• Alle origini di Rimini moderna.
    Società, politica e cultura tra XV e XVIII secolo
    1. Malatesti e l'Europa
     


    Papa Gregorio XII, eletto nel 1405, si rifugia a Rimini il 3 novembre 1408 mentre si prepara il concilio di Pisa e dopo che Carlo Malatesti (13681429), signore di Rimini, lo ha salvato da un tentativo di cattura.
    La grande stagione malatestiana all'interno della vita della Chiesa comincia in questa occasione. Anche se ha precedenti talora dimenticati nel secolo precedente, quando nel 1357 Pandolfo II è a Praga e a Londra in veste d'inviato pontificio.
    Carlo, per contattare il collegio cardinalizio, utilizza Malatesta I (13661429), signore di Pesaro, che in precedenza si è offerto a Gregorio XII per una missione diplomatica presso il re di Francia, inseritosi nelle dispute ecclesiastiche per interessi personali.

    Rami di famiglia
    La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Il capostipite è Pandolfo I (13041326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio che aveva conquistato Rimini nel 1295.

    Da Pandolfo I sono nati Galeotto I (12991385) e Malatesta Antico detto Guastafamiglie (13221364) al quale fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1315 c.73) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I, padre di Cleofe e Galeazzo.
    Il ramo rimineseromagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe e Galeazzo. Carlo è figlio di Galeotto I. A consolidare la parentela, oltre gli affari e le imprese mercenarie, sono state due sorelle di Camerino, Gentile da Varano sposatasi con Galeotto I (1367), ed Elisabetta con Malatesta I (1383).

    Carlo a Pisa
    Malatesta I è stato in affari con Urbano VI, prestandogli diecimila fiorini e ricevendo in pegno biennale il vicariato nella città di Orte (1387). Il papa gli ha anche chiesto il suo aiuto nello stesso anno per proteggere l'arcivescovo di Ravenna Cosimo Migliorati cacciato dalla città. E poi nel 1391, di difendere gli interessi della Santa Sede contro i ribelli di Ostra (Montalboddo).

    I lavori a Pisa iniziano il 25 marzo 1409. Gregorio XII è dichiarato deposto. Carlo arriva a Pisa come mediatore fra Gregorio XII ed i padri conciliari, ma in sostanza quale suo difensore.
    Non è accettata la sua offerta di Rimini per sede dell'assise ecclesiastica, parendogli Pisa non adatta in quanto sottoposta alla dominazione dei fiorentini, avversari di Gregorio XII.
    Il primo approccio fra Carlo ed il concilio avviene attraverso Malatesta I che si era attivato dopo l'elezione di Gregorio XII avvenuta il 2 dicembre 1406, ricevendo in premio il vitalizio del 1410.

    L'antipapa Giovanni XXIII
    Mentre era capitano generale di Firenze, Malatesta I aveva avviato negoziati fra lo stesso Gregorio XII e l'antipapa Benedetto XIII (eletto nel 1394), entrambi deposti in contumacia a Pisa il 5 luglio 1409 e dichiarati «scismatici, eretici e notoriamente incorreggibili».

    Il loro posto, su iniziativa del cardinal Baldassarre Cossa, è preso il 20 giugno 1409 da Alessandro V (che scompare il 4 maggio 1410), detto «il papa greco» provenendo da Candia.
    Gli succede Giovanni XXIII il 17 maggio 1410. Il 28 giugno 1410 l'antipapa Giovanni XXIII ricompensa Malatesta I dei danni subiti e delle spese fatte nei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, «circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissime unionis». E gli attribuisce «vita durante» la somma di seimila fiorini all'anno, cifra significativa se paragonata ai 1.200 del censo.

    La proposta di Rimini
    Carlo Malatesti, pur avendo visto fallire la sua missione a Pisa con il rifiuto del trasferimento del concilio a Rimini, era tornato alla carica con un messaggio ai padri che però giunse quando essi erano già i conclave per scegliere «il papa greco».

    Carlo interviene ancora presso i cardinali convenuti a Bologna per le esequie di Alessandro V.
    Al nuovo papa Giovanni XXIII (quel Baldassarre Cossa con cui era stato riappacificato dal fratello Pandolfo III), Carlo scrive da Venezia prospettandogli vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III, al fine di «reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae».

    Gregorio XII e Carlo
    Gregorio XII in una bolla del 20 aprile 1411 scrive che Carlo, «verae fidei propugnator», aveva giustamente deciso «se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae».

