di personaggi dalle esistenze sino ad allora piatte, e turbate all'improvviso proprio dalla presenza di fantasmi di carta che ben presto però diventano minacciosi eventi reali.
    Piero Meldini è scrittore e saggista da una vita e lavora come direttore della Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini. E al centro del romanzo troviamo proprio un bibliotecario, il cui cognome (Manara) riecheggia il nome di quel Manara (Valgimigli) che fu anch'egli bibliotecario ed illustre studioso. Con il personaggio Manara, Meldini all'inizio si è divertito: lo ritrae come colui che spopola la biblioteca Giacomo Antonio Passeri che finisce per non avere più lettori, per poter "trasmettere lo scibile, intonso, a improbabili posteri".
    Nell'evolversi del racconto, il paradosso e l'invenzione cedono il passo ad una sofferta riflessione sulla realtà ultima della vita: "Oggi mi sono chiesto, non rida, se Dio esiste [...] E come sarà di là [...]. Perché ogni Sua manifestazione è una minaccia?". E poi ancora: "Affacciato alla finestra, il vescovo riascoltava, tremante, le parole di Agostino: "Cercavo da dove viene il male, e lo cercavo male, e non scorgevo il male della mia ricerca"".
    L'impianto e lo svolgimento di quest'opera ne fanno un racconto filosofico: il lettore viene condotto a riflettere su pagine che Meldini ha composto con attenzione e passione. C'è in esse una grande sapienza narrativa che si esprime sia nella costruzione stilistica sia in quella della trama, ove il vivere attuale trova posto come qualcosa di impensabile o strano: il clima del racconto sembra infatti proiettare la vicenda in una situazione antica, invece tutto si svolge ai nostri giorni, a cui sono collegati i tempi fuggiti dell'"avvocata delle vertigini".
    Vertigini che ritornano simbolicamente a chiudere le pagine in cui "una furtiva invocazione" ad Isabetta si accompagna al "grido muto al Dio appeso in cucina dell'infanzia fiduciosa, roseo e benedicente". È qui che il vescovo riascolta Agostino, e "a sua immagine e somiglianza, sentì, il Signore Dio suo era infelice".


    Archivio Scrittori riminesi
    Antonio Montanari

  • Nel suo blog, lo scorso giugno la scrittrice riminese Anna Rosa Balducci ha raccontato una scena inquietante vissuta in prima persona, con lei costretta ad intervenire presso una pattuglia di Polizia per evitare “un pestaggio in piena regola”.
    C'è “un gazebo occupato nottetempo da giovani stranieri con sacchi di cianfrusaglie e forse oggetti personali”. C'è l'agente “nervoso, gonfio di muscoli, con una inquietante testa rasata” che inveisce contro di lei che protesta. C'è l'altro poliziotto “più calmo” che interviene e fa cessare l'azione.
    Adesso lo stesso mondo doloroso dell'immigrazione, lo ritroviamo nell'ultima prova narrativa di Anna Rosa Balducci, “La casa color grigioperla” (Ed. Progetto Cultura, Roma).
    Dove si racconta una storia d'ordinaria vita di quindici persone fuggite verso l'Europa per trovare salvezza e futuro: due donne e due uomini vecchi, “i quattro giovani, di cui uno più serio e distinto, l'altro che si intendeva legato alla donna più giovane, sicuramente lo sposo di lei”. E poi un'altra donna giovane e cinque bambini, due femmine e tre maschi.
    L'esperienza narrativa di Anna Rosa Balducci sconvolge la trama con l'intervento di più narratori. C'è quello che racconta gli eventi da fuori, poi un uomo giovane che appartiene ai profughi, ed infine un bambino dello stesso gruppo di profughi.
    L'autrice a metà del lavoro dialoga con “il solito osservatore” che parla di una storia noiosa, di retorica dei buoni sentimenti, e ricostruisce la trama nascosta degli antefatti, avviando una specie di labirinto narrativo che serve a testimoniare di un semplice fatto, ovvero della complessità delle vicende vissute da questi sconosciuti. Che agli occhi della gente appaiono soltanto dei soggetti pericolosi da cacciare dalla casa in cui hanno trovato rifugio. [il Rimino, 09.09.2012]


  • In Toscana si preparavano alle cerimonie ufficiali per il centenario (6 aprile) della morte di Giovanni Pascoli, celebrato in pompa magna a Barga.
    Nella Romagna solatìa dolce paese, di Zvanì si ricordavano a bocca storta alcune cose, per etichettarlo come il Vecchio Poeta, e lodare qualcun altro (appena) passato nel mondo dei più.

