• Dal 1901 si conosce l'inventario perugino (1560) della Biblioteca Malatestiana di Rimini nel Convento di San Francesco (Tempio), edito da Giuseppe Mazzatinti. La Biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna, con "circa" 150 opere nella prima e 123 nella seconda.
    L'inventario è sfuggito a Christopher S. Celenza e Bridget Pupillo (della Johns Hopkins University), ai quali va il merito di valorizzare la nostra Malatestiana. Che hanno inserito nel loro saggio su "Le grandi biblioteche pubbliche nel Quattrocento", contenuto nel primo volume sulle origini del Rinascimento (a cura di A. De Vincentiis), del monumentale "Atlante delle letteratura italiana" (2010) ideato da S. Luzzato e G. Pedullà.
    I due studiosi statunitensi, non avendo esaminato l'inventario del 1560, scrivono che della Malatestiana di Rimini si ignorano le dimensioni. Ma ricordano che l'umanista Roberto Valturio (1413-83) lasciò ad essa la propria collezione di manoscritti, perché fosse a disposizione dei cittadini. E che nel testamento di Galeotto Roberto Malatesti (1430) "si esprime l'intenzione di seguire la volontà dello zio Carlo" di creare una biblioteca pubblica a Rimini.
    Questa data ne fa la prima biblioteca pubblica d'Italia. Altro primato riminese: la Gambalunga (1619), quarta come pubblica dopo Ambrosiana (1609) ed Angelica (1614), è la prima biblioteca civica italiana.
    Nel suo testamento (1475) Valturio pone una condizione: i frati dovevano trasferire la Biblioteca dal piano terra a quello superiore, perché i locali originali non erano idonei alla conservazione dei manoscritti. Nel 1794 Angelo Battaglini scrive che il piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti". Il cambio di locali avviene nel 1490, come ricorda l'iscrizione latina di marmo conservata al Museo di Rimini ("Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490").
    Valturio nel "De re militari" (XII, 13) ricorda che Sigismondo donò alla nostra Malatestiana moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline.
    Nel 1560 figura inventariato Nicolò di Lira, con il suo codice "Super Psalmos". Di questo autore sono i tre volumi delle "Postille" completati a Pesaro nel 1402, passati a Mantova (per nozze in casa Gonzaga e poi al convento di San Francesco) ed ora alla John Rylands Library di Manchester.

    All'archivio web sulla Biblioteca Malatestiana di Rimini.