    In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, affidano un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo.
    Nell'agosto 1412, Carlo resta ferito e deve lasciare il comando al fratello Pandolfo III. Il 24 dicembre 1412 Gregorio XII ritorna a Rimini da Carlo che nel frattempo ha invano tentato di costituire una lega a favore del papa.

    Pandolfo di Brescia
    A Carlo all'inizio di gennaio 1413 i fiorentini spediscono un messo nella vana speranza di poter convincere Gregorio XII a rinunziare al pontificato convalidando così l'elezione di Giovanni XXIII, che il signore di Rimini invece considerava nulla.

    A novembre 1413 Pandolfo III, fratello di Carlo di Rimini e signore di Brescia e Bergamo, si reca a Cremona per rendere omaggio al re d'Ungheria ed a Giovanni XXIII.
    Con il re d'Ungheria, che aveva sottratto alla Serenissima i territori di Treviso, Udine, Cividale e Feltre, trattative erano state intavolate da Malatesta I. Al quale si rivolge Giovanni XXIII allo scopo di attirare dalla propria parte Carlo Malatesti.

    Carlo il mediatore
    Per consolidare la sua posizione, Giovanni XXIII convoca un altro concilio a Roma, invocando la protezione dell'imperatore Sigismondo. Il quale impone come sede la città di Costanza. Dove ritroviamo Carlo Malatesti. E dove Giovanni XXIII è dichiarato decaduto, per cui fugge nella notte fra il 20 ed il 21 aprile 1415.

    Sia a Pisa sia a Costanza, Carlo s'impone come mediatore fermo ma aperto alle altrui ragioni, oltre che sottile analista ed dotto polemista, mettendo in ombra ruolo e figura di Malatesta I. Il quale imita l'atteggiamento di Carlo a favore di Gregorio XII, ed abbandona Giovanni XXIII dimenticando il cospicuo vitalizio da lui ricevuto nel 1410.

    Carlo a Costanza
    Il concilio di Costanza si apre solennemente il 5 novembre 1414. Il 13 maggio 1415 vi si legge la lettera scritta da Carlo a Brescia il 26 aprile come procuratore speciale di Gregorio XII «ad sacram unionem perficendam». Per ringraziamento Gregorio XII il 13 giugno da Montefiore Conca concede un vicariato decennale in alcuni castelli della Chiesa ravennate al fratello di Carlo, Andrea Malatesti.

    Carlo giunge a Costanza sabato 15 giugno. Il 16 si presenta all'imperatore Sigismondo, «significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva».
    Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi ai quali illustra la sua funzione di incaricato «ad emettere semplicissima rinunzia a nome» di Gregorio XII. Aggiunge però «gli intendimenti suoi sulle formule da osservare» con richiami all'«autorità di scritture e Padri».

    L'imperatore d'Oriente
    Il 16 giugno Carlo incontra anche Manuele II imperatore d'Oriente, che nel 1421 diventerà suocero di Cleofe, la sfortunata figlia di Malatesta I di Pesaro.

    Del matrimonio fra Cleofe e Teodoro Paleologo, forse concluso con la morte violenta della giovane, non hanno scritto la storia i contemporanei. A noi non è giunta nessuna narrazione utile a completare gli scarsi documenti sopravvissuti, tra cui quattro lettere della stessa Cleofe ad una sorella. Il velo dell'oblio può non essere casuale. Se ne dovrà riparlare in altra pagina.
    A Costanza si trovano anche il patriarca di Costantinopoli Giovanni Rochetaillée [De Rupescissa], ed un arcidiacono bolognese nominato nel 1413 amministratore loco episcopi della diocesi di Brescia, Pandolfo figlio di Malatesta I e fratello di Cleofe, che nel 1417 sarà presente nel conclave da cui esce eletto Martino V, e che nel 1424 sarà inviato come arcivescovo alla diocesi di Patrasso che dipendeva da Costantinopoli.Brescia, sia ripetuto en passant, era governata da Pandolfo III di Rimini, fratello di Carlo.
    Dall'ottobre 1418 e sino al 1424 il pesarese Pandolfo è vescovo di Coutances in Normandia, nei duri momenti della conquista inglese nel corso della guerra dei cento anni. Il 4 luglio 1415 Carlo legge la bolla di rinuncia di Gregorio XII (scritta a Rimini il 10 marzo), stando seduto al fianco dell'imperatore Sigismondo che presiede la sessione conciliare (XIV) intitolata «Sede Apostolica vacante», per sottolineare la svolta ai fini della chiusura dello scisma.