    È successo, per essere precisi, con la scomparsa di Elio Pagliarani, di cui un altro collega poeta (ci si scusi l'iniziale minuscola), Sergio Zavoli, diceva che Pagliarani appunto aveva rifiutato ogni "poetica ridondante, sentimentale e fanciullina".
    Poi nella nostra Rimini è arrivato l'assessore provinciale alla Cultura Carlo Bulletti, con un esemplare comunicato da tramandare ai posteri per l'incipit di rara presunzione: "Non tutti sanno che...". E l'assessore, pure lui, se la prendeva con le parole fanciulline, evocandole attraverso richiami precisi come il "linguaggio aulico" e lo "stucchevole lirismo".

    Pascoli nel 1897 pubblica un saggio, "Il fanciullino", in cui spiega le sue idee sulla Poesia, mica si mette a cantare canzonette da asilo-nido.
    Roberta Cavazzuti in un volume (2004) della collana dedicata alla storia della Letteratura italiana diretta da Ezio Raimondi per la Bruno Mondadori, riassume in maniera mirabile quelle idee.
    La novità di Pascoli si può sintetizzare con questa frase della Cavazzuti: "Il poeta coincide con il fanciullo che è in ognuno di noi, non solo in qualche uomo superiore, privilegiato...".
    Da non tralasciare un altro passaggio fondamentale: "la poetica pascoliana ripudia" sia la retorica di Carducci sia la dannunziana liturgia della parola.

    Bastano queste due brevissime citazioni per comprendere che l'esperienza pascoliana (con tutti gli annessi e connessi storici), è qualcosa di più di un'etichetta di comodo con la quale porla nel dimenticatoio, per privilegiare i meriti di chi è venuto dopo.
    Meriti che non mettiamo in discussione, a patto che non li si spedisca in ridicola concorrenza con quelli di chi ha vissuto altre e più lontane epoche.
    Zvanì non è un Vecchio Poeta da rinchiudere in soffitta per cedere posto ad altre Glorie più recenti.
    Nelle storie della Letteratura, c'è posto per tutti quanti sono scomparsi dal palcoscenico della vita.
    Lasciate che a sbranarsi siano i contemporanei vegeti che ambiscono alla pretesa di esserne unici protagonisti. E che, con tutti i mezzi, cercano di realizzare un loro sogno da inutili superuomini.
    Antonio Montanari


  • L'agosto di passione

    Perché le SS coprono i brigatisti neri sull'uccisione di Duilio Paolini? L'arresto di sei sammarinesi salvati poi dalla fucilazione. I repubblichini vorrebbero rastrellare sul Titano i giovani italiani sfollati. L'uccisione di un russo aggregato ai nazisti, e la rappresaglia tedesca.


    I giorni dell’ira, 3. "il Ponte", 07.01.1990

    9. Il 12 agosto.
    Riprendiamo il racconto dell'ex Capitano Reggente di San Marino Francesco Balsimelli sull'agosto 1944 che «non trascorse immune da complicazioni e da pericoli».
    Il giorno 6, sulla strada tra Dogana e Serravalle erano stati rinvenuti dei manifestini «incitanti alla rivolta contro i tedeschi». Erano sparsi sulla carreggiata ed affissi alle piante. Fu un fatto, scrive Balsimelli, «che costituiva un grave rischio per l'incolumità della nostra neutrale Repubblica».
    Nella notte del 10, ignoti spacciandosi per partigiani, avevano svolto azioni di estorsione a Montegiardino».
    Il giorno 12, c'è l'arresto di sei sammarinesi che saranno poi liberati, per ordine delle SS, il 25 dello stesso mese. È un episodio al quale abbiamo già accennato, ma su cui occorre ritornare.
    Leggiamo la testimonianza di Federico Bigi. Il sammarinese Luigi Giancecchi detto Chicone viene arrestato quel 12 agosto «da un gruppo di SS tedesche e da brigatisti neri italiani, lungo la Costa, una scorciatoia che unisce Borgo a Città, mentre stava consegnando del materiale di propaganda antitedesco ad un giovane italiano che poi risultò essere un agente provocatore e che mi risulta sia stato fucilato dopo l'arrivo degli alleati», racconta Bigi.
    Dopo Giancecchi, «le SS ed i brigatisti prelevarono dalle loro abitazioni anche Ermenegildo Gasperoni, i fratelli Giuseppe ed Armando [Pier Gaetano, n.d.r.] Renzi e Nazzareno Arzilli e li portarono» al Comando della Milizia sammarinese. Bigi dimentica il sesto nome, quello di Vincenzo Pedini.
    Gasperoni racconta quei momenti. Un capitano tedesco lo interroga: «Gentilmente mi chiese se ero stato nelle Brigate internazionali in Spagna... Alla mia risposta affermativa mi chiese se a San Marino vi fossero formazioni partigiane o di prigionieri alleati nascosti. Risposi negativamente, affermando che essendo la Repubblica di San Marino un Paese neutrale, non vi era motivo di avere un'organizzazione partigiana».
    Non ci sono neppure partigiani italiani nascosti sul Titano, aggiunge Gasperoni: «Alla mia risposta negativa insorse un tenente dei battaglioni M, presente all'interrogatorio, gridando ferocemente che io mentivo; chiese al Capitano di consegnarmi nelle sue mani, che avrebbe trovato lui il modo di farmi parlare».
    Il capitano tedesco, laureato in Legge, chiamò i Carabinieri e disse loro: «Gasperoni è vostro prigioniero, con l'esercito germanico non ha nulla a che fare».
    Giuseppe Renzi: «I fascisti volevano portarci in Italia, per fucilarci. Il capo era Paolo Tacchi».
    Bigi conferma: le SS volevano portare via i sei arrestati, «nel qual caso la loro sorte era facilmente prevedibile» Il capo delle brigate nere Paolo Tacchi, dice Bigi, era «molto più odioso del tedesco».
    Per tutta la notte andò avanti una lunga trattativa condotta soprattutto dal Plenipotenziario Ezio Balducci: «Alle cinque del mattino, dopo estenuanti colloqui, il Comandante delle SS, nonostante che il Capo delle Brigate Nere protestasse energicamente, si convinse a non esigere la deportazione dei nostri concittadini, a condizione però che noi li avessimo trattenuti in carcere», conclude Bigi.


