• Il caso di Pandolfo II Malatesti è illuminante. Lo fanno nascere molti anni dopo la sua vera venuta al mondo, cioè nel 1325 e poi quando ha sui dieci anni (1335) lo presentano miracolosamente al comando di armati vittoriosi che gli garantiscono la carica di podestà di Fano.
    Occorrerebbe un altro Freud per descrivere la psico-patologia degli storici che non hanno il buon senso normale in un lettore qualsiasi di libri. In mancanza di ciò, basterebbe a quegli eccelsi studiosi di mettersi a contare con le dita delle mani. Per constatare che nove o dieci anni sono pochi per guidare una truppa, anche se in quei tempi (tanto rimpianti da chi, ignorando tutto della Storia, li crede ispirati alla grande morale dell'Occidente), essi bastavano per celebrare matrimoni imposti soltanto dalla ragion politica. 
    Uno studioso italiano nel 1907 ha posto il problema della nascita di Pandolfo II, anticipandola dal 1325 al periodo 1310-1315. L'unico accenno a questo studioso pare essere quello presente in un saggio apparso a Stoccolma nel 2004.

    Pandolfo II scompare nel 1373. Ma anche su questa data c'è stato un equivoco, per fortuna meno diffuso di quello relativo alla nascita.
    Prendiamo una vecchia edizione delle lettere latine di Francesco Petrarca, quella curata da Giuseppe Fracassetti nel 1863 (vol. III, p. 373). L'epistola n. 27 (del 28 agosto 1367) delle cosiddette "Variae", diretta a Pietro di Bologna, dice che al poeta le cose stavano andando alquanto bene quando fu rattristato da due notizie, la partenza di Pandolfo Malatesti e la morte di Giovanni Pepoli.
    Petrarca da intellettuale incallito e forse soltanto per passare il tempo, fa lo spiritoso come ogni intellettuale incallito crede di essere autorizzato ad apparire in ogni circostanza.
    Infatti scrive (chiediamo scusa per la citazione latina che può provocare orticaria in chi non ci ama): "Omnia enim satis prospere ibant, nisi e duobus oculis meis alter abiisset, alter obiisset: Dominum Pandulphum loquor, ed Dominum Iohannem De Pepolis...".
    I due verbi usati da Petrarca (ecco la spiritosaggine da intellettuale), sono uguali tranne che nella lettera iniziale. "Abire" significa partire, "obire" invece tirar le cuoia.

    Nel riassunto che offre (in latino) sotto il titolo della lettera 27, Fracassetti scrive erroneamente "De obitu Pandulphi Malatestae et Iohannis Pepoli", ovvero "Della morte di Pandolfo e di Giovanni Pepoli". Quando traduce questa lettera 27 in italiano (vol. V, p. 310), Fracassetti si corregge.
    Nel sommario infatti mette: "Della partenza di Pandolfo Malatesta, e della morte di Giovanni Pepoli". La traduzione di Fracassetti del passo latino che abbiamo riportato, è la seguente: "Tutto mi sarebbe andato a seconda, se non fossero venute a turbarmi una partenza e una morte...".
    Tutto risolto? No, perché il buon Fracassetti nell'edizione italiana (quinto ed ultimo volume) delle lettere petrarchesche, inserisce un indice in cui c'è ovviamente tutto su tutti, e di Pandolfo II (p. 521) si dà la notizia della morte contenuta appunto nella lettera 27 delle "Variae".

    Un altro errore malatestiano di Fracassetti riguarda la lettera 18 delle "Variae" che nel testo latino (III, 341) è detta indirizzata "Ad ignotos". L'errore è ripetuto in quello italiano (V, p. 263).
    Edizioni più recenti invece riportano quella epistola (del 1364) con i nomi esatto dei destinatari, Pandolfo II e Galeotto detto Malatesta Ungaro perché nel 1347 nominato cavaliere dal re d'Ungheria. La lettera è importante perché esprime il cordoglio di Petrarca ai due fratelli per la scomparsa del loro padre, Malatesta Antico detto "Guastafamiglia". Essa è definita un grave danno anche per l'Italia. Di lui, aggiunge il poeta, resta il ricordo lieto di una vita gloriosa, e soprattutto più famosa di tutti gli altri contemporanei.

    Il tono di affettuosa partecipazione al dolore di Pandolfo II per la morte del genitore, conferma che sia in Petrarca sia nel politico e condottiero non restano tracce di quei contrasti che oppongono il Malatesti ai Visconti e costringono il poeta a scrivere male parole contro l'amico in nome dei propri datori di lavoro, come si è visto in una pagina precedente.
    Riposi in pace, Malatesta Antico, e la sua ombra ci perdoni se adesso parliamo della sua consorte che soltanto confuse cronache locali (detto fuori dai denti, il solito Clementini, come malignerebbe Carlo Tonini), identificano in Costanza Ondedei da Saludecio.

    Fonti lontane da Rimini parlano invece di un'altra Costanza, della casa d'Este, figlia di Azzo VIII e della sua seconda moglie, Beatrice d'Anjou, figlia di Carlo II re di Sicilia.
    La prima moglie di Azzo VIII è stata Giovanna Orsini nata da Bertoldo conte di Romagna nel 1278, il cui padre è Gentile I Orsini fratello di Giovanni Gaetano divenuto papa Niccolò III. Bertoldo conte di Romagna ha un fratello, Orso Orsini che genera un altro Bertoldo (+1344) padre di quella Paola Orsini (+1371) che diventa moglie di Pandolfo II, madre di Malatesta dei Sonetti e nonna di Cleofe.

    Le notizie delle nozze di questi signori medievali, non interessano quale motivo di pettegolezzo mondano o sessuale in stile dannunziano. Servono a delineare un contesto politico, in cui ogni matrimonio corrisponde a precisi disegni di strategia dinastica.
    Clementini ha confuso le notizie sulle Costanze che appaiono in casa d'Este e in quella dei Malatesti.
    Per non farla lunga, c'è la Costanza (I) che sposa l'Antico, e c'è la Costanza (II) che sposa in seconde nozze il figlio dell'Antico, Malatesta Ungaro, e che era nata da Obizzo III d'Este e dalla sua seconda moglie (1347) Filippa Ariosti. Per non restare nel vago, e quindi prevenire le altrui maldicenze, precisiamo: Obizzo III, signore di Modena e Ferrara, è figlio di Aldobrandino II fratello di Azzo VIII padre della Costanza (I) che sposa l'Antico.

