• Carta canta

    Carta canta

    1. Rimini e il turismo nel libro di A. Berrino

    2. Vitelloni

    3. La Biblioteca Malatestiana di Rimini

    4. Chi ha rubato il mare

    5. La mia famiglia

     

    Vedere anche ne "il Rimino" di Ekla

    Carta canta


  • A Vittorio Emiliani, «Romagnoli & Romagnolacci», come recita il titolo del suo ultimo libro (Minerva ed., Bologna), debbono essere grati per questa sua enciclopedia del ventesimo secolo. Nella quale Rimini ha un ruolo non secondario. A partire proprio dall'introduzione, dove Emiliani ci ricorda (p. 5) un aspetto spesso dimenticato o cancellato per convenienza diciamo così politica, il rispetto del passato.
    Emiliani rimanda al piano regolatore di Rimini al quale, alla fine degli anni '60, «ci si aggrappava per scongiurare la speculazione (un nuovo supermarket) che la Curia intendeva autorizzare nel palazzo dell'antico Seminario, a lato nientemeno del magico Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti».
    Come, nella stessa zona, quel passato sia stato poi violentato dai politici, lo dimostra ciò che ancor oggi si può vedere ponendosi accanto alla fiancata a mare del Mercato coperto, e guardando verso Est (il Nord è al porto...): ovvero l'inserimento volgare e becero del cemento moderno all'interno dei muri trecenteschi del convento francescano. Dove ebbe sede la prima biblioteca pubblica d'Italia (1430).
    E poi andate a controllare qualche vecchio volume che riproduca la facciata della chiesa di san Francesco, alla sinistra di quella del Tempio, oggi orribile prospetto di vetro e cemento. Esisteva ancora negli anni Cinquanta, quando al Tempio si teneva la Sagra musicale malatestiana, la cui prima edizione è del 1950, anno della riconsacrazione della chiesa dopo i restauri postbellici.
    Un'altra tirata d'orecchi, Emiliani la riserva a Rimini a p. 111 dove la definisce «strana città che la monocultura turistica esasperata ha letteralmente stravolto».
    E pure qui il rinvio è ad una questione edilizia, il rifacimento del teatro in piazza Cavour con un progetto poi ritirato dopo esser stato definito «culone». A questo progetto Emiliani collega «l'ottusità dimostrata da tutta una serie di amministratori riminesi» (p. 112). Non gli si può dare torto.

    Antonio Montanari
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  • Divertimento assicurato per chi vuol conoscere i segreti della nostra città, nelle poche pagine di Curzio Maltese, uscite in un quotidiano nel 2006 e poi in volume nel 2007. Il titolo ("I padroni delle città") appare inutile per le pagine che ci riguardano. Quello del capitolo è soltanto un drammatico grido: "A Rimini non c'è il mare". Perché il vero riminese a Marina non ci andrebbe mai, ma farebbe le vacanze soltanto d'inverno ai Tropici.
    Maltese, come ogni bravo inviato speciale, s'è fidato troppo delle confidenze ricevute da qualche amico occasionale. Come dimostra l'indice finale nel quale Umberto Bartolani è detto capo della goliardia locale. O la conclusione del capitolo dove s'inventa il funerale di Fellini con orazione di Sergio Zavoli davanti al Fulgor, mentre si tenne in piazza Cavour.
    Tra gli episodi celebri che dovrebbero riassumere la mentalità riminese, c'è l'incontro tra Fellini e Pasquini, famoso "datore di luci" nei dancing: Che cosa fai di bello Nino? Io niente e te Federico? Maltese scrive che mai una scena felliniana fu girata a Rimini. Ma il Cinema (con la maiuscola) è somma finzione per cui la vera spiaggia di Rimini vitellona del 1950 era Ostia.
    Per non parlare dei turisti che portati a visitare l'Arco di Augusto declamerebbero un solenne: "Ma questo l'anno scorso non c'era". Non mancano voci sagge. Piero Meldini spiega la città-frontiera, prima confine, poi porto, infine crocevia. Paolo Fabbri sintetizza: cambiano le mode, ma resta ben saldo un nucleo d'identità. La guerra l'ha distrutta, ma poi il talento dei suoi cittadini ha creato una Mecca del turismo partendo dal più brutto mare del Mediterraneo.
    La conclusione del capitolo è tristemente lombrosiana, come se il riminese avesse una visione delle cose finalizzata soltanto a mantenere bella, ricca, allegra la sua città. Nessuno ha spiegato a Maltese due cose: la città turistica è anagraficamente diversa da quella reale, piena essa stessa di immigrazione che aumenta con la stagione dei bagni, come si diceva un tempo. Poi il sorriso che un cameriere deve per contratto al cliente del bar o dell'albergo, non indica l'anima di un luogo.
    Maltese desidererebbe Rimini grattata dall'insana malinconia del garbino che i riminesi scacciano come unico ospite molesto. (Il garbino era detto il vento dei matti.) Aggiunge Maltese che ci manca la voglia di far pace con la nostra memoria. Qui nel dopoguerra non si consumarono vendette. Nessuno glielo ha ricordato. Peccato.