    10. La trebbiatrice bruciata.
    Era l'alba del 13 agosto 1944. La sera prima una trebbiatrice al servizio dei tedeschi, in località Fornaci Marchesini a Rimini, è data alle fiamme. È un atto di sabotaggio contro razzie, rubamenti e requisizioni dei tedeschi. I nazisti, nel corso dell'estate, sono diventati sempre più prepotenti. A tutto ciò, il Comitato di Liberazione Nazionale ha reagito con un appello del primo luglio: non trebbiate il grano, per impedire che i tedeschi se lo prendano e lo portino in Germania.
    Lo stesso 13 agosto, militi repubblichini e soldati tedeschi guidati da Paolo Tacchi circondano la base partigiana di via Ducale a Rimini, da cui era partito il commando dei Gap (Gruppi di azione patriottica) che aveva incendiato la trebbiatrice, ed arrestano Mario Capelli, Luigi Nicolò ed Adelio Pagliarani.
    Intanto a San Marino si forma una delegazione composta da Federico Bigi, Marino Beluzzi ed Ezio Balducci per trattare con le SS di Forlì la liberazione dei sei arrestati.
    A Rimini il 14 agosto Capelli, Nicolò e Pagliarani sono sottoposti dai tedeschi a processo sommario. Il verdetto, condanna a morte.
    Padre Callisto Ciavatti chiede al Comando tedesco di «commutare la pena di morte nella deportazione», e riceve «la promessa di rivedere la cosa». È lo stesso frate a raccontare questi particolari. Il suo confratello padre Amedeo carpani dichiarò: «Non ci fu niente da fare, anche perché Tacchi che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli».
    Ma Tacchi voleva comandare anche a San Marino, come precisa Bigi che lo definisce (si è già visto) «molto più odioso del tedesco», ovvero il ricordato capitano germanico.
    Il 16 agosto, dalla forca eretta in piazza Giulio Cesare a Rimini, pendono i corpi senza vita dei Tre Martiri.