    Huss bruciato vivo
    Il 6 luglio a Costanza è bruciato vivo Giovanni Huss, seguace di Wycliff e capo di una rivolta autonomistica in Boemia che impensieriva Sigismondo. Huss era stato invitato con un salvacondotto dell'imperatore. Fu attirato nella trappola dai padri conciliari che, non paghi del rogo su cui era stato giustiziato, fecero riesumare le sue ceneri per disperderle al vento come ultimo oltraggio.

    Il 15 luglio all'ormai ex Gregorio XII ritornato cardinal Angelo Correr, è conferita a vita la legazione della Marca d'Ancona. Ed in tal veste egli utilizzerà i buoni uffici e le armi di Carlo per riportare all'ordine la Chiesa di Recanati passata all'antipapa Giovanni XXIII (nel frattempo arrestato, dopo la fuga da Costanza).
    Angelo Correr muore a Recanati il 26 novembre 1417. Nello stesso anno a Costanza il 26 luglio è deposto Benedetto XIII per la seconda volta dopo Pisa. L'11 novembre l'elezione di Martino V, Oddone Colonna, pone fine allo scisma. Il fratello del nuovo papa è il padre di Vittoria Colonna che l'anno precedente è andata sposa a Carlo Malatesti di Pesaro, il fratello di Cleofe.

    Le nozze contro lo scisma
    Non è illogico ipotizzare che il nome della fanciulla sia circolato a Costanza in quel summit politicoreligioso in cui l'unità della Chiesa tanto invocata non poteva limitarsi soltanto alla risoluzione dello scisma d'Occidente ma doveva estendersi anche a quello d'Oriente, più antico, più complesso e, come gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato, meno facile da affrontare e sanare.

    Nella prospettiva di un nuovo quadro dei rapporti tra Roma e Costantinopoli, è progettato come fase preparatoria il doppio matrimonio fra i figli di Manuele e due fanciulle cattoliche, appunto Cleofe di Pesaro e Sofia del Monferrato. Il papa l'8 aprile 1418 autorizza i figli dell'imperatore bizantino a sposare donne cattoliche.

    Martino V e i Malatesti
    Chiuso il concilio di Costanza il 22 aprile 1418, Martino V torna in Italia. Il 12 ottobre è a Milano, verso il 20 va a Brescia da dove parte il 25 diretto a Mantova.

    Per difendere i territori della Chiesa, il papa ha altri contatti con i Malatesti di Rimini e Pesaro. I quali nel frattempo hanno ottenuto la liberazione di Galeazzo figlio di Malatesta I di Pesaro e Carlo di Rimini catturati il 12 luglio 1416 da Braccio di Montone (13681424).
    Per la loro liberazione, la moglie di Carlo, Elisabetta Gonzaga, si era appellata ai padri conciliari. Malatesta I ed il figlio Carlo di Pesaro avevano percorso tutte le possibili strade diplomatiche.
    Per il riscatto dei prigionieri alla fine dovettero intervenire il duca di Urbino, Guidantonio di Montefeltro e Gian Francesco Gonzaga. Guidantonio di Montefeltro era coinvolto dalla moglie Rengarda (sorella di Carlo il prigioniero) e dalla sorella Battista (moglie di Galeazzo, l'altro prigioniero).

    Politici e banditi
    Gian Francesco Gonzaga era non soltanto figlio di Francesco Gonzaga (morto nel 1407 e fratello di Elisabetta moglie di Carlo di Rimini) e di Margherita Malatesti (+1399) sorella di Carlo, ma pure dal 1410 marito di Paola Malatesti sorella di Galeazzo e di Cleofe. Ad abundantiam, si consideri che Anna di Montefeltro, sorella di Battista e di Guidantonio, era la vedova di Galeotto Belfiore di Cervia (+1400), fratello di Carlo di Rimini.

    Le ultime fasi della trattativa fra Braccio ed i Malatesti sono condotte da Pandolfo III di Brescia e Malatesta I di Pesaro. E ad accogliere il marito Galeazzo liberato (aprile 1417) si reca ad Iesi sua moglie Battista.
    Quando Martino V dunque nell'ottobre 1418 passa per Brescia, vi trova Pandolfo III come suo vicario, e quale amministratore loco episcopi della diocesi Pandolfo figlio di Malatesta I e fratello di Cleofe.

    Brescia, addio
    Nella successiva tappa di Mantova dove arriva accompagnato da Pandolfo III, Martino V incontra Carlo di Rimini e la moglie Elisabetta. In giugno il papa ha chiesto a Carlo di appoggiare la lega che aveva formato con Napoli, ed un aiuto finanziario per pagare i soldati dello Stato della Chiesa. Carlo e Malatesta I hanno inviato un modesto contingente di soldati.