    Bridget Pupillo

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA


  • Ci sono ancora studiosi seri che si divertono a scrivere pagine originali, proponendo interrogativi e non soltanto granitiche certezze. Come Giuliana Gardelli che, in "Morte di un monastero e del suo assassino" (Raffaelli) indaga su Scolca con levità di scrittura. Dietro cui si nasconde, senza arroganza alcuna, il suo prestigioso curriculum di studiosa di Storia dell'arte.
    Nel 1940 arriva da Roma al Castello Sforzesco di Milano una maiolica di cui si comincia a parlare nel 1972, attribuendola a Carlo Malatesti (1368-1429) di Rimini. Dove si trovava quella maiolica? L'ipotesi avanzata rimanda appunto a Scolca. Del cui monastero si presenta qui la storia, partendo dalla donazione dell'11 gennaio 1418 fatta da Carlo Malatesti per una piccola chiesa, ai frati Agostiniani di San Paolo I Eremita.
    A loro nel 1421, subentrano gli Olivetani. I quali iniziano i lavori di ampliamento dell'oratorio. La vicenda del monastero approda all'8 maggio 1802. Quando, dopo le soppressioni napoleoniche degli Ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni allo Stato, si decide la sua demolizione.
    Dal capitolo dedicato alle riflessioni sulla vicenda, riprendiamo l'inquietante conclusione: "Dove si trovano ora i reperti dell'Abbazia di Scolca? Una ricerca nelle ville sul colle e nelle dimore patrizie del Riminese potrebbe individuarne non dico tutti, ma almeno una parte?". Come è chiaro, alla domanda non possono dare una risposta forte e chiara gli studiosi del ramo, ma altri esperti del patrimonio artistico che, se non siamo male informati, agiscono nell'Arma dei Carabinieri.
    Tornando alla Storia ed alle storie di Scolca, non ci allontaniamo dallo spirito di questa domanda avanzata dalla prof. Gardelli, quando apriamo il capitolo successivo. Dove l'autrice torna sulla distruzione di Scolca, ideale e simbolico luogo di un delitto. Infatti i dieci acquirenti di Scolca, sono messi assieme da un avvocato, Domenico Manzoni, che fa una brutta fine. Nato a Faenza nel 1775, a 25 anni è condannato come giacobino ed eretico, per cui si rifugia a Forlì. Alcuni lo qualificano conte, altri lo dicono commerciante di granaglie. Grazie alle quali fa speculazioni bancarie che gli rendono una fortuna enorme, come osservava il compianto storico Antonio Drei. Manzoni è ucciso a Forlì il 26 maggio 1817.
    Fu in rapporto con Antonio Canova. A cui nel 1814 ordina una statua che arriva alla famiglia dopo la sua morte. La vedova Geltrude Versari nel 1830 la vende ad un principe russo. Se ne sono perse le tracce. Invece di Canova, a Forlì, si conserva tuttora il monumento sepolcrale per Manzoni donato dallo scultore a Geltrude Versari.
    Perché Manzoni fa quella fine? Alcuni studi sulla Romagna prerisorgimentale apparsi fra 1910 e 1918, indicano una certezza: Manzoni cadde vittima di un regolamento di conti interno al mondo della Carboneria. Non si scarta neppure l’ipotesi della rivalità delle Logge massoniche con la Carboneria. Il popolo considerava Manzoni un incettatore di grani, un affamatore in quel tempo di carestia. Sospettato di tradimento dai "cugini" (gli affiliati) carbonari, sarebbe stato punito per il suo agire. Per ottenere privilegi dal governo, scrive Gardelli, avrebbe fatto i nomi dei capi carbonari. Che poi si sarebbero vendicati.
    Nel 1824 un delatore confida alla polizia che il ricco banchiere Manzoni è stato ucciso da Vincenzo Rossi e Pietro Lanfranchi. Lanfranchi è pure lui carbonaro, con il grado di "maestro terribile", ovvero di chi mette alla prova i nuovi soci. E pure lui ha fatto una brutta fine a 35 anni nell'agosto 1822, si disse avvelenato in carcere. Lo piansero come prode guerriero che sotto le armi francesi aveva ricoperto il suo corpo di gloriose cicatrici.

     

    All'articolo "Le carte segrete di Scolca. Gli Olivetani a Rimini in due antiche storie" [2010].


  • Aprile 1936, "il Diario" dell'Azione Cattolica di Rimini, pubblica un articolo di Giulio Cesare Mengozzi sul vescovo della città nel 1831, mons. Ottavio Zollio, passato alla storia per il proclama del 19 febbraio, pubblicato nel bel mezzo della tempesta rivoluzionaria, avviatasi pacificamente da Bologna il 4. La sommossa interessa tutti i territori emiliano-romagnoli dello Stato della Chiesa da Piacenza alla Cattolica, e culmina nella sconfitta militare alle Celle di Rimini, il 25 marzo.
    Zollio nel proclama rassicura che ordine, concordia e pace regnavano tra gli insorti. E raccomanda di mantenere la quiete necessaria a rifiutare i cattivi consigli di quanti miravano al caos.
    Torniamo al 1936. Già nel 1931 l'Azione cattolica riminese ha subìto una persecuzione politica (in linea con le direttive di governo): sacerdoti minacciati, oratorii devastati, circoli degli scouts chiusi. C'è pure l'arresto del presidente dei giovani cattolici, Luigi Zangheri che (ricordava Sergio Ceccarelli nel 1983), deve attraversare il Corso in mezzo ai poliziotti come un malfattore qualsiasi. La cattura di Zangheri è giustificata ufficialmente dal fatto che nei circoli cattolici si erano infiltrati gli antifascisti.
    Nel "Diario" dello stesso 1936 il sacerdote don Giovanni Montali pubblica tra maggio e luglio due articoli che sono una pungente satira nei confronti della nuova mistica fascista. Ed approdano ad un'invocazione al duce, chiamato il "chirurgo provvidenziale" cui toccava il compito di risanare la gioventù italica. Don Montali il 20 giugno 1944 è avvisato da un capo fascista che stanno per catturarlo e fargli la pelle: "Scappi via...". E lui va a San Marino, dai frati di Valdragone. Al ritorno a casa, dopo la liberazione di Rimini (21.9.1944), ritrova in un pozzo i propri fratelli Giulia e Luigi, 59 e 66 anni, uccisi dai nazi-fascisti.
    Nell'articolo di Mengozzi, mons. Zollio appare il simbolo della cultura cattolica liberale capace di intendere soltanto la voce del Vangelo e non gli obblighi del potere temporale. Mengozzi apparteneva ad una famiglia in cui ideali risorgimentali e valori religiosi convivevano, con diretta assunzione di pubbliche responsabilità.
    In una breve antologia sui cento anni dell'azione cattolica riminese (1968), Mengozzi ricordava per il 1937 l'intervento di Benigno Zaccagnini al fianco di Carlo Alberto Balducci, e per il 1938 la presenza di Augusto Baroni, poi docente di Storia della Pedagogia al Magistero di Bologna.