    11. Ritorsione sul Titano.
    Il giorno 20, in territorio sammarinese «erano apparsi razzi segnalatori [...] senza che le pattuglie sguinzagliate in ricognizione riuscissero a scoprire traccia degli incauti» che avevano agito, scrive Balsimelli.
    L'ex Reggente Balsimelli accusa apertamente Paolo Tacchi per un episodio accaduto il 25 agosto: «... forse per ritorsione [...] giungeva a San Marino Paolo Tacchi da Rimini accompagnato da alcuni ufficiali delle SS con la pretesa tante volte ventilata di procedere ad un rastrellamento degli innumerevoli giovani italiani quivi sfollati».
    Il «terrore di Rimini», come la gente chiamerà Tacchi, voleva diventare pure il terrore di San Marino.
    «Paolo Tacchi fu uno dei numi tutelari dei repubblichini sammarinesi», ci dichiara il prof. Cristoforo Buscarini. Il quale ci mostra una pagina di Alvaro Casali in cui si parla di tacchi come di un «criminale».
    Per l'episodio del 25 agosto, a difendere Tacchi è ancora una volta il Plenipotenziario Balducci. Nel corso del primo processo al ras repubblichino, nel dopoguerra, Balducci testimoniò che il governo sammarinese era stato avvisato dal colonnello tedesco Christiani dell'intenzione che costui aveva «di effettuare un rastrellamento con 1.500 uomini sul Titano».
    Balducci parla con Christiani alla presenza di Tacchi di cui aveva chiesto la collaborazione a favore di San Marino, «ricordandogli i trascorsi studenteschi nella Repubblica», Balducci in tribunale spiegò che Christiani fu così convinto «a telefonare ai suoi superiori, affinché rinunciassero al rastrellamento», e che alla fine Christiani gli comunicò: «È tutto rinviato».
    San Marino era stata salvata in extremis da Tacchi, secondo Balducci. Era il 25 agosto, ed i nostri tre protagonisti si trovavano a Rimini.
    Come mai, lo stesso giorno, secondo il racconto di Balsimelli, Tacchi sale sul Titano per un rastrellamento di giovani sfollati?
    Ancora una volta, le dichiarazioni di Balducci si scontrano con altre ricostruzioni.
    Ma Balducci, chi era? Così lo descrive lo storico Amedeo Montemaggi: «già fascista ed amico di fascisti», aveva molte conoscenze nella Repubblica di Salò. Dal 28 ottobre 1943, è Ministro Plenipotenziario della Repubblica prsso gli Stati belligeranti. Prima di quel giorno, Balducci era in esilio: nel 1934, si era messo in urto con i fratelli Manlio e Giuliano Gozi, che comandavano a San Marino in quegli anni e che «per liberarsi di lui» lo avevano accusato di complotto contro lo Stato e fatto condannare a venti anni di lavori pubblici.
    Montemaggi parla di un ascendente di Balducci su Tacchi. Bigi racconta dell'odio che molti repubblichini avevano nei confronti di Balducci, considerato un traditore. Ed aggiunge: «Era di una capacità diplomatica e manovriera enorme». Tanto che quel 25 agosto riesce a risolvere con il capitano Kurt Schutze, comandante delle SS di Forlì, il caso dei sei arrestati a San Marino il 12 agosto, che così poterono ritornare liberi.
    25 agosto, si è detto. Pochi giorni prima, il Commissario di Pubblica Sicurezza di Rimini ha inviato al federale di Forlì un rapporto in cui dichiara che la cattura dei tre partigiani impiccati il 16 «è stata opera personale della intelligente ricerca del Segretario Politico della città di Rimini», cioè di Paolo Tacchi, «coadiuvato da elementi della Feld-Gendarmeria tedesca».
    Nella stessa notte tra 25 e 26 agosto, inizia l'attacco alla Linea Gotica.
    Il 31 agosto, la «carovana» di repubblichini abbandona la nostra città. Anche Paolo Tacchi fugge da Rimini.


    12. La banda Stacciarini.
    Intanto,il 29 agosto, la delegazione sammarinese che aveva trattato con il capitano Schultze, invia ai Capitani Reggenti il suo rapporto, dove appare il nome di Duilio Paolini. Secondo le SS, il sarto era stato un delatore. Dopo l'orrore della sua morte violenta, ecco apparire l'infamia di una falsa accusa.
    Riproduciamo alcuni passi della relazione ai Capitani Reggenti, che riferisce le opinioni di Schultze: «Il Comando SS di Forlì è informato che nella zona di Montemaggio, Montelicciano e Montegrimano e regione limitrofa si trovano nuclei di partigiani. Nella zona suaccennata scorrazza la banda composta di non meno trenta partigiani, al comando del già famoso Stacciarini».
    Stacciarini era un giovane, figlio di un «gerarca fascista bastonatore», ricorda Giuseppe Maiani.
    «Fanno parte della banda stessa ex ufficiali del disciolto R. Esercito italiano e fra questi sono gli ex ufficiali Pelluccio Emanuele e Bacchilega», prosegue la relazione: «Informatori al servizio del Comando di Polizia tedesco, che hanno avuto e tuttora mantengono rapporti con queste bande, assicurano che la banda Stacciarini ha avuto l'ordine dal Comando superiore dei partigiani di sconfinare nel territorio della Repubblica ed ivi rifugiarsi in caso di reazione tedesca».