    Non dimentichiamoci di Filippa Ariosti: pare che le nozze della nobile bolognese con Obizzo III siano avvenute soltanto in "articulo mortis", dopo che aveva dato al proprio compagno undici o più figlioli lungo un ventennio.
    Dalla sua famiglia, trapiantata da Bologna a Ferrara, germogliano "uomini illustri assai in diverse classi", come quel Ludovico Ariosto poeta, secondo quanto si legge nelle "Memorie per la storia di Ferrara" di A. Frizzi (1850, p. 313).

    Una sorella di Pandolfo II, Maxia o Masia diventa moglie di Opicino Pepoli, figlio di Giacomo il quale era fratello di quel Giovanni che abbiamo incontrato nella lettera di Petrarca del 1367.
    Giovanni e Giacomo dal 1347 al 1350 governano la città di Bologna, dopo la scomparsa del padre Taddeo. (Taddeo Pepoli è il primo signore di Bologna, nel 1337: "dottore in legge ed erede della grande fortuna immobiliare ereditata dal padre esercitando l'attività bancaria", proviene "da una famiglia borghese, che per generazioni aveva esercitato l'attività di beccaio passando poi a quella di notaio", G. Fasoli.)

    Il 1350 è l'anno in cui papa Clemente VI nomina conte di Romagna un provenzale che ha sposato una sua parente, Astorgio di Durfort da Limonges.
    Astorgio è considerato abile soltanto a ordire tradimenti, lasciar in pace i nemici e rivolgere le armi contro gli amici. Arresta Giovanni Pepoli quando si reca al suo campo per conferire con lui, la stessa sorte tocca a Giacomo.
    Per liberarli, Astorgio chiede un riscatto impossibile, 80 mila fiorini. Per averli, il 16 ottobre 1350 i Pepoli vendono Bologna all'arcivescovo Giovanni Visconti signore di Milano (per 250 mila fiorini). Astorgio si serve di quei soldi per calmare le proprie truppe che si erano ammutinate perché malpagate.

    La prima moglie di Obizzo III d'Este è Giacoma Pepoli (1317), sorella del Taddeo appena ricordato. Il loro padre si chiama Romeo Pepoli, ed è capo della cosiddetta protosignoria di Bologna.
    Da Obizzo e Giacoma nasce Violante che nel 1345 sposa Malatesta Ungaro di cui è la prima moglie. La seconda (1362) è la Costanza (II) che era pure cognata del marito, essendo sorellastra di Violante d'Este. 
    Circa Romeo Pepoli, lo storico tedesco Heinrich Leo osserva che se con i concittadini si comporta come un "guelfo oltranzista", invece si presenta "spregiudicato in politica estera tanto da favorire il matrimonio della figlia Giacoma con Obizzo III d'Este".
    Queste nozze sono un evento con valore eminentemente politico sia per i Pepoli sia per gli Este. A Bologna già nel 1316 ci sono state acque agitate a danno dei guelfi, mentre si stava formando un nuovo partito ghibellino. Ne era diventato capo appunto Romeo Pepoli, in concomitanza con il matrimonio fra sua figlia Giacoma e Obizzo III, leggiamo ancora in Heinrich Leo. Il quale aggiunge: le nozze sembrano favorire soprattutto gli Este.
    Essi nel 1317, disponendo di grandi risorse in denaro e forti di potenti alleanze, riescono a spingere una parte della borghesia ferrarese a rivoltarsi in loro favore contro la guarnigione francese, approfittando della momentanea partenza del governatore inviato in città da re Roberto di Napoli. 

    Dall'Ungaro e Violante nasce un'altra Costanza (III) che chiameremo "la peccatrice", in riferimento alla leggenda (fonte, il solito Clementini) che la vuole donna dalla "vita disonesta", e nel 1378 vittima di un delitto d'onore pensato in famiglia, mentre giaceva con un nobile tedesco.
    Costanza "peccatrice" nel 1363 sposa Ugo, il fratellastro della propria madre Violante, essendo figlio naturale di Obizzo III (+1352) signore di Ferrara dal 1329 assieme ai fratelli Rinaldo (+1335) e Niccolò I (+1344).
    La memoria di Ugo è stata tramandata anche da Petrarca in una sua lettera al di lui fratello Nicola d'Este, dove ne parla dopo la scomparsa, avvenuta il 2 agosto 1370 (Sen., XIII, 1, 5.8.1370): «Ahi! che perdemmo, [...] un che m'era per dignità signore indulgentissimo, e per amore figliuolo obbediente, il quale non per mio merito alcuno, ma per sola nobiltà dell'animo suo aveva, siccome tu sai, cominciato non tanto ad amarmi quanto a venerarmi, per guisa che più della compiacenza era in me grande la meraviglia di un affetto e di una reverenza tanto sproporzionata alla diversità degli anni nostri e della nostra condizione».

    Ferrara nel 1208 è il primo esempio di città libera in Italia, con l'elezione di Azzo VI detto Azzolino a suo signore perpetuo. Azzo ne era stato podestà (1196), ed aveva lottato a lungo (dal 1205) contro il ghibellino Salinguerra Torelli.
    Ferrara nel 1309 è ritornata alla Chiesa che l'ha ceduta in vicariato a Roberto d'Angiò re di Napoli, figlio di Carlo II e quindi fratello di Beatrice, seconda moglie di Azzo VIII.

    Gli Angioini in questi anni hanno una "presenza costantemente ambigua" nella nostra regione: al servizio della Curia, essi spesso lavorano contro i papi per sete di potere (A. Vasina). Gli Este nel 1327 sono nominati vicari imperiali di Ferrara, nel 1329 vicari apostolici. Nel 1331 essi sono infeudati dalla Chiesa. Bologna nel 1331, con il beneplacito del legato, passa in mano a Giovanni re di Boemia, padre di Carlo IV l'imperatore del tempo del nostro Pandolfo II Malatesti.

    Un'annotazione finale, in base al principio che nella Storia al "momento certosino della competenza" deve seguire "quello della verifica pubblica" (Alberto Melloni). Certi documenti del XII sec. sono stati detti da C. Curradi (1990) non autentici, senza produrre prove, ma parlando vagamente di "critica storica" avversa. La lapide (1490) della malatestiana riminese in San Francesco non ha “sum tua cura”, ma “summa tua cura”. Sulla venuta di Ciriaco d'Ancona a Rimini si accredita (1998) il 1435 e dintorni, quando fonti autorevoli dicono 1441 o 1443. Per altri testi del 1700 si scrive (2010) che non si sa dove siano: invece lo si sa, ed in molti. Basta "indagare".

    © by Antonio Montanari

    Aggiornamento della pagina, 9.11.2010.


