• La Rimini degli Anni Trenta, grazie a Federico Fellini ed al suo «Amarcord» (1972), diventa simbolo di «un mondo sbagliato, meschino, gretto e violento».
    Nel film c'è Lello, lo «zio Pataca». Diceva Fellini: «Pataca da noi significa un uomo da poco, un farfallone, che vive ai margini sognando cose difficili, assolutamente lontane dalle sue possibilità».
    Lello tradisce il cognato antifascista presso cui vive da vitellone parassita, facendogli infliggere la lezione dell'olio di ricino. 
    Per Oreste Del Buono, «Amarcord» fa «un discorso civile» in cui non c'è quell'autobiografismo come luogo comune e scontato di cui parlano i «critici superficiali» all'apparire del film.
    Natalia Ginzburg osserva: «Mai mi era successo di vedere evocati gli anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e tanto orrore».
    Il fascismo, spiega la scrittrice (vedova di Leone Ginzburg, ucciso dalle sevizie subìte come antifascista nel 1944 a Regina Coeli), era «sordido, miserabile, atroce».
    Allora i giovani ne conoscevano «bene soltanto gli aspetti grotteschi. Quelli tragici» li avrebbero «capìti più tardi». In questo film, concludeva Natalia Ginzburg, riconosciamo «il fascismo bevuto e respirato senza che lo sapessimo». Nelborgo di «Amarcord» c'è coralmente l'Italia.
    Il cognato «pataca» più che un «uomo da poco, farfallone o sognatore», pare piuttosto l'uomo «da niente», senza moralità e dignità. In apparenza è gelido e noncurante. In sostanza si dimostra una perfetta carogna.
    E se dal tono leggero della raffigurazione scendiamo nei labirinti della Storia, se dal grottesco ci avviamo cautamente verso il tragico, allora vengono alla mente pagine ancora peggiori di quegli anni. Quando una soffiata era ricompensata con un cartoccio di sale, e ci scappava il morto, frutto ed oggetto di delazione politica.
    Lello è un traditore, un brutto ceffo, non una simpatica canaglia od un compassionevole illuso. Per Alberto Moravia, la Romagna che «Amarcord» racconta, è «senza deformazioni satiriche e fantastiche». 
    Lo «zio Pataca» con la sua azione di delatore, è protagonista non isolato di un clima ben evidente nella sequenza del grammofono che dall'alto del campanile diffonde le note dell'«Internazionale». E nella scena degli oppositori portati alla casa del fascio, con la predica del gerarca paralitico: «Quel che addolora, è che non vogliano capire».
    Valerio Riva scrive che a quel punto allo spettatore, «Amarcord» appariva non più e soltanto «una antologia di ricordi», ma «un grosso film politico, il più esplicito, almeno in questo senso, che abbia fatto Fellini».
    Lo zio Lello rappresenta una delle tre categorie umane che ci accompagnano nel cammino esistenziale. Le altre due sono quella alquanto rara di chi disprezza la menzogna, e in nome della verità è disposto a sopportare tutto. E quella (alquanto diffusa) di quanti per convenienza si celano nel proprio «particulare» e fingono di non vedere per non aver rogne. Anche loro tradiscono i reciproci doveri su cui si basa l'umana convivenza.
    «Amarcord» dimostra, secondo Miro Gori, «come una città di provincia, con la sua vita futile e uggiosa, possa diventare, nelle mani di un 'poeta', l'ombelico del mondo».
    Fellini in «Amarcord» narra Rimini con quel misto di odio e di nostalgia che sono il lievito d'ogni memoria: anche se il film «per l'autore non doveva apparire come il rispecchiamento di situazioni e personaggi reali» (Tullio Kezich).
    Nel 1990 Cinzia Fiori sul «Corriere della Sera» chiama Rimini una città a due facce, l'antico borgo e la marina tutta cemento selvaggio che fa venire la nostalgia del passato: «Siamo all'amarcord di Amarcord», conclude. Federico sempre lontano, tuttavia sempre presente.
    Con il suo mondo oscillante tra favola e verità, egli offre un'utile chiave di lettura delle vicende più recenti di Rimini, ogni volta diversa ma alla fine eternamente uguale a se stessa.
    Sospesa tra mito e realtà come un canovaccio di Federico, Rimini è sempre alla ricerca di un'identità definita ma non definitiva nel divenire inquieto dell'attuale società globalizzata.


  • 16 giugno 1938, Benito Mussolini ispeziona i lavori quasi ultimati per l'isolamento dell'arco d'Augusto, mentre la folla urla «il suo incontenibile entusiasmo [...] in un abbraccio quasi pauroso», scrive «Ariminum».
    S'alza una voce: «Vogliamo la provincia». Più che un desiderio, è un ordine. Il duce, lo sguardo imperioso, forse nascondendo a malapena quel disgusto che nutre naturalmente per la nostra città, è lapidario: «Sulla carta». Come dire, scordatevela.
    Arriva soltanto nel 1992 dopo 18 anni di Circondario, e diventa operativa nel 1995. Ostacoli e rifiuti furono sempre opposti alle richieste della nostra città.
    Politica e deteriore folclore si mescolano in certi scritti fascisti (1921) che definiscono Rimini «città dei rammolliti e dei vili, paese di mercanti e di affittacamere», per aver disertato il funerale di Luigi Platania, ucciso il 19 maggio di quell'anno.
    Platania, 31 anni, è uno dei fondatori nel 1919 dei fasci di combattimento dopo esser stato anarchico ed interventista. Ha fatto la «settimana rossa», combattuto in Libia e nella grande guerra. Mutilato e pluridecorato, figura tra i fascisti più accesi.
    Su di lui correvano voci di misfatti compiuti a Cesena ed a Pesaro. Durante la «settimana rossa» Platania fu sospettato del furto di una cassaforte compiuto assieme a Carlo Ciavatti detto «il monco», al quale avrebbe sottratto parte del bottino ricevendone la minaccia: «Faremo i conti».
    C'è un altro Platania sulla scena cittadina. 1922, sabato 28 ottobre, giorno della marcia su Roma, e domenica 29 anche Rimini è occupata. Durante la presa del carcere alla Rocca malatestiana un fascista di Foligno, Mario Zaccheroni, è ucciso da fuoco amico per mano appunto di Giuffrida Platania, fratello di Luigi ed allora direttore della «Penna fascista», che tenta il suicidio «per scrupolo eccessivo» (scrive «L'Ausa»).
    Mussolini ricordava i giudizi di quegli scritti fascisti del 1921, confortato pure dalle opinioni ufficiali locali come quella del federale Ivo Oliveti che in un convegno indetto appunto sulla richiesta riminese, lanciò una specie di anatema chiedendo ai presenti: «Vi vergognate forse di appartenere alla provincia del Duce?».
    Il quale aveva insignito Rimini d'una etichetta rimasta celebre: «Scarto delle Marche e rifiuto della Romagna».