    13. Quale deposizione?
    È a questo punto che appare nella relazione il nome di Duilio Paolini: «Da informazioni pervenute al Comando delle SS e da deposizione del sarto di Montelicciano Paolini, da un mese circa arrestato e pochi giorni fa fucilato, risulta che i Sammarinesi Gasperoni Gildo e Gianfrancesci Luigi sono in contatto con le bande che hanno stanza in prossimità dei confini della Repubblica di San Marino».
    Ecco che, per «sottilissimo e invisbile filo» che talora sembra legare persone e datti tra loro tanto lontani, s'incontra il nome del povero Paolini, infangato dalle SS come un traditore dei propri compagni. Poteva fare nomi, Paolini? «Non conosceva gli arrestati», ci dice Pippo Bartoli. Allora perché le SS parlano di una «deposizione»?
    In quel gioco di reciproci favori, fatti all'insegna di una disumana ferocia che caratterizza più i repubblichini degli stessi nazisti (nonostante postumi tentativi di rovesciare la verità storica), forse le SS vollero mascherare l'omicidio compiuto dalle brigate nere che e seguivano le direttive partite da Salò, come metodo di azione.
    Per fortuna, non tutti i repubblichini erano «odiosi» come Tacchi o quelli che agirono tra Rimini e San Marino. «A Montegrimano, il segretario del fascio era Enzo Pozzi, figlio di un signore, che faceva il vagabondo», rievoca Pippo Bartoli. «Quando c'erano pericoli, ci avvisava. Faceva la spia per opportunismo, ma aveva l'animo buono. Era senza nessuna idea, uno di quelli che sono contro tutti. Rompeva le scatole alla gente. Arrestava i genitori di richiamati alla leva. Dopo la liberazione, Pozzi finì in un campo di concentramento, arrestato dalla Polizia alleata. Fu preso dai partigiani. L'ho salvato io, perchè non aveva fatto nulla di male».
    Non ha mai voluto vendette, Bartoli. Per dare una lezione morale, dice, a quanti negli anni precedenti avevano elevato la violenza a loro credo politico.


    14. Odio chiama odio.
    Vendetta pura e semplice pare essere invece quella che ha colpito Paolini. Hanno voluto punirlo per le sue idee. Non fu un congiurato, non tesseva complotti. Nulla autorizza a parlare di un legame tra la sua cattura da parte dei repubblichini, e gli arresti del 12 agosto a San Marino, che furono uno dei tanti episodi della caccia agli oppositori del fascismo di Salò nella neutrale San Marino.
    Non c'è nessun motivo per credere che la cattura di Paolini abbia permesso di scoprire un complotto antitedesco. Esisteva soltanto una propaganda contro il nazismo che s'intensificava in quei giorni, in cui stavano per arrivare gli Alleati.
    L'avanzata degli anglo-americani cambierà il volto della storia. Prima che gli impavidi repubblichini scappino, alla fine di agosto e che il terrore delle armi disegni di croci le nostre terre, il 29 agosto, proprio tra Montelicciano (dove era stato catturato Paolini) e San marino, accade un altro tragico episodio. Odio chiamava odio.
    Verso le 17, a duecento metri dal confine, è ucciso in un'imboscata un russo, ex prigioniero di guerra, aggregatosi all'esercito tedesco. Scrive Balsimelli che «in seguito a ciò, dalle truppe germaniche immediatamente giunte sul luogo, erano state incendiate per rappresaglia due case», ed arrestate le prime persone trovate nella località.
    Sul numero degli arresti c'è discordanza: Balsimelli parla di otto sammarinese e due italiani, ma poi elenca nove nomi di suoi connazionali. Federico Bigi che partecipò alla trattativa per la liberazione di quelle persone, le ricorda in numero di dodici, tra cui due italiani. Uno degli arrestati, Guerrino Maiani, elenca quindici nomi in tutto.

    Nota bibliografica. Sono tratte dal volume già cit. di Bruno Ghigi «La Repubblica di San Marino, Storia e Cultura, Il passaggio della guerra, 1943-1944», le testimonianze di F. Bigi (pp. 77-86), G. Gasperoni (125-138) e G. Renzi (203-205).
    La testimonianza di E. Balducci è nel cit. volume di A. Montemaggi, «San Marino nella bufera», p. 50.
    Per la storia dei Tre Martiri, cfr. il cit. nostro «Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1946», al cap. 13.
    L'articolo di Balsimelli è lo stesso citato nella scorsa puntata: «La fermezza dei governanti sammarinesi», «il Resto del Carlino», 18.8.1956.

    Al capitolo precedente [n. 2], al capitolo iniziale [n. 1].