    A Mantova il discorso di Martino V tocca una nota dolente per i Malatesti, quella della precarietà dei loro possedimenti in Lombardia. È quasi un annuncio di quanto succederà il 24 febbraio 1421 con la fine della signoria bresciana.
    Nel luglio 1418 un inviato del papa a Brescia ha cercato di indurre Pandolfo III a stipulare la pace con Milano o in alternativa concordare una tregua di sei mesi.
    In ottobre, prima dell'arrivo di Martino V, Pandolfo III ha avvisato Venezia dell'imminente visita del pontefice per convincerlo alla pace con i Visconti. Da Venezia hanno risposto che Milano aveva affidato al papa la questione di Brescia.

    Visconti e Venezia
    La riconciliazione fra Visconti e Malatesti avverrà nel febbraio 1419, con la promessa di Pandolfo III della restituzione di Bergamo e Brescia alla propria morte. Nel novembre 1419 Martino V lo esenta dal censo destinato alla Camera apostolica. L'anno successivo Pandolfo III rompe la tregua, ma assediato e stremato si arrende ricevendo in cambio 34 mila fiorini.

    Nel 1421 inutilmente Pandolfo e Carlo di Rimini, assieme al vescovo di questa città, supplicano Venezia di accogliere la donazione di Brescia ormai indifendibile dal Malatesti, e chiedono la concessione di un prestito di seimila ducati per assoldare a sostegno della loro causa addirittura quel Braccio di Montone che aveva fatto prigioniero Carlo di Rimini e Galeazzo di Pesaro.

    Pandolfo III
    La successiva carriera di Pandolfo III vede la carica di capitano generale della Chiesa (1422) e di Firenze (1423). Il 4 ottobre 1427, egli è colto da malore a Fano dove muore a 57 anni. Si narra che fosse in pellegrinaggio a piedi da Rimini a Loreto, per invocare la guarigione dai malanni che lo affliggevano, aggravati dalle fresche nozze (12 giugno) con una giovane fanciulla, Margherita Anna dei conti Guidi di Poppi.

    Le cronache malatestiane costruiscono la scena della sua scomparsa, con lui «ben confesso e contrito» fra le braccia di frate Iacono della Marcha, noto per le sue predicazioni contro gli hussiti in Ungheria e gli eretici «fraticelli» d'ispirazione francescana nell'Italia centrale.
    Nessuna delle tre spose legittime gli lasciò eredi. Altrettanti figli ebbe dalle sue concubine, Allegra dei Mori (Galeotto Roberto) ed Antonia da Barignano (Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesta Novello). Essi dopo la morte del padre passano sotto la tutela dello zio Carlo di Rimini che li fa legittimare dal papa Martino V nel 1428.

    Pesaro 1418
    Nello stesso anno Galeotto Roberto prende in moglie Margherita d'Este, figlia del signore di Ferrara. Ritorniamo a Mantova nell'ottobre 1418. Qui presso Martino V arriva pure Malatesta I.

    Il papa gli concede la rinnovazione della signoria di Pesaro e la sede vescovile di Coutances per suo figlio l'ecclesiastico Pandolfo, dal 22 marzo cappellano pontificio, con una rendita annuale di ottomila ducati. Poi giungono i coniugi Battista e Galeazzo di Pesaro. Lei, educata alle umane lettere, amate anche da suo padre Antonio conte di Urbino, si segnala per l'orazione gratulatoria che recita a Martino V.
    A fine del novembre 1418 dal papa si reca Gian Francesco Gonzaga che l'11 gennaio successivo è creato duca di Spoleto. Nello stesso gennaio 1419 Martino V riceve anche Taddea di Pesaro, sorella di Cleofe e di Paola Malatesti moglie di Gian Francesco Gonzaga. Martino V parte da Mantova per Roma il 30 gennaio 1419, e lungo il viaggio fa sosta a Ravenna.

    Verso Oriente
    Nello stesso anno il papa nomina Guidantonio di Montefeltro, marito di Rengarda sorella di Carlo di Rimini, capitano generale contro Braccio di Montone. Pacificata la Chiesa d'Occidente, il papa tenta di ripetere l'operazione con quella d'Oriente. Proprio nel 1419 avviene la scelta ufficiale di Cleofe e di Sofia di Monferrato (destinata a Giovanni Paleologo, fratello dello sposo di Cleofe, e futuro basileo di Costantinopoli) che finiscono quali vittime sacrificali sull'altare di una «ragion di Stato» applicata alle questioni religiose.