  • La gloria del ricordo, Pandolfo II Malatesti la riceve dai biografi di Francesco Petrarca, nelle pagine che narrano la partecipazione del poeta alle lotte politiche del suo tempo. Pandolfo non brilla mai di luce propria, ma riceve timidi e confusi sprazzi di quella che illumina i racconti sulla vita del cantore di Laura. Seguendo Petrarca incontriamo Pandolfo ed altri personaggi del loro mondo, come il nobile francese Sagremor de Pommier che lavora a Milano quale agente diplomatico e fidato corriere dei Visconti. Nel 1356 lo troviamo in viaggio verso Basilea assieme a Petrarca, in missione ufficiale presso l'imperatore Carlo IV. Negli stessi momenti Pandolfo è al servizio dei Visconti quale comandante delle loro truppe.
    Carlo IV era giunto in Italia nell'ottobre 1354 diretto a Roma per ricevere la corona imperiale. La Chiesa lo aveva appoggiato sin dal 1346 quando era soltanto re di Lussemburgo e viveva l'imperatore Ludovico il Bavaro. Alla cui scomparsa (1347) Carlo ne prende il posto. Carlo è un esperto giurista: metà tedesco e metà slavo (dal lato materno), è stato educato in Francia. Molto abile a fare i propri interessi, emana la "Bolla d'oro" (1356) che lo trasforma in un imperatore senza potere, in balìa dei suoi sette elettori: gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, i principi di Palatinato, Sassonia e Brandeburgo ed il re di Boemia. Può controllare cancelleria e tesoro del regno, ma la politica la fanno gli altri (G. Sodano).
    Appena eletto re di Germania grazie all'intervento di Clemente VI (1346), Carlo giura che una volta proclamato imperatore, rispetterà i dominii della Chiesa in Italia: per questo lo chiamano "imperatore dei preti" (U. Dotti). Papa Clemente diffida, temendo che Carlo usurpi i diritti della Chiesa e non vuole incoronarlo. Le cose cambiano con l'elezione di Innocenzo VI (1352).
    Il 1356 è un anno particolare per la Francia, messa in ginocchio a Poitier dal re inglese Edoardo III che nel 1337 ha iniziato la guerra detta dei cento anni, sbarcando in quelle terre sul cui trono vantava diritti per via della madre Isabella, figlia di Filippo IV il Bello. Nel 1358 l'Inghilterra ottiene quasi un terzo della Francia per cui Edoardo rinunzia alle vecchie rivendicazioni. La Francia ne esce con le ossa rotte anche in rapporto al papato, su cui non può più esercitare alcun predominio (A. Saitta). Mentre l'Inghilterra vuol tenere a freno la Chiesa. La quale reagisce inviando da Avignone in Italia (1353) il cardinal Egidio Albornoz.
    Tra le lotte armate continentali, nel 1356 si svolge la missione di Sagremor e Petrarca a Basilea alla ricerca dell'imperatore. Lo attendono invano per un mese (Petrarca incontra vecchi amici del tempo degli studi di Diritto a Bologna), poi si avviano verso Praga, dove Carlo IV vive felice. Non si illude (ha osservato P. Lafue) sul potere della sua corona, per un sano realismo fatto di conoscenza della Storia. E soprattutto crede nel potere del denaro, non ritirandosi davanti ad imprese politicamente disoneste per intascare somme di denaro, come fa in l'Italia, e come farebbe "un qualsiasi capobanda mercenario" (C. Vivanti). L. A. Muratori è sferzante: Carlo IV attendeva più a far denaro che a guarir le piaghe della penisola. Indro Montanelli lo battezza "esoso agente di un fisco arbitrario". Cesare Cantù lo definisce un fantoccio a cui i letterati prodigavano latine adulazioni, i giuristi rammentavano i diritti imperiali ed i tiranni volentieri si rivolgevano invocandolo come giudice nei litigi politici.
    L'itinerario per Praga, durato tre settimane, è raccontato dallo stesso Petrarca quale viaggio da incubo, con una scorta armata ed in continuo pericolo per gli attacchi dei predoni. L'unica soddisfazione per Petrarca è di aver conosciuto l'imperatrice Anna Schweidnitz (terza moglie di Carlo), la sola donna a cui (congratulandosi per aver generato una femmina) indirizza una lettera (1358), considerata "un vero trattatello in lode delle donne famose" (Dotti).
    All'imperatore Petrarca, con la testa piena delle idee politiche astratte degli intellettuali, si è rivolto il 24 febbraio 1351 invocandone la discesa in Italia, per darle una regolata. Nella sua lettera, fa parlare la Roma stracciona dei suoi giorni, un tempo venerabile matrona. Petrarca guarda alle glorie del passato, forse più presenti nelle pagine degli scrittori che nella vita della gente comune di tutti i giorni. Cantù liquida la cotta di Petrarca verso Carlo IV con una brutale battuta: in Avignone l'imperatore aveva voluto vedere la sua Laura, e baciarla per ammirazione. Carlo IV gli risponde che non c'erano più i Latini di una volta: hanno perso la libertà avendo sposato la servitù.
    Nel 1355 Carlo riceve la doppia incoronazione, come re d'Italia a Milano il 4 gennaio e come imperatore in aprile a Roma, poi a metà giugno scappa dall'Italia in Boemia per non disturbare la Chiesa. Petrarca gli scrive "un'acerba lettera di rimproveri" (Dotti), dichiarando di censurarsi per non dire tutto quello che pensava di lui ("non audeo clare tibi dicere..."). "Quel sovrano di sangue di ghiaccio e di cervello lucido sapeva benissimo che il 'giardino dell'impero' era un nido di vipere" (Montanelli).
    Sagremor ha un progetto in testa per il proprio futuro, passare al servizio dell'imperatore. A cui fa scrivere una lettera di raccomandazione da Petrarca che lo presenta come ottimo soldato, gran banditore delle gesta di Carlo e profondo conoscitore delle cose segrete del poeta. Poi Sagremor cambia idea, forse constatando che la vita politica non è tutta rose e fiori. Qualche anno dopo (1367 o 1368) scrive a Petrarca di esser diventato monaco cistercense.
    A Praga, l'anno successivo rispetto a Petrarca e Sagremor, cioè nel gennaio 1357, va anche Pandolfo II quando fugge da Milano dopo la disavventura con Bernabò Visconti che lo fa imprigionare, e dopo la liberazione da parte di Galeazzo Visconti. A febbraio lo insegue Sagremor che poi ritorna a Milano, a rapporto dai Visconti con la facile notizia che Pandolfo con tutti stava sparlando di loro. Sagremor vola di nuovo a Praga dove scopre che il Malatesti si è diretto a Londra. Qui Sagremor lo raggiunge per dargli una lezione: lo sfida a duello. Pandolfo fa finta di nulla e Sagremor va a lamentarsi con il re Edoardo III. Il quale mette per iscritto quello che Sagremor gli ha riferito, per difendere l'onore del messo francese dei Visconti e denigrare l'italiano Malatesti.
    Ma il Malatesti non viaggia per conto proprio a far la malalingua per vendetta personale: è un uomo politico la cui famiglia ha appena fatto pace con la Chiesa (8 luglio 1355), soddisfatta anche per gli insuccessi viscontei del 1356 (perdita di Bologna, Pavia, Novara, Genova, Asti e d'altri possedimenti piemontesi). L'accordo con i Malatesti è per la Chiesa una prova generale di quanto poi fa con l'intero territorio del suo Stato (E. Cuozzo).
    Per questo fatto la missione europea di Pandolfo appare come parte di un progetto ecclesiastico che doveva tener d'occhio il contesto continentale, e che culmina nello stesso 1357 con le "Costituzioni" promulgate da Albornoz per sistemare una volta per tutte le questioni politiche nelle terre dello Stato della Chiesa, con un stabile ordinamento giuridico ed amministrativo.
    L'anno dopo i Visconti fanno pace con la lega che li aveva combattuti. Cantù narra che quando il papa gli chiede conto del denaro speso nella campagna durata 14 anni per domare i signori dello Stato ecclesiastico, Albornoz gli manda un carro con le chiavi di tutte le città assoggettate. Di tasca propria Albornoz lascia un'eredità per fondare a Bologna il collegio spagnolo, tuttora esistente.
    Sull'azione politica di Albornoz restano fondamentali le pagine di Gina Fasoli. Alternando trattative diplomatiche a vigorose azioni militari, Albornoz crea "un sistema di poteri locali abbastanza forti per non essere sopraffatti dai vicini, ma non tanto forti da potersi unire e formare fra di loro un blocco" mirante ad ostacolare la sovranità papale. Le "Costituzione" da lui emanate (e chiamate egidiane dal suo nome di battesimo), riprendono vecchie leggi, corrette ed adattate alle nuove esigenze. Si fornisce così "un testo che costituiva il diritto generale cui le leggi locali e particolari dovevano conformarsi". In questo contesto fa sorridere il racconto su Pandolfo II che gira l'Europa per spiegare la notizia più ovvia di tutte fra le diplomazie continentali, ovvero che Bernabò Visconti era un figlio di buona donna.
    La lettera dal re inglese consegnata a Sagremor su Pandolfo, il quale non ha accettato la sua sfida a duello, serve al francese per incassare il soldo della missione, dimostrando ai Visconti di aver fatto quanto era in suo potere per umiliare il Malatesti davanti alla più alta autorità politica del momento. Ma, dato che ogni fatto ha il suo risvolto segreto, quella lettera fa di Pandolfo un protagonista della vita continentale. Non un codardo come lo accreditava Sagremor, ma un politico che sapeva muoversi bene proteggendo dagli sguardi indiscreti il vero scopo del suo lavoro diplomatico (o segreto, che dir si voglia).
    Quando Pandolfo II arriva a Praga (1357), l'imperatore Carlo IV conosceva già dal marzo 1355 la famiglia Malatesti, per aver nominato allora suo vicario a Siena Malatesta Ungaro, fratello di Pandolfo II.