    Antonio Montanari



    Giorni dell'ira. Indice
    Rimini ieri. Cronache dalla città. Indice


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  • La caccia all'uomo

    Perché fu catturato Duilio Paolini? I brigatisti neri di Rimini espatriano sul Titano in cerca di antifascisti. Lo strano attentato alla "Topolino" di Tacchi (che però non era a bordo), come pretesto per un rastrellamento a San Marino e forse anche per l'uccisione del sarto di Montelicciano.

    I giorni dell’ira, 2. "il Ponte", 17.12.1989

    5. Cosa dicono le SS.
    Galliano Severi che ha assistito alle torture inflitte dai repubblichini al sarto di Montelicciano, diffonde subito in paese la notizia che Duilio Paolini è stato assassinato. La gente aggiunge altri particolari mai verificati, come quello del cadavere gettato sotto il ponte di Ornaccia, sulla strada per Combarbio.
    Per tutti è un delitto politico delle brigate nere. Una diversa versione dei fatti viene fornita però dalle SS, il 25 agosto, ad una delegazione sammarinese. I nazisti dicono che Paolini è stato arrestato «da un mese circa» e fucilato «pochi giorni fa».
    La delegazione sammarinese è a colloquio con il comandante delle SS a Forlì, capitano Kurt Schutze, per una vicenda a cui il povero Paolini è estraneo. Il 12 agosto, sul Titano, brigatisti neri italiani ed un gruppo di SS, hanno arrestato se sammarinesi.
    Le autorità della Repubblica riescono a non far deportare quei loro concittadini. Dopo una lunga trattativa, conclusasi appunto il 25 agosto, gli arrestati possono tornare liberi.
    Per capire il clima in cui maturò l'omicidio di Paolini ed avvenne la retata dei brigatisti neri sul Titano, bisogna dare uno sguardo d'assieme alla situazione generale della guerra, ed al quadro locale nella zona di Rimini e della stessa San Marino.

    6. Il cerchio si stringe.
    Tra giugno ed agosto 1944 sono i mesi decisivi del conflitto nell'Italia centrale. Il 5 giugno gli Alleati entrano a Roma. I tedeschi ripiegano dietro la Linea Gotica.
    Un fatto europeo, il giorno 6 avviene lo sbarco in Normandia. L'avanzata alleata in Italia procede lungo varie direttrici. Il primo luglio è liberata Cecina, il 12 comincia il bombardamento Usa dei ponti sul Po. Il 14 è liberata Poggibonsi. Il 15 c'è l'attacco verso Arezzo, il 18 i polacchi sono ad Ancona.
    Il 20 luglio, nella Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler in una foresta della Prussia Orientale, avviene l'attentato al führer. Fallisce. Hitler si vendica, facendo uccidere migliaia di militari e di civili 'sospetti'.
    Dal 15 luglio, il governo italiano ha riconosciuto i partigiani «come parti integranti dello sforzo bellico della nazione». Nella notte tra 25 e 26 agosto, inizia l'attacco alla Linea Gotica.
    La fine del nazismo è ancora lontana, ma ormai certa. Non è la propaganda alleata a sostenerlo. Lo pensano ormai anche i fascisti.
    Al Comando tedesco di Rimini, a Villa Danesi, nel giugno 1944 c'è un pranzo di ringraziamento ai medici del nostro ospedale per le cure prestate ai militari germanici. Ricorda il dottor Marino Righi che, alla fine del banchetto, il capo repubblichino di Rimini, Paolo Tacchi, dichiara: «Non capisco come l'asse possa vincere questa guerra. Anzi penso che per noi sia già perduta».
    La lotta partigiana si fa generale in pianura, con azioni rapide di guerriglia. In montagna ed in collina, con operazioni militari.
    Già dal novembre 1943, il partito fascista repubblichino ha ordinato di «passare per le armi» gli «elementi antinazionali al soldo del nemico» che compiano «atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani». È la politica del pugno duro, dopo il tentativo (deriso dagli oppositori interni come «abbraccio universale»), di una pacificazione nazionale.
    Lo compiono «fascisti troppo ingenui o troppo furbi» che (secondo lo storico Arrigo Petacco) andavano «predicando qua e là per l'Italia la necessità "di una assoluta fratellanza fra gli italiani, senza distinzione di partito"».
    Anche a Rimini, il 12 settembre 1943, Paolo Tacchi aveva chiamato a raccolta gli antifascisti del Cln, per un patto di non aggressione che non venne stipulato.
    Dal primo luglio 1944, «tutti gli iscritti regolarmente al PFR di età fra i 18 e i 60 anni e non appartenenti alle Forze Armate repubblicane, costituiscono il corpo ausiliario delle Camicie Nere composto dalle squadre di azione».
    Scrive Petacco: «Le Brigate nere si riveleranno nella loro stragrande maggioranza delle bande di canaglie e di torturatori...», mentre la "carta bianca" del novembre 1943 di passare per le armi gli antifascisti, costituì «l'inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il Paese».
    Sono cose che accadono anche a Rimini.