    Ai Malatesti sembra di aver raggiunto la vetta della loro fama internazionale. Ma nel 1429 con la scomparsa di Carlo di Rimini (14 settembre), sino ad allora gran regista di tutti gli affari del casato, e di Malatesta I di Pesaro (19 dicembre), escono di scena i protagonisti di una stagione difficile ma con momenti indubbiamente esaltanti come la partecipazione al concilio di Costanza.

    Al cap. 2 Il potere delle donne
    Alle origini di Rimini moderna. Indice
    "Malatesti e Rimini", indice pagine
    "Quante storie", indice pagine

    Antonio Montanari




  • Nel 1516 la cattedrale di Santa Colomba, nella cappella della Madonna Incoronata, restituisce il corpo di una donna, avvolto in un prezioso panno. Nel quale si legge soltanto il nome di Federico imperatore ed una data, 1231. La prima notizia sul panno è pubblicata da Raffaele Adimari nel "Sito Riminese" (Brescia, 1616, p. 59). Nella cattedrale, egli precisa, "vi è un drappo antichissimo di seta [...] che si vede esser stato fatto nel Anno M.CCXXXI. il qual fù trouato in un'arca di Marmo [...] il qual dicono, che fù posto in quel luoco da Federico II. Imperatore, inuolgendoli dentro una sua Figliuola morta".
    Nel "Raccolto istorico" di Cesare Clementini (Rimini, II, 1627, p. 664), troviamo più particolari: "fabbricandosi nella Cattedrale la Capella chiamata l'Incoronata, hora di San Gioseffo, [...] dentro l'antico muro della Chiesa, fu trovato una Donna morta, e avolta in un regio panno di seta rossa, lungo braccia sei, ripieno di Rosoni d'oro, e di Leoni, fatti a basso rilievo parimente d'oro, che sostengono un gran fiore, attorniato con certi circoli, in mezzo a quali stanno alcune lettere, che per esserne una parte corrosa, altro non si legge, che FRIDERICUS Imp. Aug. MCCXXXI".

    La "morta Donna"
    La pagina di Clementini prosegue con l'ipotesi circa l'identità della "morta Donna". Secondo alcuni è una Baronessa, secondo altri una Nipote di Federico II. Adimari, come abbiamo visto, invece parla di una Figliuola dell'imperatore: la sua fonte è un trattato sul vermicello della seta (Rimini, 1581) composto da Giovanni Andrea Corsucci da Sassocorvaro, già rettore di San Giorgio Antico e Maestro comunale. Corsucci annota pure che ai suoi tempi l'antico panno funebre era ancora fresco e bello, e che se ne serviva il Capitolo della Cattedrale per il cataletto nei mortorii di Vescovi e Canonici, nel portarli alla sepoltura.
    Chi può essere la Donna morta? Il padre di Federico II, Enrico VI, ha un fratello Ottone II che da Margherita di Blois genera Beatrice di Borgogna, moglie di Ottone il Grande. Questa Beatrice scompare proprio nel 1231, il 7 maggio, l'anno del funerale riminese. Ma si trova poi che essa è sepolta dal dicembre dello stesso 1231 nell'abbazia di Langheim a Bamberg. Quindi sarebbe da escludere che sia suo il corpo ritrovato nel 1516.
    Beatrice era un personaggio troppo importante per essere eventualmente lasciata lontana dalla propria patria. La presenza di Beatrice in Romagna non sarebbe strana. Basti ricordare quanto scrive Carlo Sigonio (1520/23-1584) nel XVII libro della sua storia del Regno d'Italia (1591): Federico II chiamò dalla Germania in Romagna il figlio Enrico ed i suoi principi. Tra costoro c'è pure il marito di Beatrice, Ottone I d'Andechs e di Merania.

