• Pane a colazione, un romanzo di Anna Rosa Balducci (2008)
    Cultura e società
    Sono storie di due generazioni, quella delle madri e quella delle figlie, raccolte come in un mazzo, per documentare la lunga linea rossa che attraversa la vita, sotto il segno degli amori e delle infelicità, intendendo con questa parola tutto: l'affacciarsi dei problemi, le inquietudini nell'affrontarli, i tentativi di svicolare o di ritornare indietro nel tempo e nello spazio, alla ricerca più o meno intensa e disperata di quegli ieri che sono immersi nell'oggi, indispensabili per capire il presente, inutili soltanto a parole, essenziali nel vivere i fatti dei quali forse nemmeno ci rendiamo conto.

    Anna Rosa Balducci costruisce in oltre 230 pagine questo convincente romanzo dell'umile quotidiano, reso con efficacia dal titolo "Pane a colazione". Il quale rimanda per contrasto ad un altro libro di mezzo secolo fa, quel celebre "Cioccolata a colazione" (1957) di Pamela Moore, oggetto di venerazione e di scandalo, ritratto della "gioventù bruciata" di Hollywood, di un'America allora sognata, copiata e strapazzata, lontana da tutto quello che dieci anni dopo furono gli Usa. Dai campus in rivolta alla guerra nel Viet-Nam. Anzi per rispettare il rapporto causa-effetto, dalla guerra nel Viet-Nam ai campus in rivolta. Dalla "nuova frontiera" di JFK, alla sua uccisione, a quella di Martin Luther King e di Robert Kennedy .

    Nel libro di Anna Rosa Balducci siamo nella provincia pigra che ha tuttavia le sue simboliche figure di qualcosa che agita e tormenta per chi le sa vedere ed interpretare.
    Proprio all'inizio del romanzo c'è un passo in cui tutto ciò è riassunto e spiegato, quando Giovanna passa nel centro della città e si trova davanti il tempio malatestiano di Rimini: «Quella figura di pietra bianca è così accomodata in quel punto esatto della terra, eppure lei sa che tra le sue linee si nascondono storiche inquietudini, imprecisate anomalie ideologiche, rabbuffi grotteschi lasciati come criptogrammi da decifrare, apparentemente inesistenti tra la perfezione delle linee evidenti».

    Le nostre storie di tutti i giorni sono così, "apparentemente inesistenti", eppure vere, collocate da qualche parte, forse in quella stanza degli affetti smarriti che finisce per essere la vita. Ma grazie al cielo se in quella stanza ci si può ritrovare, o da soli o con la "compagnia" che era partita ed è ritornata, tra il balenare di ricordi e l'illuminazione di speranze.

    L'autrice sa ricostruite il legame tra le scene, accompagnare sulla pagina i protagonisti, introdurre il lettore alla varie parti di una storia che non è la documentazione di tutto il possibile oppure di tutto l'accaduto.
    Tra il possibile e l'accaduto, esiste un legame ambiguo che è la forza del racconto: per dimostrare che alla fine costano fatica le strade sulle quali si cammina per ritrovare la certezza dei fatti avvenuti, ma che spesso questa fatica non è ripagata dalla certezza.
    Il possibile rassomiglia sempre di più all'accaduto, perché l'accaduto resta indecifrabile, fitto di interrogativi, per cui nella vita si corre il rischio di considerare fatti veri quelle che per forza di cose sono soltanto ipotesi, appunto il possibile che immaginiamo successo nel passato o possa avvenire nel futuro.
    Verso la fine del libro c'è una scena magistralmente simbolo di questa situazione esistenziale, il treno che si ferma in aperta campagna, e nessuno sa niente né perché si è bloccato né perché poi piano piano, alla fine, è ripartito.
    Grande abilità nella narrazione, segno di una maturità da vera scrittrice, nelle pagine di "Pane e colazione" dimostra Anna Rosa Balducci. C'è una frase che mi ha felicemente colpito, quando l'autrice parla di un vecchio signore, le cui idee "mai erano diventate in lui una gabbia di cattiverie e malefici". Basta questa piccola frase per riassumere un intero saggio sulla vita.