  • Nel 1831 il vescovo di Rimini Ottavio Zollio è protagonista consapevole ed attento della rivoluzione tentata contro il potere temporale della Chiesa.
    In un saggio (1860) di Atto Vannucci sui martiri della libertà italiana tra la fine del 1700 e la prima metà del sec. XIX, si ricorda che Zollio ed il suo collega di Cervia si contrappongono alla Santa Sede nell'offrire un'immagine positiva della situazione. Nelle loro "pastorali stampate attestarono al mondo l'ordine, la concordia e la pace che regnavano fra tutti gli insorti" che il cardinal Bernetti chiamava ribaldi, scellerati e ladri (p. 338).
    Giuseppe La Farina (Storia d'Italia dal 1815 al 1850, II, pp. 93-94) ricorda che Zollio, con la pastorale del 19 febbraio, sbugiarda il cardinale Bernetti, invitando i "laboriosi cultori de' campi" a non dar "luogo a' sospetti che si mediti di strapparvi dai vostri queti focolari per condurvi fra lo strepito delle armi".
    Zollio ben presto finisce nell'elenco di quei sacerdoti sospetti d'intesa con il nemico politico della Chiesa, che qualcuno vedrebbe ben volentieri colpito da censura ecclesiastica.
    Come scriveva Giulio Cesare Mengozzi nel foglio riminese "Il diario cattolico" dell'11.4.1936, nell'estate del 1831 a Rimini appare una nota sui sacerdoti (presunti) "scomunicati" quali "fautori e aderenti agli atti" d'insubordinazione dei liberali riminese, contenente pure il nome del vescovo Zollio.
    Gli avversari della rivoluzione sono non soltanto nelle file dei focosi sanfedisti di cui La Farina cita (II, p. 140) il terribile giuramento: "di versare sino all'ultima goccia il sangue degli infami liberali". Ma si trovano pure nello stesso clero ben esperto delle più ardue questioni teologiche, come quel don Pietro Cavedoni che nel 1832 risponde alla "Lettera" (1831) del riminese don Alessandro Berardi, accusandolo di "scandalo gravissimo" nell'insegnare come lecita la ribellione al potere temporale. Che va invece considerato espressione diretta della volontà divina. Ogni ribellione a questo potere è definita causa di dannazione eterna per chi vi partecipa.
    La lunga, affannosa "Risposta" di don Cavedoni a don Berardi è un documento illuminante sul contrasto fra Reazione e Rivoluzione (per usare termini convenzionali). Ed offre uno spaccato molto analitico della cultura ecclesiastica ufficiale che, alla fine, nella polemica politica, è del tutto accantonata per dare risalto solamente ai fatti ed agli atti amministrativi, ovvero temporali, della Chiesa. Lo spirito del Vangelo diventa un fantasma di cui si perdono del tutto le tracce.
    La Farina può accusare così Bernetti di "pretesca astuzia" nel condurre il gioco diplomatico internazionale quando la Francia protesta per il trattamento riservato da Roma alla Romagna, con i parroci che "incitavano il volgo a fare scempio dei liberali" (II, p. 110).
    Cavedoni invece giustifica tutto ciò accusando i liberali di Romagna di essere imitatori dei peggiori rivoluzionari d'Oltralpe d'ogni tempo. Ovviamente l'exemplum da deprecare, è la rivoluzione del 1789. E fin qui siamo nell'ambito di una logica politica conservatrice. Dove Cavedoni impressiona come un gigante che schiaccia tutto ciò che incontra sulla strada della Politica e della Storia, è nell'ampio corredo della dottrina teologica che fa il Potere un'emanazione da Dio, a cui tutti debbono rispetto e sottomissione. Ogni ribellione è frutto delle tenebre della falsa sapienza (p. 619), perché anche Agostino (oltre gli evangelisti) insegna l'obbedienza ai prìncipi.
    L'antagonismo dottrinario (o dogmatico che dir si voglia) di don Cavedoni, è un complesso sistema che alimenta ciò che, proprio a proposito della rivoluzione del 1831, è definibile come sistema di perfetta Inquisizione: si perseguita chi tenta di svelare la verità. L'Inquisizione cattura gli avversari e li fa sparire per sempre: sono le parole di un diplomatico, il protestante conte Victor Crud, rivolte all'ambasciatore di Russia a Roma, principe Gagarin (in H. Bastgen, "Un promemoria sopra la causa della rivoluzione nello Stato Pontificio nel 1831", RSR, XI, 1924, p. 439).