    7. Tra Rimini e San Marino.
    Alle brigate nere danno manforte i nazisti. E viceversa. Il 26 ottobre 1943, il Commissario prefettizio Bianchini aveva avvisato: «In caso di nuovi atti di sabotaggio comunque compiuti il Comando militare germanico procederà alla deportazione dei cittadini in ostaggio.
    Poi aveva aggiunto che da parte italiana i colpevoli sarebbero stati punti con la pena di morte. Gli italiani, dunque, peggio dei tedeschi. Ai nazisti però non piacerà per nulla lo zelo dei repubblichini riminesi.
    Comunque, tra fascisti di Salò e tedeschi, c'è scambio di favori, in vista di un fine comune, ed in nome di una causa altrettanto comune. Essi sconfinano assieme nella neutrale San Marino, alla ricerca di oppositori politici e partigiani. Le spie sono italiane. La protezione armata è quella germanica.
    Il 18 marzo 1944 a Serravalle, i fascisti riminesi arrestano Giuseppe Babbi, un dc, e lo consegnano alle SS dalle quali sarà portato a Bologna.
    Il 4 giugno, al cimitero di Montalbo, sono catturati dai repubblichini quattro riminesi (Decio Mercanti, Giuseppe Polazzi, Leo Casalboni ed Elio Ferrari), ed un sammarinese, Gildo Gasperoni.
    Li interroga Paolo Tacchi assieme a Marino Fattori. I quattro riminesi sono tradotti a Forlì, dove incontrano anche Luigi Nicolò e Mario Capelli che il 16 agosto, assieme ad Adelio Pagliarani, saranno impiccati a Rimini.
    Mercanti riesce a fuggire verso il 15 giugno durante un allarme per strada, mentre veniva condotto al palazzo di Giustizia.
    Ferrari e Casalboni dovevano essere fucilati il 29 giugno. Si erano già scavati la fossa, quando un bombardamento mise in fuga il plotone di esecuzione. Il frate che li aveva assistiti, li aiutò a fuggire.
    Nell'aprile 1944, è stato arrestato a Riccione un antifascista di Santarcangelo, Rino Molari. Lo uccideranno a Fossoli tra il 12 ed il 13 luglio 1944, assieme ad un riminese, Walter Ghelfi, ed a Edo Bertaccini (detto Fulmine) di Coriano.
    In questi mesi, la rabbia nazista e repubblichina, è al suo culmine. Come belve infuriate per il cerchio della guerra alleata che si stringe attorno a loro, tedeschi e brigatisti neri spargono terrore. Il 12 agosto, un bando di Kesselring prevede rappresaglie contro le popolazioni residenti dove agiscono i partigiani.