  • Il racconto per scoprire la nuova vita

    Mirtha è a Rimini con il marito. Sua figlia, appena laureata, si trova a casa in Argentina, e sta per sposarsi. Mirtha non può tornare da lei per la cerimonia delle nozze. Da Roma un nipote (Rubens) le telefona: anche lui non può partire, per impegni di lavoro. Mirtha prenota a Rimini in fretta l'ultimo posto disponibile per un volo. Rubens fa la stessa cosa a Roma, poi avvisa la zia. Mirtha perde la metà della spesa, rinunciando al viaggio fissato da lei.
    Arriva in patria, ecco le nozze. "Cerimonia emozionante". Un "Grazie alla vita!" chiude il suo breve racconto. Lo leggiamo in un volumetto, "L'ospitalità della scrittura" (Teuth, 12 euro), curato da Maria Annunziata Tentoni, psicoterapeuta, come raccolta degli atti del convegno "Verso di sé" (2008), dedicato a scrittura autobiografica e donne migranti, a cura dell'Istituto Scienze dell'Uomo, con collaborazione del Museo degli Sguardi al Covignano.
    Tentoni spiega con grande chiarezza un tema complesso. Osserva: "Ci ha mosso un desiderio di incontro. Un'esperienza civile". Per combattere il razzismo ed avviare un dialogo tra le culture. Lo strumento usato è stata l'autobiografia, per far acquisire alle migranti consapevolezza della propria storia, e senso dell'esperienza in atto.
    Alcune partecipanti al laboratorio, spiega Tentoni, per scrivere di sé hanno recuperato legami e ricordi, arrivando alla fine ad un "sentimento di orgoglio" per la loro esistenza, sbattuta ed avvilita da mille difficoltà: "Il nuovo racconto vuol chiudere con il passato, prendere le distanze per cominciare una nuova vita". Sul laboratorio ed i suoi contenuti, intervengono Fulvia Gemmani e Francesca Castellani che allegano una ricca ed utile bibliografia.
    Se per una migrante come Mirtha il legame con la famiglia lontana vale la perdita di mezzo biglietto aereo, a noi che li avviciniamo, il loro arrivo può essere occasione per allargare gli orizzonti mentali. Circa una trentina di anni fa arrivarono al "Valturio" i primi studenti nigeriani. Ritrovai uno di loro molto tempo dopo, quando al Museo della Città presentammo un libro di Roberta Sangiorgi. Aveva famiglia e lavoro. Non riusciva però ad ottenere la cittadinanza italiana. Allora aveva contro soltanto la burocrazia.
    Antonio Montanari

  • Rivelati da parti censurate delle lettere

    Un Renato Serra inedito in alcune parti delle sue lettere a Luigi Ambrosini, racconta la disavventura che nel dicembre 1911 stava per costargli la vita. Il giorno 4 scrive all'amico che una palla di pistola gli ha traforato un braccio. La mattina dopo il "Carlino" titola: "Le sanguinose ire di un meccanico di Cesena. Sfregia la moglie e ferisce un professore". Lo ha salvato il portamonete di cuoio, che sua madre per errore ha posto nel taschino destro della giacca, anziché in quello sinistro dove stava abitualmente, dopo avergli spolverato il vestito.

    Serra è stato ferito anche ad un orecchio. Il procuratore del re lo fa piantonare, perché ha sparato "un colpo solo, con una pistola che non funzionava", dopo che l'altro gli "aveva già rotto la testa" con una sbarra di ferro e sparato il colpo fermato dal borsellino.

    All'amico, il 13 dicembre Serra spiega che quel marito non era stato tradito. Segue la parte censurata: "Ci fu qualche chiacchiera e ogni cosa cadde", con quella donna "vuota e vana". Un'amica di lei aveva messo una pulce nell'orecchio del meccanico geloso, e spinta la di lui signora ad incontrare Serra. Il quale precisa: "forse era un agguato". L'incontro non c'è, e Serra conclude: "Ma sono stanco di questa roba. Solo qualche volta mi tocca pensare al momento in cui quest'uomo uscirà: ché i giurati assolvono sempre".