  • I vitelloni di Fellini sono nell'elenco delle "parole disabitate" del Novecento curato da Raffaella De Santis. Li ha resi famosi il film (1953) del regista concittadino. Li ha cancellati dalla cultura contemporanea la mancanza di un culto della memoria. Che non significa nostalgia canaglia del passato, come direbbe un canzonettaro. Ma che è il riassunto di una vita comune a cui appartiene pure chi non è stato o crede di non essere mai stato vitellone.
    A questo sostantivo un altro volume, "Itabolario. L'Italia unita in 150 parole", a cura di Massimo Arcangeli, dedica una scheda firmata da Fabio Rossi, specialista di linguaggio cinematografico. Vitellone sta in ottima compagnia, inserito tra Psicanalisi (1952) e Televisione (1954).
    Sembra quasi un segno del destino. Psicanalisi nasce accorciando la voce originaria psicoanalisi in un'edizione della "Interpretazione dei sogni" di Freud, opera molto legata a certi temi felliniani. Televisione è uno strumento molto deriso da Federico il Grande.
    Il vitellone ufficialmente è stato battezzato dal pescarese Ennio Flaiano, cosceneggiatore del film con Tullio Pinelli e lo stesso Fellini. La storia fu raccontata da Tullio Kezich, grande biografo del regista. Per Flaiano il termine stava a significare "un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato".
    Qualcuno fra chi, sessanta anni fa, frequentava i bar di Rimini, giura di aver ascoltato la parola anche nella nostra città. Secondo Kezich l'equivalente riminese di vitellone sarebbe birro. Sul che potrebbe essere avviato un dottorato di ricerca.
    Fabio Rossi elenca i fellinismi tuttora fortunatissimi come amarcord, bidone, paparazzo e dolce vita. E dolce vita, la parola scelta per il 1960, dovrebbe raccontare Roma. Così come vitellone dovrebbe riassumere Rimini, ovvero l'universale contrapposto al mondo chiuso della provincia italiana d'un tempo.
    Ma tra la Roma a cui Fellini approda nel 1939 e la piccola città da cui è fuggito, c'è un doppio legame. Quello intellettuale si gioca tutto sul tema dell'abbandono con il "Partiamo" che chiude il superbo monologo di Sordi, così lo definisce Rossi, alla fine della festa di carnevale. Il legame reale è nel ritorno alle origini: la madre di Federico, che era fuggita vent'anni prima per sposare un romagnolo squattrinato, raggiunge Federico con la bimba piccola, progettando per il figlio un avvenire da prete o in subordine da avvocato. Come il celebre Titta Benzi rimasto sempre a Rimini.

    Indice di "Carta canta"






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