    Aggiornamento della pagina, 18.11.2010


  • Amico del Petrarca, è detto Pandolfo II nonno di Cleofe. Si conoscono nel 1356. Il poeta arriva a Milano presso i fratelli Galeazzo e Bernabò Visconti che l'inviano come ambasciatore a Praga dall'imperatore Carlo IV. Pandolfo è ingaggiato dai Visconti quale comandante dell'esercito. La situazione nei loro territori è inquieta, con una rivolta a Bologna e la minaccia del marchese del Monferrato di conquistare le città del Piemonte. Petrarca va a Praga verso la fine di maggio, passando per Basilea. Ritorna dopo tre mesi. In autunno Pandolfo si ammala seriamente. Petrarca si reca da lui quasi ogni giorno. Quando sta meglio Pandolfo restituisce le visite. Non può camminare, e si fa trasportare dai servi.
    Il vicario imperiale, vescovo di Augusta, Markward von Randeck che sta a Pisa, capeggia l'opposizione italiana ai Visconti per i danni arrecati alla Chiesa ed all'imperatore. Intima loro di discolparsi davanti a lui l'11 ottobre 1356. Galeazzo gli risponde con una lettera ingiuriosa. L'ha composta Petrarca. Il vicario si mette in marcia contro Milano: è fermato soltanto a Casorate il 14 novembre. I Visconti fanno prigioniero Markward trattandolo "decorosamente" e rispedendolo in Germania (P. Verri, "Storia di Milano", I, 1783). Novara è conquistata dal marchese del Monferrato, mentre a Genova scoppia una rivolta antiviscontea.
    Secondo il cronista trecentesco Matteo Villani (VII, 48), Bernabò teme che Pandolfo faccia troppo montare suo fratello Galeazzo nella comune signoria. Per questo lo aggredisce, minacciandolo di un'esecuzione capitale. Bernabò ha la fama di tiranno sfrenato, al cui nome "tutti tremavano né alcuno ardiva far parola. Due frati minori che osarono fare a lui stesso lagnanza di tante estorsioni li fece bruciar vivi". Per giustificarsi Bernabò accusa Pandolfo di aver corteggiato una sua concubina, Giovannola di Montebretto, che gli ha dato una bimba (Bernarda) nel 1353, quando nasce pure Marco, suo terzo figlio legittimo.
    Bernabò è un "sovrano truce e ignorante" secondo Verri. Nel 1361 accoglie due nunzi papali ad un ponte sul Lambro, imponendo loro la scelta "o mangiare o bere", cioè essere buttati nel fiume. Essi masticano tutta intera, compreso il bollo di piombo, la pergamena pontificia che gli avevano recato. Uno dei due nunzi, Guillaume de Grimoard, nel 1362 diventa papa con il nome di Urbano V.
    Nel 1367 Pandolfo II è uno dei signori che accompagnano da Napoli a Roma Urbano V, per difenderlo dai cardinali contrari al suo progetto, realizzato soltanto per un triennio, di riportare a casa da Avignone la sede di Pietro. Urbano V scomunica Bernabò, dichiarandolo eretico e comandando "che alcuno non osasse più trattare con lui". Nello stesso 1362 i messi di Padova, Verona, Ferrara e Rovigo sono fatti vilipendere dalla ciurmaglia, vestiti con tuniche bianche e mandati a cavallo in giro per Milano. Il vicario arcivescovile Tommaso Brivio è torturato. L'abate di San Barnaba, è impiccato per aver preso delle lepri.
    Bernabò si accontenta di sbattere in carcere il presunto rivale in amore. Galeazzo fa poi liberare Pandolfo che scappa da Milano e prepara la sua vendetta. La quale coinvolge il vecchio amico Petrarca, costretto a scrivere cose turche contro Pandolfo. Nel primo semestre del 1357 Petrarca si rivolge a Ludovico (Luigi) di Taranto re di Gerusalemme e Sicilia, secondo marito della regina Giovanna I di Napoli e nipote del defunto re Roberto d'Angiò.
    Giovanna, donna bella e gentile, di cuor tenero ed appassionato, era rimasta vedova del cugino Andrea d'Ungheria, un tipo selvaggio e duro, fattole sposare quando entrambi non avevano ancora otto anni. La morte di Andrea è attribuita ad uno strangolamento deciso da Giovanna e da Ludovico per coronare il loro sogno d'amore (racconta A. Levati, 1770-1841). La chiamavano la Cleopatra napoletana.
    Il titolo dell'epistola di Petrarca dice tutto, "Contro Pandolfo Malatesti". Allo stesso 1357 appartiene la lettera inviata da Petrarca ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti, in cui si parla della perfidia di Pandolfo verso il signore di Milano che invece lo aveva amato come un fratello. Bernabò non si riferisce soltanto alla storia della presunta relazione con Giovannola. Si basa su fatti veri. Pandolfo liberato da Galeazzo e fuggito da Milano, partecipa ad un intrigo internazionale in cui agisce da provetto politico, ma non per il solo scopo di togliersi la soddisfazione di sparlare dei Visconti e di danneggiarli.