    Intanto la madre di Serra chiede ad un amico del figlio, Alfredo Grilli, di portarselo a Torino, lontano dalle tentazioni. Ad Ambrosini, Serra confida: "Io sono a Cesena, ignoto impiegato di una biblioteca". Vorrebbe andarsene anche per le botte prese, ed evitare in futuro altri brutti incontri con quel marito (senza fondamento) geloso.

    Quattro anni dopo (7.6.1915) Serra, richiamato alle armi come tenente di complemento in fanteria, scrive (è la parte nota): "La Romagna piena di volontari, che andranno a combattere sul serio ma non hanno ancora capito che cosa sia fare il soldato; Forlì, Cesena vuote...". E poi l'inedito: "Domani andrò a Bologna a farmi la radiografia del cranio" (era rimasto ferito gravemente in un incidente stradale). Ha già visto la prima linea: "L'unica cosa seria è oggi star zitti; guardare e notare tutte queste cosette che alla fine avranno un significato indimenticabile...".

    Il 20 luglio 1915 Serra è colpito a morte in trincea, "chi dice per disgrazia chi per desiderio" osserva Andrea Menetti curatore del volume ("Mio carissimo", Parma 2009). A Menetti va il merito di una ricerca che qui produce 70 delle 442 lettere scambiate fra Serra ed Ambrosini (ed annotate con cura), per presentarci il lato più intimo dello scrittore cesenate.
    Come in questo passo (già noto) del 1908: "... quel che ci vuole per gli altri, per farsi largo, per farsi strada, per scrivere, per operare, per fare, non l'ho". Sa che la sua intelligenza non è inferiore a nessun'altra. Ma questo non basta "per farsi strada". Già tre anni prima ha confidato di considerarsi "ancora inesperto dell'azione".

    Le parti inedite sottolineano le inquietudini di un critico di genio del Novecento europeo, che si crede soltanto "ignoto impiegato" della Malatestiana. E che è stato censurato quando nel 1953 appare il suo epistolario, "per dare una certa immagine di Serra", come sottolinea Menetti.


    Serra e Decio Raggi
    morti nella "grande guerra"


    Su "Tre romagnoli alla Grande Guerra" (don Carlo Baronio, Decio Raggi e Renato Serra) l'associazione "Benigno Zaccagnini" di Cesena ha pubblicato un volumetto, con gli interventi di Roberto Iacuzzi, Giovanni Maroni, mons. Rino Bartolini e Dino Pieri.
    Raggi e Serra sono illustrati da Pieri, noto studioso del bibliotecario malatestiano, sul quale ha composto pagine fondamentali. Di Raggi, Pieri ricorda l'attività di consigliere ed assessore a Sogliano, e la fede per cui si fece terziario francescano. Serra era invece un laico, ma uscito dal circolo studentesco di mons. Giovanni Ravaglia. Don Baronio, suo cappellano militare, lo incontrò sul fronte del Podgora, mentre stava scrivendo una lettera. Serra non volle confessarsi, e lo disse gentilmente, permettendo al sacerdote di andare a parlare ai soldati della sua compagnia.
    Spiega Pieri che Raggi non amava la guerra, ma era pronto a sacrificarsi per l'unità della Patria, mentre è "più sofferto e travagliato il pensiero" di Serra. Si racconta qui la storia della sua famiglia con tradizioni risorgimentali, e quella di un suo testo fondamentale nella cultura italiana del Novecento, "Esame di coscienza di un letterato" uscito poco prima della sua morte ("oscura e sciupata", l'aveva predetta), in combattimento il 20 luglio 1915. Quattro giorni dopo, il 24 luglio, si spegne Decio Raggi, ferito il 19.
    Entrambi erano nell'XI reggimento fanteria, composto quasi interamente di romagnoli, inviati in una delle zone più calde del fronte. Secondo Pieri, "probabilmente proprio per punire coloro che nel giugno 1914 avevano organizzato in Romagna la Settimana rossa". Importante la correzione che Pieri fa a Croce circa un giudizio secondo cui Serra "riduceva la guerra per la Patria a cosa poco diversa da un fremito voluttuoso".

    Antonio Montanari, 2010




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