    Dalla provincia al provincialismo.
    Leggiamo alcune pagine di Guido Nozzoli sulla Rimini tra le due guerre: «Con tutte le sue pretese di modernità e di cosmopolitismo era - ce ne saremmo accorti più tardi - una cittadina provinciale di gusto quasi ottocentesco, con tante ville circondate da cespugli di oleandri e di ligustri, qualche solido albergo di stile floreale, la litoranea sonnecchiante fino al tramonto in una sua aristocratica solitudine, e una rete di viali e vialetti, per metà di terra battuta, fiancheggiati dalle cancellate e dalle siepi di qualche orto».
    Prosegue Nozzoli: «L'unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare 'di Palloni'. Tra il porto e l'Ausa, nel tratto di spiaggia più elegante, il lungomare cancellò le dune - 'i muntirun' - e divenne subito il ritrovo pomeridiano dei bagnanti, l'equivalente estivo del Corso d'Augusto per i riminesi seduti a gruppo sulla lunga balaustrata all'ora del passeggio o pigramente ronzanti in uno sfarfallio di biciclette. Il centro di quel firmamento, il perno di quella giostra, era il Caffè con orchestra di Zanarini, dove si videro i primi gagà spregiatissimi dal fascismo (erano poi tutti figli di fascisti) prendere l'aperitivo seduti sul marciapiede. Tenuta quasi di rigore: la maglia a girocollo blu da cui spuntavano colletti immacolati [...]».
    Morale della favola: «Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell'800», conclude Nozzoli.


  • Rimini 150. Dal 1861Esce oggi 11 novembre l'intervista immaginaria di Giulio Giorello a Voltaire, che comincia: "Monsieur le philosophe...".

     

    La settimana scorsa Sergio Romano, introducendo il trattato "Sulla tolleranza" dello stesso Voltaire, lo definiva invece "giornalista" ("anche se la parola può sembrare riduttiva") perché "non fu mai un filosofo, nel senso corrente della parola". Anche se, osserva, lo stesso Voltaire si sarebbe definito "philosophe".

    Silvia Ronchey nelle recenti "Vite più che vere di persone illustri" (raccolte sotto il titolo de "Il guscio della tartaruga"), lo chiama "un aristocratico del pensiero" perché così ritiene che lui si considerasse. E lo riassume in questi termini: "François-Marie Arouet fu un avvocato, un libertino, un detenuto, uno speculatore, un viaggiatore, un polemista, un cortigiano, un filosofo, un commediografo, un tragediografo, un narratore. Si chiamò anche Voltaire".

    Forse il problema di tutte le biografie sta qui, in quell'essere "anche" quello che poi una persona appare ai posteri.
    L'editore di Ronchey spiega alla fine del libro il senso del titolo ("Il guscio della tartaruga"): il guscio è più largo del corpo della tartaruga ed è coperto da un mosaico di scaglie. "Anche queste vite sono un mosaico".
    Come (aggiungiamo) forse quelle di tutti noi. Il guaio della Storia è che spesso delle vite ordinarie si perdono le tessere, e nessuno si cura di recuperarle.

    Per le esistenze straordinarie, invece, si fa a gara a cercar etichette. Ronchey insegna che è meglio abbondare nell'elenco.
    Giorello, che bisogna adottarne una per semplificare le cose, usando l'immagine più semplice e per questo efficace.
    Invece Romano cancella tutto il nuovo che la nuova filosofia dei nuovi filosofi del Settecento suggerisce. Il "giornalista Voltaire" agli occhi di Romano ha però una missione politica da compiere, quella di insegnare a contemporanei e posteri il valore della tolleranza, negata dal processo a Jean Calas, accusato d'aver ucciso il figlio per non farlo convertire alla fede cattolica, e poi condannato a morte.

    Recente è anche l'edizione del trattato curata da Sergio Luzzato, in cui si racconta come nel 1949 esso divenne un "testo di riferimento" dell'allora Pci, per la traduzione che ne fece Palmiro Togliatti.
    Lo storico Luzzato scrive un'intelligente pagina provocatoria che conclude efficacemente: "il paradosso italiano di un Voltaire confiscato dai comunisti", deriva dalla "relativa indifferenza (per non dire l'altezzosa sufficienza) con cui il liberalismo nostrano", tutto "impregnato di umori spiritualisti", aveva guardato "alla materialistica epoca dei Lumi".





    Suivre le flux RSS des articles
    Suivre le flux RSS des commentaires