    Un testimone del tempo, il dotto cronista (e notaio delle truppe viscontee) Pietro Azario, scrive che il Malatesti fu a Milano, su ordine di Bernabò, talmente offeso che, per vergogna ed altre azioni commesse contro di lui, provò dolore in perpetuo. L'esperienza personale di Pandolfo va collegata al contesto politico. I Malatesti sono in pace con la Chiesa dall'8 luglio 1355, data del documento scoperto dal cardinal Giuseppe Garampi nell'Archivio segreto apostolico vaticano, con cui si concedono ai Malatesti in vicariato le città di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone ed i loro contadini (Tonini, IV, 2, doc. CXVIII, pp. 209-224). Mentre è del 14 luglio 1356 un altro documento "garampiano" con le lodi di papa Innocenzo VI verso Malatesta Malatesti (ivi, doc. CXX, pp. 225-226).
    Matteo Villani (V, 46, p. 174) attribuisce la resa dei Malatesti alla mancanza di denaro e rendite. Dal luglio 1355, comunque essi rientrano nel gran gioco della politica. La loro sottomissione al papa "si traduce ben presto in un fattivo e duraturo rapporto di collaborazione militare" (A. Vasina), quando la Chiesa cerca di evitare che i signori cittadini "potessero far blocco fra di loro e costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio della sovranità papale" (G. Fasoli). Nel 1362 Pandolfo II sposa Paola Orsini il cui nonno Orso è figlio di un fratello di papa Niccolò III (1277-1280). Con il quale un suo altro nipote, Bertoldo fratello di Orso, nel 1278 è conte di Romagna.
    Prima a Praga e poi a Londra, Pandolfo non opera per proprio conto, o in difesa di Galeazzo Visconti. Lo dimostra un altro documento scoperto da Garampi (Tonini, IV, 1, p. 156). Pandolfo il 2 giugno 1357 è invitato dal papa a recarsi ad Avignone. Al suo posto (perché impedito dagli impegni militari con i fiorentini), va il padre che due anni prima aveva già incontrato il cardinal Egidio Albornoz legato di Romagna con il quale viaggia verso Avignone. Dove arriva il 24 ottobre e si ferma per oltre tre mesi, tornando a Rimini il 16 febbraio 1358.
    La pace con i Malatesti, si legge in Carlo Tonini (I, 391), libera il legato da una guerra che poteva essere lunga e difficile, e gli fornisce un alleato contro gli altri signori romagnoli per prendere Cesena, Forli e Faenza. Albornoz rappresenta la linea dura con i Visconti, che il papa voleva invece favorire per usarli contro gli Ordelaffi. Nel 1360 i Malatesti sono al fianco della Chiesa avversando Bernabò Visconti. Il 29 luglio 1361 alla battaglia di San Ruffillo a Bologna, Bernabò è sconfitto dalle truppe del legato guidate da Galeotto I Malatesti, figlio di Pandolfo I che era il nonno del nostro Pandolfo II. Da Galeotto I discende il ramo riminese (suo nipote è Sigismondo Pandolfo).
    I commentatori alla "Storia di Milano" (1856, p. 247) di Bernardino Corio (1459-1519) scrivono che la sconfitta dei Visconti avviene ad "opera del vecchio Malatesti di Rimini", uomo che "come tiranno e come Romagnolo, doveva essere in concetto di consumato maestro di perfidia: che di questi tempi la malvagia fede degli abitanti della Romagna era in ogni parte d'Italia passata in proverbio". Perfidia è la parola usata, come si è visto, da Petrarca contro Pandolfo nell'epistola scritta ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti.
    Nessuna perfidia invece dimostra Pandolfo II verso Petrarca. Nell'ottobre 1364 esprime a lui ed al fratello Malatesta Ungaro il suo dolore per la morte del loro padre Malatesta Antico, di cui attesta il grandissimo ricordo lasciato con la sua vita piena di gloria. Nel 1372 il Malatesti invita il poeta a Pesaro. La risposta (negativa) del 4 gennaio successivo contiene le condoglianze per la morte della moglie e del fratello di Pandolfo, e l'annuncio dell'invio delle proprie rime volgari, ovverosia il "Canzoniere", che definisce "cosucce" (nugellae).
    Pandolfo e Petrarca sanno che la vita politica (di cui entrambi sono testimoni e protagonisti), richiede sottomissioni, umiliazioni ed astuzie. Nel 1366 i Malatesti congiurano con il papa per far sconfiggere i Visconti. Con loro s'incontrano a Pavia (dove trovano Petrarca) e Milano, mentre sono diretti ad Avignone. Non è una riconciliazione, come scrive un oscuro cronista bolognese del tempo, il cartolaio Floriano Villola rilanciato nel 1949 da Roberto Weiss. Ma una manovra di aggiramento, ben descritta da Muratori (Annali, VIII, 1763). Alla fine i Visconti si dimostrano i più abili e danarosi, e possono assoldare truppe inglesi e tedesche. La loro penetrazione in Emilia è irresistibile (Fasoli).
    Circa Pandolfo II, Lorenzo Mascetta-Caracci ("Zeitschrift für romanische Philologie", 1907, vol. 31) osservando che si accetta che a soli sei anni, nel 1331, egli cominciasse una vita politica di capitano e dominatore, proponeva di anticiparne la nascita dal 1325 al 1310-15. Di ciò s'accorge nel 2004 soltanto la danese Gunilla Sävborg, concordando con i dubbi dello studioso italiano. Circa Malatesta Ungaro, Mascetta-Caracci parla di caso ancor più miracoloso, perché a soli quattro anno nel 1331 figura nei libri come capitano di Santa Chiesa. Misteri degli storici, non della Storia.