    8. Uno strano attentato.
    Francesco Balsimelli rievoca quei giorni dell'estate 1944, quando era Capitano Reggente della Repubblica di San Marino, in un articolo del 18.8.1956 («La fermezza dei governanti sammarinesi», ne «il Resto del Carlino»): «Numerosi e gravi atti di sabotaggio si verificarono nei paesi vicini e nella stessa Rimini, senza che la polizia germanica e fascista riuscissero ad evitarli e a scoprirli, onde le repressioni e le rappresaglie di infame memoria».
    A San Marino, invece, «le cose procedettero con abbastanza calma, nonostante alcune intemperanze da parte di elementi forestieri e nostrani».
    Dietro la formula, fredda e diplomatica, delle «intemperanze», si nasconde la realtà dei partigiani che da Rimini salivano a San Marino per trovare rifugio o per organizzarsi. Senza però ricevere mai un aiuto concreto, come ad esempio un lasciapassare diplomatico.
    Ai primi di luglio, a Serravalle accade uno strano episodio: il «presunto attentato ad un'auto repubblichina entrata in San Marino», racconta Giordano Bruno Reffi che allora era caporale della Milizia Confinaria sul Titano e che nel dopoguerra rivestirà alti incarichi nel governo della Repubblica. La vettura, di proprietà di Paolo Tacchi, aveva a bordo il repubblichino Raffaellini, considerato la spia che aveva fatto arrestare Babbi a Serravalle.
    Reffi racconta di una «scenata» di Tacchi a Raffaellini, perché il federale riminese «sospettava che i colpi che avevano perforato la macchina fossero partiti dall'interno della stessa auto». Raffaellini rispose a Tacchi: «Ma che cosa dici, paolino? Come puoi pensare ad una cosa del genere?».
    Tacchi subito dopo scese a Rimini, ma la sera stessa tornò a Serravalle, con il rinforzo di alcuni repubbichini. Per tutta la notte, Tacchi discusse con il Ministro Plenipotenziario di San Marino Ezio Balducci, su di una possibile rappresaglia da attuare sul luogo dell'attentato.
    Balducci (era ovvio) si oppose in modo fermo, però all'alba (precisa G. B. Reffi), Tacchi egualmente «si portò via delle persone prese fra gli sfollati italiani».
    Nel dopoguerra, Balducci difenderà in tribunale Tacchi dall'accusa di aver compiuto quel rastrellamento, e sosterà che il ras di Rimini se n'era andato senza aver commesso «violenza alcuna». Ma, come si è visto, la testimonianza di Reffi sostiene tutto il contrario.
    Il particolare della «scenata» di Tacchi a Raffaellini, inoltre, toglie ogni valore alla ricostruzione fornita dallo stesso Tacchi al «Carlino» nel 1964: «Casualmente avevo cambiato poco prima la macchina ed i colpi furono diretti contro la mia "Topolino". Della macchina che seguiva uscimmo con le armi in pugno, ma gli attentatori ci sfuggirono».
    Se le cose fossero andate così, Tacchi non avrebbe pronunciato contro Raffaellini la frase ascoltata da Reffi.
    La storia dell'attentato contro il ras di Rimini perde di conseguenza ogni credibilità. Anzi, il particolare della «scenata» contro Raffaellini potrebbe far pensare che, da parte dei repubblichini, ci fosse stata una messa in scena per creare un incidente diplomatico con San Marino e giustificare un rastrellamento delle brigate nere ai danni degli italiani rifugiati in Repubblica.
    Di questa messa in scena avrebbe approfittato lo stesso Tacchi non soltanto subito, quella stessa sera ai primi di luglio, dopo gli spari contro la sua "Topolino", ma anche nei giorni successivi.
    Grazie a quel presunto attentato Tacchi poté accanirsi contro San Marino ed i suoi rifugiati italiani. Ogni atto di violenza commesso dai repubblichini riminesi in territorio sammarinese, poteva giustificarsi con quegli spari di Serravalle.
    Le spie repubblichine sospettavano su tanti ospiti della Repubblica e su abitanti delle zone di confine. Uno degli indiziati è appunto Duilio Paolini. Lo credono un organizzatore di bande partigiane.
    Siamo nella notte tra il 12 ed il 13 luglio, quando Paolini è catturato dalle brigate nere. Lo torturano e forse lo uccidono subito, poi fanno scomparire un cadavere scomodo.
    Gli "amici" tedeschi delle SS hanno tutto il tempo necessario per preparare la versione ufficiale. Paolini è stato arrestato e poi fucilato da loro. Versione comunicata il 25 agosto, il giorno in cui sono liberati i sei sammarinesi arrestati dai brigatisti neri italiani e dai nazisti il 12 agosto.
    Senza gli spari di Serravalle, forse Paolini non sarebbe stato eliminato.
    I giorni dell'agosto 1944 sono cruciali nella lotta politica e militare della nostra zona. Accadono infatti anche altri episodi.
    [Prosegue qui.]

    Nota bibliografica. È tratta dal volume di Bruno Ghigi (curatore ed editore, 1980) «La guerra a Rimini e sulla Linea Gotica dal Foglia al Marecchia», la testimonianza del dott. M. Righi (p. 253). Sono contenute nel volume già cit. «La Repubblica di San Marino, Storia e Cultura, Il passaggio della guerra, 1943-1944», le testimonianze di E. Ferrari (pp. 112-116), D. Mercanti (168-170) e G. B. Reffi (194-197).
    Per le notizie storiche locali, cfr. il nostro «Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1946», ed. il Ponte, Rimini 1989.
    Su E. Balducci, v. A. Montemaggi, «San Marino nella bufera», Della Balda, RSM 1984, alle pp. 24 e 50.
    Su P. Tacchi, cfr. A. Montemaggi, «I rapporti fra nazisti e fascisti e i primi scontri con i partigiani», «il Resto del Carlino», 26.04. 1964.
    Il volume di Arrigo Petacco è «Pavolini», Oscar Mondadori, 1988: cfr. soprattutto alle pp. 166 e 193.

    Antonio Montanari



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