    Feste per tutti
    Sigonio aggiunge: Federico II, per non intimorire la gente con parate militari anzi per allietarla e divertirla, organizza una sfilata di animali mai visti o poco noti da queste parti. Sono appunto gli elefanti, leoni, leopardi, cammelli ed uccelli rapaci che per molti giorni offrono meraviglioso spettacolo e che finiscono citati nella lapide ritrovata a San Martino in Venti (1973-74), come ha raccontato Anna Falcioni in un testo edito da Bruno Ghigi nel 1997.
    Sul Ponte (4.5.2008) lo ha presentato Angela De Rubeis: "Mentre si lavorava all'abbattimento di un circolo ACLI che nel dopoguerra era stato costruito con le macerie lasciate sul campo dai tanti bombardamenti, si scopre quella lapide che il parroco don Lazzaro Raschi conserva indagando sulla sua antica collocazione”. Trova così che prima degli anni '40 essa "era posta, e ammirata dai fedeli, sotto l'altare maggiore" della sua chiesa, in quanto considerata una pietra sacra.
    Nell'articolo si ricorda la serie degli studi per "leggere" quella pietra, iniziati da Augusto Campana, proseguiti da Gina Fasoli e completati da Aurelio Roncaglia (1982) con questa traduzione: "Nell'anno del Signore 1231, sotto il papato di Gregorio e l'impero di Federico [...] al tempo in cui l'imperatore Federico venne a Rimini e condusse con sé elefanti, cammelli e altri mirabili animali, quest'opera fu fatta e completata".

    Mainardino, la fonte
    Il passo di Carlo Sigonio fu riproposto da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) negli "Annali" (VII, Napoli, 1773, p. 209) senza la precisazione della fonte: "l'avrà preso da qualche vecchia Storia. Cioè, che Federigo diede un singolare spasso a i popoli in Ravenna, coll'aver condotto seco un liofante, de i leoni, de' leopardi, de' cammelli, e degli uccelli stranieri, che siccome cose rare in Italia, furono lo stupore di tutti".
    La fonte di Sigonio è Mainardino Imolese, come si legge in una nota dei "Monumenta Germaniae Historica" (tomo XXXII, dedicato alle cronache di Salimbene de Adam [1221-1287], 1905-1913, p. 93). La testimonianza di Mainardino è relativa proprio a Ravenna tra 1231 e 1232. Mainardino scrive che vide l'imperatore condurre seco "molti animali insueti in Italia: elephanti, dromedarii, cameli, panthere, gerfalchi, leoni, leopardi e falconi bianchi e alochi barbati".
    Mainardino è stato definito "uno storico dimenticato del tempo di Federico II" (P. Scheffer-Boichorst, "Zur Geschichte des XII. und XIII. Jahrhunderts Diplomatische Forschungen", Berlino, 1897, p. 275). Un'altra citazione da Mainardino, è in un testo di Pandolfo Collenuccio (1444-1504) di Pesaro, "Compendio delle historie del regni di Napoli", Venezia, 1541 (quindi anteriore a Sigonio), p. 80bis: Federico nel novembre 1232 arriva a Ravenna "con grandissima comitiua, e magnificentia, e tra le altre cose menò con sé molti animali insueti in Italia", di cui fa l'elenco che abbiamo appena letto, "e molte altre cose degne di admiratione, e di spettaculo". Nello studio di Scheffer-Boichorst si legge infine (p. 282) che spesso Collenuccio, nell'enumerazione degli animali, coincide con Flavio Biondo.

    Flavio Biondo
    Ecco che cosa si legge in Flavio Biondo: "Mentre che era Federigo in Vittoria [Sicilia], gli uennero ambasciatori di Aphrica, di Asia, e de lo Egitto; e portarongli a donare Elephanti, Pantere, Dromedarij, Pardi, Orsi bianchi, Leoni, Linci, e Gofi barbati: egli si edificò qui Federigo bellissimi giardini, e serragli; dove teneua bellissime fanciulle; e lascivi garzoni" (Le Historie del Biondo..., Ridotte in Compendio da Papa Pio [II]; e tradotte per Lucio Fauno, Venezia, 1543, p. 172 retro).
    Su Mainardino, scrive Augusto Torre (Enciclopedia Dantesca, Roma, 1970): "Vescovo di Imola, della famiglia Aldigeri di Ferrara (dalla quale si pensa derivasse la moglie di Cacciaguida), figlio e fratello di due giudici famosi, fu uno dei più insigni personaggi del suo tempo. Suddiacono e preposito della cattedrale di Ferrara sin dal 1195, il 16 agosto 1207 era già vescovo di Imola. La sua attività si svolse sia nel campo spirituale come in quello temporale, e ne rivelò le spiccate capacità politiche. Fu podestà di Imola (1209-10 e 1221-22), che difese saldamente contro i ripetuti attacchi di Bologna e di Faenza. Per molto tempo lo troviamo vicino a Federico II e ai suoi legati; fu anche vicario imperiale e in questa qualità risolse con grande energia le contese fra Genova e Alba (1226), ma dal 1233 si tenne lontano dalla politica attiva. Il 9 agosto 1249 troviamo già eletto il suo successore; ignoriamo l'anno della sua morte, avvenuta dopo quella data. Scrisse una storia di Imola e una biografia di Federico II, entrambe andate perdute". Nella "Storia dell'Emilia Romagna" (I, 1976, p. 685) Augusto Vasina sottolinea: Mainardinus ebbe una "prepotente vocazione politica filoimperiale".
    Nel marzo 1226 da Rimini Federico II ha promulgato la sua Bolla d'oro per confermare la donazione della Prussia all'Ordine Teutonico. La ricorda una lapide (1994) in piazza Cavour, proposta dallo storico Amedeo Montemaggi .