  • Nel 1421 Cleofe Malatesti sposa Teodoro Paleologo despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II. Sul finire del 1427 o all'inizio del 1428 nasce la loro figlia Elena Paleologa. Nel 1433 Cleofe muore, forse vittima di un delitto politico. Elena è la prima erede diretta al trono di Costantinopoli oltre che di Mistra, perché i fratelli di suo padre non hanno e non avrebbero avuto figli. Nel 1442 sposa Giovanni III di Lusignano (1418-1458), re di Cipro (1432-1458), e muore l'11 aprile 1458. Elena è la seconda moglie di Giovanni III. La sua prima sposa, Amadea di Monferrato (1420-1440), è figlia di Giangiacomo (1395-1445) fratello di Sofia, unita in matrimonio con Giovanni VIII Paleologo e cognata di Cleofe. Le nozze di Sofia e Cleofe sono state celebrate il 19 gennaio 1421. Le due giovani erano partite assieme da Venezia per Costantinopoli nell'agosto 1420. Nell'agosto 1425 Sofia (+1434) scappa da Costantinopoli. La madre di Amadea di Monferrato è Giovanna di Savoia (1392-1460) figlia di Amedeo VII il Conte Rosso (1360-1391).
    Si chiama Carlotta la primogenita di Elena Paleologa e Giovanni III. Carlotta (1442-1487) andrà a nozze dapprima (1456) con Giovanni di Portogallo (1433-1457) e poi (1459) con Luigi di Savoia conte di Genova (1436-1482). Il titolo di re di Cipro passa ai Savoia che lo conservano (puramente onorifico) sino al 1946. Luigi di Savoia è figlio di Ludovico (1413-1465) e di Anna di Lusingnano, sorella di Giovanni III. Anche Luigi è alle seconde nozze, dopo quelle (1444) non consumate ed annullate (1458) con Annabella Stuart, figlia di Giacomo I di Scozia.
    La secondogenita di Elena rinnova il nome della nonna Cleofe ed ha breve vita. Carlotta regna tra 1458 e 1460, prima di Giacomo II il Bastardo (nato nel 1418 da Marietta di Patrasso) che per legarsi a Venezia nel 1468 sposa Caterina Cornaro. Giacomo II uccide il ciambellano di Elena, Tommaso di Morea. Contro Carlotta nel 1459 cerca al Cairo l'aiuto del sultano Al-Achraf Saïd ad-Din Inal. Giacomo II muore il 7 luglio 1473. Il 28 agosto nasce l'erede Giacomo III che scompare il 26 agosto 1474. Caterina Cornaro (1454-1510) regna dal 1473 sino al 1489. Nel 1463 Carlotta è fuggita a Roma. Qui scompare nel 1487 (ed è sepolta in San Pietro).
    Riprendiamo le due notizie relative ad altrettante fughe di spose italiane: Sofia da Costantinopoli (1425) e Carlotta da Cipro (1463). Anche per Cleofe è stato accreditato un inesistente ritorno in patria, associandolo a quello del fratello arcivescovo di Patrasso nel 1430, quando al dominio veneziano subentra il bizantino. Saltiamo al 1794: a Rimini appare un volume dedicato agli scritti di Basinio Parmense (1425-57), curato da due eruditi, i fratelli Francesco Gaetano ed Angelo Battaglini. Angelo è bibliotecario alla Vaticana. L'opera comprende nel primo tomo le "Notizie intorno la vita e le opere di Basinio Basini" (pp. 1-42) del padre Ireneo Affò dei Minori Osservanti (1741-97, dal 1785 alla morte prefetto della Biblioteca Palatina di Parma); un testo di Angelo Battaglini sulla "corte letteraria" di Sigismondo (pp. 43-255: esso riguarda i letterati forestieri alle pp. 43-160, e quelli riminesi, pp. 161-255). Nel secondo tomo c'è il lavoro di Francesco Gaetano, "Della vita e fatti di Sigismondo Pandolfo Malatesta" (pp. 257-698).
    Battaglini spiega che tra le tante altre notizie che non avrebbe potuto elencare, c'è quella che Cleofe "infine tornasse a casa". Lasciato il modo verbale della certezza usato in precedenza, ricorre al congiuntivo per indicare un'ipotesi. Battaglini non aggiunge altro, confidando nella capacità dei lettori di cogliere il senso di quello scarto stilistico, tanto discreto da poter passare anche inosservato. Sembra essersene accorto invece Luigi Tonini con l'acribia che gli era propria. Anche se non cita Battaglini, Tonini in una breve scheda su Cleofe annota: "Morì nel 1433, dicono in Pesaro". Questo si legge a p. 334 del quarto volume, tomo primo della sua storia di Rimini. A p. 335, Tonini però aggiunge che Cleofe fu condotta in Italia dal fratello Pandolfo arcivescovo di Patrasso.
    Tonini tralascia la drammatica situazione vissuta da Cleofe, e testimoniata nel 1427 da Battista di Montefeltro con la lettera a papa Martino V. Tonini (morto nel 1874) non poteva ignorare quella lettera in difesa di Cleofe, oltretutto riproposta a Londra nel 1851 dallo scozzese James Dennistoun (1803-1855) e da Filippo Ugolini in un testo edito ad Urbino nel 1859. Da queste omissioni di Tonini, nasce la leggenda del ritorno di Cleofe in Italia, durata sino al libro di Silvia Ronchey da cui siamo partiti ("L'enigma di Piero", 2006).