     

    Antonio Montanari
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    il Ponte, Rimini, settimanale, 31.7.2011


  • Dal 1901 si conosce l'inventario perugino (1560) della Biblioteca Malatestiana di Rimini nel Convento di San Francesco (Tempio), edito da Giuseppe Mazzatinti. La Biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna, con "circa" 150 opere nella prima e 123 nella seconda.
    L'inventario è sfuggito a Christopher S. Celenza e Bridget Pupillo (della Johns Hopkins University), ai quali va il merito di valorizzare la nostra Malatestiana. Che hanno inserito nel loro saggio su "Le grandi biblioteche pubbliche nel Quattrocento", contenuto nel primo volume sulle origini del Rinascimento (a cura di A. De Vincentiis), del monumentale "Atlante delle letteratura italiana" (2010) ideato da S. Luzzato e G. Pedullà.
    I due studiosi statunitensi, non avendo esaminato l'inventario del 1560, scrivono che della Malatestiana di Rimini si ignorano le dimensioni. Ma ricordano che l'umanista Roberto Valturio (1413-83) lasciò ad essa la propria collezione di manoscritti, perché fosse a disposizione dei cittadini. E che nel testamento di Galeotto Roberto Malatesti (1430) "si esprime l'intenzione di seguire la volontà dello zio Carlo" di creare una biblioteca pubblica a Rimini.
    Questa data ne fa la prima biblioteca pubblica d'Italia. Altro primato riminese: la Gambalunga (1619), quarta come pubblica dopo Ambrosiana (1609) ed Angelica (1614), è la prima biblioteca civica italiana.
    Nel suo testamento (1475) Valturio pone una condizione: i frati dovevano trasferire la Biblioteca dal piano terra a quello superiore, perché i locali originali non erano idonei alla conservazione dei manoscritti. Nel 1794 Angelo Battaglini scrive che il piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti". Il cambio di locali avviene nel 1490, come ricorda l'iscrizione latina di marmo conservata al Museo di Rimini ("Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490").
    Valturio nel "De re militari" (XII, 13) ricorda che Sigismondo donò alla nostra Malatestiana moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline.
    Nel 1560 figura inventariato Nicolò di Lira, con il suo codice "Super Psalmos". Di questo autore sono i tre volumi delle "Postille" completati a Pesaro nel 1402, passati a Mantova (per nozze in casa Gonzaga e poi al convento di San Francesco) ed ora alla John Rylands Library di Manchester.

    All'archivio web sulla Biblioteca Malatestiana di Rimini.


    Bridget Pupillo

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA


  • I vitelloni di Fellini sono nell'elenco delle "parole disabitate" del Novecento curato da Raffaella De Santis. Li ha resi famosi il film (1953) del regista concittadino. Li ha cancellati dalla cultura contemporanea la mancanza di un culto della memoria. Che non significa nostalgia canaglia del passato, come direbbe un canzonettaro. Ma che è il riassunto di una vita comune a cui appartiene pure chi non è stato o crede di non essere mai stato vitellone.
    A questo sostantivo un altro volume, "Itabolario. L'Italia unita in 150 parole", a cura di Massimo Arcangeli, dedica una scheda firmata da Fabio Rossi, specialista di linguaggio cinematografico. Vitellone sta in ottima compagnia, inserito tra Psicanalisi (1952) e Televisione (1954).
    Sembra quasi un segno del destino. Psicanalisi nasce accorciando la voce originaria psicoanalisi in un'edizione della "Interpretazione dei sogni" di Freud, opera molto legata a certi temi felliniani. Televisione è uno strumento molto deriso da Federico il Grande.
    Il vitellone ufficialmente è stato battezzato dal pescarese Ennio Flaiano, cosceneggiatore del film con Tullio Pinelli e lo stesso Fellini. La storia fu raccontata da Tullio Kezich, grande biografo del regista. Per Flaiano il termine stava a significare "un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato".
    Qualcuno fra chi, sessanta anni fa, frequentava i bar di Rimini, giura di aver ascoltato la parola anche nella nostra città. Secondo Kezich l'equivalente riminese di vitellone sarebbe birro. Sul che potrebbe essere avviato un dottorato di ricerca.
    Fabio Rossi elenca i fellinismi tuttora fortunatissimi come amarcord, bidone, paparazzo e dolce vita. E dolce vita, la parola scelta per il 1960, dovrebbe raccontare Roma. Così come vitellone dovrebbe riassumere Rimini, ovvero l'universale contrapposto al mondo chiuso della provincia italiana d'un tempo.
    Ma tra la Roma a cui Fellini approda nel 1939 e la piccola città da cui è fuggito, c'è un doppio legame. Quello intellettuale si gioca tutto sul tema dell'abbandono con il "Partiamo" che chiude il superbo monologo di Sordi, così lo definisce Rossi, alla fine della festa di carnevale. Il legame reale è nel ritorno alle origini: la madre di Federico, che era fuggita vent'anni prima per sposare un romagnolo squattrinato, raggiunge Federico con la bimba piccola, progettando per il figlio un avvenire da prete o in subordine da avvocato. Come il celebre Titta Benzi rimasto sempre a Rimini.

    Indice di "Carta canta"





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