    Alla versione precedente.
    Al cap. 4. Se si cancella il passato.
    All'indice di "Rimini moderna"
    All'indice di "Rimini moderna" Ponte

    Antonio Montanari

  • Nel "Sito riminese" di Raffaele Adimari (1616, II, pp. 59-60) si legge: cacciato l'ultimo dei Malatesti il 17 giugno 1528, l'archivio e la cancelleria della nostra città (posti in San Francesco) subiscono un assalto.

    L'archivio brucia
    Con lo stesso furore con cui s'era cercato di danneggiare il Tempio difeso dalla nobiltà, "la plebe, che sempre desidera cose nuove" asporta "dall'archivio, e Cancellarie, libri, e scritture" bruciati sulla piazza della fontana. Una gran parte di quei documenti è salvata "dal furore plebeo" e posta "in due stancie del Monastero di San Francesco, sotto buone chiavi".
    La vicenda ha un'appendice: "andando la cosa alla longa, alcuni Frati ansiosi di vedere, che cosa fosse là dentro, scopersero il tetto per entrar dentro dette stancie, e tolsero molte delle dette scritture, le quali furono conosciute per la Città: al fin poi quando se determinò di liberar dette stancie, poco n'erano rimase, le quali restorono in poter delli detti Rev. Padri di quel tempo, alla venuta poi della F. M. di Papa Clemente Ottavo, havendone notitia non sò come le fece levare impiendone due sacchi e mandolle a Roma […] Et perciò la nostra Città, per tal causa fù priva di molte scritture importanti, e honorate […]".
    Adimari parla di Clemente VIII (1592-1605). Si tratta invece di Clemente VII (1523-34), come si legge nella cronaca di padre Alessandro da Rimini (1532), pubblicata da padre Gregorio Giovanardi (1915-16, 1921). Clemente VIII passò per Rimini nel 1598.

    Altre fiamme
    Dalla cronaca del 1532 ricaviamo due altre notizie. Al tempo di papa Paolo II (1464-71) va a fuoco la sagrestia della chiesa di San Francesco, con perdita di manoscritti "antichissimi ed importantissimi". Questo incendio della sagrestia forse va anticipato all'età di Pio II, a quel 1462 che vede Sigismondo Pandolfo scomunicato e colpito da interdetto il 27 aprile con la bolla papale "Discipula veritatis". Il giorno prima, a Roma, tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono stati bruciati in altrettanti diversi punti della città (F. Arduini). Il 1462 è pure l'anno in cui Sigismondo, per la fabbrica del Tempio, ottiene un prestito dall'ebreo fanese Abramo di Manuello (A. Vasina).
    L'archivio malatestiano riminese tra 1511 e 1520, per iniziativa pontificia, è spogliato delle carte superstiti a quelle fiamme. Francesco Gaetano Battaglini nelle sue "Memorie" di storia cittadina (1789, p. 44) osserva che già dall'età comunale, "apud locum fratrum minorum" (cioè nello stesso convento francescano) si trovava l'archivio comunale. Il posto dell'archivio è definito a metà del XV sec. come "sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci".