    1433, visita l'Italia l'imperatore Sigismondo, il protagonista del concilio di Costanza. A Roma è incoronato da papa Eugenio IV. Diretto al concilio di Basilea, sosta il 30 agosto ad Urbino ed a Rimini il 3 settembre. Ad Urbino gli rende omaggio un messo di Elisabetta Malatesti moglie di Piergentile Da Varano e figlia di Galeazzo di Pesaro e di Battista dei Montefeltro signori di Urbino. Piergentile è stato arrestato agli inizi di quell'agosto, e suo fratello Giovanni II ucciso poco dopo dai fratellastri Gentile IV Pandolfo e Berardo III (ammazzati poi nel 1434), figli della prima moglie Elisabetta Malatesti sorella di Malatesta I di Pesaro. Elisabetta nel 1441, alla morte dell'arcivescovo Pandolfo, è nominata sua erede.
    Battista pronuncia davanti all'imperatore Sigismondo una commossa orazione latina per chiedere quanto anche sua figlia Elisabetta implorava per Piergentile, ovvero grazia e liberazione. Tutto è inutile, Sigismondo se ne lava le mani avendo ricevuto una diffida dal papa. Piergentile è decapitato il 6 settembre 1433. Battista aveva ricordato all'imperatore anche le sventure dei Malatesti. Ovvero, è immaginabile, pure la sorte di Cleofe oltre alla recente cacciata da Pesaro. Dove essi possono tornare nello stesso settembre 1433 grazie ad estensi e veneziani, e ad una rivolta popolare, quando Carlo devasta il contado ed assedia la città.
    La sosta a Rimini dell'imperatore serve a Sigismondo Pandolfo ed al fratello Novello per fortificarsi, ricevendo un'investitura laica contrapposta a quella papale "in temporalibus". Ispirati da una rigida Realpolitik, essi non hanno tempo per pensare a Cleofe ed a Mistra. Dove Sigismondo va per la crociata in Morea del 1464-1466 al soldo di Venezia. Francesco Gaetano Battaglini nel riproporre il poema "Hesperis" di Basinio Parmense in lode di Sigismondo (per i trionfi su Alfonso d'Aragona, 1448), annota: "quello che forse prima non si sapeva, s'intende" da certi suoi versi dove racconta di "quell'Elena figliuola di Cleofe" regina di Cipro che aveva "recato seco sfortunatamente l'erronea credenza del padre [...] con ingiuria della Chiesa latina".
    Battaglini rimanda al brano di Basinio riassumibile con il titolo del libro settimo in cui è contenuto: "Ad Cypri reginam agnatam suam navigare se velle simulat" (il titolo inizia: "Dum Sigismundus meditatur Neapolim ne, an Iberiam invadat..."). Battaglini spiega: "quello che forse prima non si sapeva, s'intende da' versi di Basinio in quel luogo del libro settimo, dove fa che Sigismondo imbarcandosi, finge che il suo navigare abbia ad essere a Cipro per visitare quella reina. La quale egualmente sarebbe piacciuto di ricordare, sendo quell'Elena figliuola di Cleofe".
    Di Elena nel 1647 Giovanni Francesco Loredano, ricorderà la vendetta consumata contro Marietta di Patrasso, amante del marito Giovanni III, con il taglio del naso e delle orecchie, nel tentativo forse di farla abortire della creatura che aveva in seno, il futuro re Giacomo II il Bastardo. Anche Elena era allora incinta. Della primogenita Carlotta.
    Sigismondo non poteva essersi dimenticato di Cleofe, vissuta "per lo più" (Clementini) alla corte di Rimini, dove lui stesso era stato portato fanciullo da Brescia nel 1421, l'anno delle nozze della giovane pesarese. Di lei certamente aveva sentito parlare dai famigliari, con narrazioni che risalivano al concilio di Costanza. Navigando verso la Morea nel 1464, Sigismondo non poteva non avvertire il peso di una storia ormai lontana nel tempo e rimossa nella memoria politica, tuttavia sempre presente alla sua coscienza di principe indocile ma sapiente. Il suo sguardo era senza i sereni accenti immaginati dalla poesia di Basinio: la bella Cleofe aveva generato Elena "alle spiagge dolci di graziosa luce". Anche Elena era già scomparsa, a trent'anni, nel 1458.
    Basinio aggiunge che il glorioso Malatesti aveva concesso a Cleofe d'andare ad uno sposo greco, essendosi degnato d'imparentarsi con gli antichi Achei. Non un greco qualsiasi, però, bensì un grande re. Che la condusse alle patrie rive. Sotto la retorica encomiastica di Basinio, c'è una verità storica: il ricordo di Cleofe era presente nella corte riminese, anche se il poeta nulla dice della sua sorte.
    Con Sigismondo Pandolfo i Malatesti svolgono un ruolo politico europeo che ha salde radici. Il nonno di Cleofe, Pandolfo II, nel 1357 è a Praga ed a Londra, non soltanto per sparlare dei Visconti dai quali era stato umiliato, ma per svolgere una missione da agente segreto al servizio della Chiesa. Con la quale la sua famiglia si era rappacificata l'8 luglio 1355.


  • Per Cleofe, un concilio, le nozze, un delitto

    Ginevra, 1999. Al Musèe d'Art et d'Histoire arrivano i resti della cosiddetta mummia di Mistra, l'antica Sparta capitale della Morea. Sono reperti ossei, biologici e vestimentari che un gruppo internazionale di studiosi di varie discipline deve sottoporre a restauro e ad analisi molto sofisticate. Li guida Marielle Martiniani-Reber, famosa archeologa dei tessuti all'università di Lione. Nel 2000 è lei che fornisce l'identikit della mummia, una giovane aristocratica occidentale, anzi un'italiana. Silvia Ronchey ne scrive raccontando della "Flagellazione" di Piero della Francesca ("L'enigma di Piero", 2006).
    Quella giovane si chiama Cleofe Malatesti, ed è nata a Pesaro all'inizio del XV secolo dal signore della città Malatesta I, detto "dei Sonetti o Senatore" (1366 ca-1429) e da Elisabetta Da Varano (1367-1405) di Camerino. Malatesta I è figlio di Pandolfo II e Paola Orsini (pronipote di un fratello di papa Niccolò III); nipote di Malatesta Antico detto Guastafamiglia (1299-1364); e pronipote di Pandolfo I nato da Malatesta da Verucchio "il centenario". Fratello di Malatesta Antico è Galeotto I (1301c-1385) che nel 1367 sposa Gentile da Varano, sorella di Elisabetta madre di Cleofe. Da loro nascono Carlo (1368-1429), marito di Elisabetta Gonzaga (sorella di Francesco che sposa Margherita sorella di Carlo...), e Pandolfo III (1370-1427) signore di Brescia nonché padre di Sigismondo Pandolfo Malatesti e di Domenico Novello, rispettivamente signori di Rimini e di Cesena.
    Malatesta "dei Sonetti" oltre a Cleofe ha altri sei figli (che elenco in ordine sparso). Galeotto muore a 16 anni (1414). Galeazzo “l'inetto” nel 1405 sposa Battista di Montefeltro. Paola nel 1410 sposa Gianfrancesco Gonzaga (figlio di Francesco e Margherita Malatesti). Di Carlo diremo fra poco. Taddea, moglie (1417) del signore di Fermo Ludovico Migliorati, muore nel 1427. Infine c'è Pandolfo (1390-1441), nel 1424 inviato quale arcivescovo alla diocesi di Patrasso dipendente da Costantinopoli. "Grande religioso di bona vita" e "dottissimo in iscienza" lo descrive Gaspare Broglio.
    Nel 1415 Pandolfo è presente al concilio di Costanza e nel 1417 al conclave che elegge Martino V. Arcidiacono bolognese (1404), governatore dell'abbazia di Pomposa (1407) ed amministratore “loco episcopi” (1413-1418) della diocesi della città di Brescia governata da Pandolfo III, egli è poi vescovo di Coutances in Normandia sino al 1424, nei duri momenti della conquista inglese durante la guerra dei cento anni. Nel 1430, quando Patrasso passa dal dominio veneziano (iniziato nel 1424) a quello bizantino, Pandolfo fugge dalla propria sede e ritorna a Pesaro. Nel 1429 a difenderlo presso i sovrani bizantini si è recato suo padre, approfittando di una fallita missione a Mistra affidatagli da Venezia.
    Ritorniamo al corpo esaminato a Ginevra. Se è di Cleofe, resta il mistero di un particolare autoptico: "una perforazione all'altezza del cuore, la cui natura non è certa", scrive Ronchey. Ciò conferma l'ipotesi di una drammatica fine della giovane che "visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito" (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425), sposato il 19 gennaio 1421. Così nel 1782 Annibale Degli Abati Olivieri Giordani per primo rivela la drammatica vicenda di Cleofe, pubblicando la lettera inedita inviata nel 1427 da Battista di Montefeltro a Martino V, Oddone Colonna, per invocare un intervento "in difensionem" della cognata.
    Malatesti e Montefeltro sono imparentati con il papa tramite due sue nipoti: Vittoria Colonna nel 1416 ha sposato Carlo, fratello di Cleofe; Caterina Colonna dal 1424 è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro (1377-1443), fratello di Battista. La prima consorte di Guidantonio era stata, dal 1397 al 1423, Rengarda dei Malatesti di Rimini.
    Le nozze del 1421 tra Cleofe e Teodoro sono state combinate durante il concilio di Costanza (1414-1418). Carlo Malatesti signore di Rimini e rettore vicario della Romagna dal 1385, sabato 15 giugno 1415 arriva a Costanza quale procuratore speciale di Gregorio XII "ad sacram unionem perficendam". Carlo è molto legato a Cleofe che di frequente soggiorna presso di lui a Rimini. Il 16 Carlo si presenta all'imperatore, "significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva" (L. Tonini). Lo stesso 16 giugno Carlo incontra pure Manuele II imperatore d'Oriente e futuro suocero di Cleofe. Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi, dimostrandosi mediatore sapiente e fermo ma aperto alle altrui ragioni. A Costanza si trova pure il patriarca di Costantinopoli Jean de la Rochetaillée.
    Anche il padre di Cleofe ha acquisito benemerenze religiose nei tormentati anni dello scisma occidentale (1378-1417). Nel 1410 l'antipapa Giovanni XXIII lo ricompensa dei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, "circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissimae unionis", attribuendogli "vita durante" la somma di seimila fiorini l'anno, pari a cinque volte il censo che il signore di Pesaro pagava a Roma.
    A Giovanni XXIII, Carlo di Rimini ha scritto prospettando vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III di Brescia, al fine di "reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae". Gregorio XII in una bolla (20.4.1411) scrive che Carlo, "verae fidei propugnator", ha giustamente deciso "se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae". In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, affidano un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo. Nell'agosto 1412, Carlo resta ferito per cui lascia il comando al fratello Pandolfo III.
    Nell'ottobre 1418 Martino V, mentre sta ritornando da Costanza, fa sosta prima a Brescia e poi a Mantova. A Brescia avviene il suo incontro con l'arcidiacono Pandolfo, fratello di Cleofe, amministratore della diocesi. A Brescia il papa trova il signore di Rimini Carlo accompagnato dalla moglie Elisabetta Gonzaga, e Malatesta I di Pesaro. Il quale ottiene dal pontefice due provvedimenti: la rinnovazione della propria signoria e la sede vescovile di Coutances per il figlio arcidiacono.
    Per cancellare la storia di Cleofe, bastano le fiamme che nel 1462 distruggono a Rimini gran parte dell'archivio malatestiano (poi spogliato delle carte superstiti su iniziativa pontificia fra 1511 e 1520); ed a Pesaro il 15 dicembre 1514 la biblioteca ed i documenti della famiglia della sposa bizantina, dopo che nel 1432 e nel 1503 un "arrabbiato popolo" vi aveva distrutto le scritture pubbliche. In quelle fiamme scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente, scelta dal papa con soddisfazione del suo casato: per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio.
    Sopravvivono soltanto le memorie orientali. E resta la leggenda del ritorno in patria di Cleofe: forse accreditata dagli stessi Malatesti per nascondere la sconfitta politica subìta, o forse diffusa dalla Chiesa al fine di mascherare le proprie colpe. Roma, consapevole di possibili tracce accusatorie lasciate a Pesaro ed a Rimini dalla clamorosa vicenda, avrebbe provveduto a distruggerle. Sono semplici ipotesi. Come quella di Silvia Ronchey circa la fine di Cleofe: una morte che ha "poche probabilità di essere stata accidentale", e che sarebbe dovuta alla "longa manus della curia romana".
    Cleofe "probabilmente assassinata, certamente travolta dal doppio gioco al quale era stata costretta fin dal suo arrivo a Bisanzio", visse cercando un impossibile equilibrio sul filo che collegava il papa ed il consorte. Giocò con coraggio una partita che da sola non poteva vincere. Ronchey ipotizza l'uccisione di Cleofe per evitare che mettesse al mondo un erede al trono bizantino. Se un figlio maschio fosse nato, "il corso della storia avrebbe potuto essere diverso": "se la storia potesse farsi con i se".
    Le nozze di Cleofe sono state celebrate il 19 gennaio 1421 assieme a quelle di Sofia di Monferrato con Giovanni VIII Paleologo. Sofia e Cleofe sono state unite nello stesso progetto di Martino V (che secondo Ronchey scelse "personalmente" la Malatesti), per riunire la Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054. Assieme Sofia e Cleofe s'erano imbarcate a Venezia per Costantinopoli. Il prologo del viaggio di Cleofe era stato segnato dal triste presagio dell'imbarcazione costretta dal maltempo a rientrare in porto a Rimini, per cui dovette compiere via terra il viaggio sino alla laguna. Anche di Sofia di Monferrato le cronache del tempo offrono scarse notizie: nell'agosto 1425 Sofia scappa da Costantinopoli, poco dopo la scomparsa del suocero Manuele II. Cleofe muore nel 1433, lasciando una figlia, Elena, nata tra 1427 e 1428.




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