    Il caso di Pesaro
    Le fiamme riminesi non sono però le uniche che cancellano le storie del tempo. A Pesaro il 15 dicembre 1514 vanno a fuoco la biblioteca ed i documenti della famiglia Malatesti, dopo che nel 1432 e nel 1503 un "arrabbiato popolo" vi aveva distrutto le scritture pubbliche. Ha osservato un eminente storico della filosofia, Paolo Rossi: "… ci sono molti modi per indurre alla dimenticanza e molte ragioni per le quali s'intende provocarla. Il 'cancellare' […] ha anche a che fare con nascondere, occultare, depistare, confondere le tracce, allontanare dalla verità, distruggere la verità". Nelle fiamme di Pesaro scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente come Cleofe Malatesti, la cui morte (1433) è forse violenta. Cleofe fu scelta dal papa con soddisfazione del suo casato per le nozze con Teodoro Paleologo, despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II. Per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio.
    La notizia dei disordini del 1528, nella versione di Adimari, è riportata da Carlo Tonini nel suo "Compendio" (1896, II, pp. 71-72) con un'annotazione: "donde l'Adimari tutto ciò attingesse non sappiamo". Lo stesso Raffaele Adimari dichiara la sua fonte: sono le pagine "sparse" composte dal dottor don Adimario Adimari, rettore di Sant'Agnese e figlio del cavalier Nicolò. Nell'introduzione Raffaele non precisa quale sia la parentela con il sacerdote, ma altrove lascia un importante indizio. Per la congiura del 1498 contro Pandolfaccio, scrive che essa fu organizzata nella casa dei suoi "antecessori", cioè il cavalier Nicolò e "Adimario suo Padre" (II, p. 54). Il Nicolò padre del prete-scrittore Adimario, morto nel 1565, come apprendiamo dallo storico Gaetano Urbani ("Raccolta di scrittori e prelati riminesi"), ebbe altri quattro figli: Tiberio e Cesare (entrambi senza prole), Antonio ed Ottaviano.
    Il nostro Raffaele è quindi figlio di uno di questi ultimi due. Ed il prete-scrittore è uno zio (e non prozio come talora si legge) di Raffaele. Don Adimario porta il nome del capo dei cospiratori del 1498, Adimario Adimari, che non riuscirono a cacciare Pandolfaccio, salvato dalla plebe. Da quel momento, immaginiamo, in casa sua non piaceva tanto parlare di popolo urlante. Ed il Raffaele scrittore osserva che esso "sempre desidera cose nuove".

    Il liberatore
    Tra le "cose nuove", non mettiamo quanto racconta Clementini sul 1528. Partiti i Malatesti, durante la permanenza dei soldati che ristabilivano il dominio di Santa Chiesa, la città in tre giorni "tre muti sacchi provò", ma senza lamentarsene essendo troppo felice del cambio di governo. Tutti allegramente festeggiano l'Arcivescovo Sipontino, presidente di Romagna, "liberatore di questa Patria", con mille componimenti poetici. Il Sipontino, futuro legato della Provincia di Romagna (1540) e di Bologna (1548), nonché dal 1550 al 1555 papa Giulio III, è Giovanni Maria Ciocchi dal Monte. A Siponto (Manfredonia) il suo predecessore era stato lo zio, Antonio Maria. Giovanni fu "buono letterato, e nel maneggiar le cose delle Repubbliche molto destro", come scrive fra Leandro Alberti nella celebre "Descrittione di tutta Italia" (Bologna, 1550).
    Luigi Tonini osserva che le truppe dei soldati liberatori assommavano a soli tremila uomini, "stimandosi che la maggior parte del popolo si solleverebbe contro i tiranni". Clementini classifica gli eventi come frutto di "istigazione diabolica" (II, p. 654) oppure quale ingiusta reazione al governo liberale della Chiesa (p. 641): i Riminesi "non per questo furono esentati dalle turbolenze, e travagli, e spese", e per alcuni anni "vissero forse più travagliati, che prima". Anche questo è un modo (elegante) di cancellare la Storia, raccontando fatti di cui non si cercano le cause. La Storia si cancella anche inventandola, come fa Carlo Tonini con il "tumulto per cagione degli Ebrei" (1515).

    Popolo pazzo
    Sia Adimari sia Clementini sembrano riprendere Guicciardini (presidente di Romagna tra 1524 e 1526), nei cui "Ricordi" (Parigi, 1576) si trova la celebre sentenza per cui "Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori…". Il meglio della Politica è soltanto in un governo di pochi privilegiati. A questa categoria Clementini appartiene per il suo albero genealogico. Sua madre Ginevra proviene dalla famiglia Tingoli presente nelle storie malatestiane del sec. XV, come documentato da Anita Delvecchio. Nel 1502 Bernardina Tingoli sposa un Malatesti del ramo Tramontani, Giovan Galeotto. Un fratello del primo Tramontano sposa Antonia Almerici che dà il nome ad altro ramo. Figlio di Antonia è Almerico, padre di Raimondo Malatesti ucciso nel 1492 dai figli del proprio fratello Galeotto Lodovico. In quel delitto Clementini vide l'origine di tutti i mali che poi affliggono Rimini, "il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori" Malatesti.
    La plebe ribelle di cui scrivono Adimari e Clementini, è un fantasma agitato dai potenti locali per difendere i loro privilegi e spaventare Roma.
    (4. Continua)

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    Antonio Montanari


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