• 1797, i francesi a Rimini

    Duecento anni fa, i francesi occupano Rimini, allora territorio dello Stato della Chiesa. I soldati di Bonaparte entrano in città la sera del 4 febbraio 1797. Napoleone ha ripreso due giorni prima la guerra contro il Papa, rompendo l'armistizio del 23 giugno 1796, che aveva chiuso la prima fase della «campagna d'Italia», cominciata il 12 aprile dello stesso anno. Il 14 maggio era stata presa Milano, tra 18 e 19 giugno Bologna.
    Il 31 gennaio '97 Bonaparte ha lanciato da Bologna un avviso ai romagnoli: «Qualunque Villaggio o città in cui all'avvicinarsi dell'Armata Francese si dia campana a martello, sarà sull'istante bruciata, ed i Magistrati ne saran fucilati». Nella dichiarazione di guerra del primo febbraio, Napoleone accusa la Corte di Roma di aver «intrapreso delle negoziazioni ostili contro la Francia con la Corte di Vienna». Il 12 gennaio alla Mesola, i francesi hanno intercettato un corriere diretto a Venezia con missiva del Segretario di Stato Cardinal Brusca, indirizzata al Prelato Albani inviato del Papa a Vienna. Nella lettera si parlava dei negoziati per concludere un'alleanza, e di «bande» austriache da far giungere in Romagna.
    Il Papa si era preparato alla ripresa delle ostilità fin dal 4 ottobre '96, quando aveva chiamato a raccolta i sudditi «a difesa dei suoi Stati». Il 12 ottobre il cesenate Cardinal Gregorio Barnaba Chiaramonti (il futuro Pio VII), era fuggito da Imola, sua sede episcopale, «per timore di rimanere catturato nelle mani de' Francesi». Il 14 era iniziato il passaggio per Rimini dei dragoni pontifici diretti a Faenza.
    Il 16 ottobre per volontà di Napoleone si era riunito a Modena un Congresso con i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, deliberando la fondazione della Confederazione Cispadana. Lo stesso Congresso il 17 ottobre aveva diffuso l'invito ai popoli della Romagna di unirsi ai Liberatori e di aderire alla Confederazione. Esaltando il governo della Chiesa come ispirato alla libertà, i papalini risposero: «Noi ambiamo il suffragio vostro: noi dispregiamo quello dei vostri Oppressori», cioè dei francesi.
    Il 18 ottobre a Rimini era pervenuta la notificazione pontificia spedita a tutti i Governatori delle province per una nuova difesa dello Stato della Chiesa. Lo stesso giorno, mentre a Bologna veniva piantato l'Albero della Libertà e s'incendiava una caserma dei birri, Pio VI «per li nuovi sospetti o minacce dell'armi francesi allo Stato Pontificio», ordinava «guerra difensiva ai suoi sudditi». E da Forlì cominciava in tutta la Romagna la cattura dei giacobini, trasferiti il 19 a Rimini e di lì nel forte di San Leo. La repressione colpiva intellettuali, professionisti e parecchi nobili.
    Torniamo al febbraio 1797. Il 3 febbraio, all'indomani dell'attacco francese a Faenza e dopo la fuga da Rimini a San Marino del Vescovo Vincenzo Ferretti e del Governatore Luigi Brosi, e mentre le famiglie più ricche e distinte si trasferiscono nelle loro proprietà in campagna, l'ex conte Nicola Martinelli si attiva per far assumere dal nostro civico Consiglio i provvedimenti necessari a non lasciare la città in balìa di se stessa e per prevenire danni e disordini dell'invasione.
    Il giorno 4 Napoleone crea l'Amministrazione Centrale della Legazione di Romagna, stabilendola a Ravenna: di essa fanno parte nove persone, tra cui lo stesso Nicola Martinelli. Avvenuta l'occupazione di Rimini, Martinelli nella sua veste di presidente della Municipalità difende gli interessi della città. Il 4 aprile non cederà alle pesanti richieste economiche del generale Victor Perin che si rifarà della sconfitta saccheggiando Santarcangelo. A Martinelli, che da un trentennio è tra le figure di spicco della vita pubblica locale, andranno lodi e ringraziamenti per aver coraggiosamente salvato le sostanze dei suoi concittadini.
    Rimini è infatti una città impoverita dagli eventi bellici. Nel luglio '96 ha dovuto pagare alla Repubblica francese 64 mila scudi di contribuzione. Poi le è stato imposto di partecipare alle spese per le truppe che il Papa ammassava in attesa di riprendere il conflitto. Adesso ci sono le nuove, pesanti pretese degli invasori. La situazione è insostenibile.
    Napoleone arriva in città nella notte sul 6 febbraio, ospite di Gian Maria Belmonti Stivivi, uno dei tanti nobili filogiacobini che vedono nell'occupazione francese un mezzo per scalzare il dominio papale. Prima di ripartire alla volta di Pesaro, Bonaparte arringa i parroci: la rivoluzione non minaccia la religione, stiano quindi tranquilli loro, e mantengano calmi i loro fedeli. Napoleone ha già avvertito: il nuovo governo della Romagna, posto alle dipendenze della Cispadana, avrebbe preso «tutte le misure necessarie per reprimere i falsi Preti, che si allontanassero dai principj della vera Religione, e che volessero frammischiarsi negli affari temporali».
    Bonaparte si illude che, facendo tacere il clero, si possa tenere a bada la plebe. Il malcontento che serpeggia nei quartieri poveri della città, nelle parrocchie di periferia o nelle campagne, non ha bisogno di essere alimentato da tante prediche. È dall'inizio del secolo che qui passano truppe, si richiedono esborsi in denaro e si ordinano requisizioni allo scopo di alimentare i soldati ed i loro animali. Per esperienza dolorosa tramandata di padre in figlio, la gente sa che ogni esercito, amico o nemico, porta fame e distruzione dove transita o si accampa.
    I torbidi non iniziano con il «Governo Francese», come la nuova situazione politica viene definita nei registri comunali di Rimini alla data del 5 febbraio. Nel mese precedente sono già avvenute violenze attribuite a «forusciti, tra quali sono stati veduti anche di zingari». Con la parola «forusciti» si indicavano esuli politici filofrancesi che tramavano contro il potere romano. Il loro comportamento è più da briganti da strada che da veri cospiratori politici contro l'ordine costituito: essi «e di giorno, e di notte vanno alla Case, e non solo contenti di mangiare, e bere, portano via ciò che possono avere: polli, agnelli, panni, ed anche ori e denari se ne ritrovano». Ad un contadino «dopo averli tolto trenta pavoli, e tre miserabili anelli d'oro, che facevano tutta la sua sostanza, lo regalarono di alcune giuncate». Ad un altro, «dopo averli bevuto una quantità di vino, li amazzarono sino una scrofa pregna, e così hanno fatto a molti altri». Quei poveri lavoratori della terra si trovavano di conseguenza «in grandissima agitazione». Nei paesi di campagna, il popolo è «stato eccitato alla diffesa» prima che arrivassero i francesi.
    Appelli di aiuto alla Municipalità riminese giungono anche da amministratori e parroci di località vicine. Non ci sono i mezzi per porre riparo ai mali che vengono denunciati: «Ci mancano cavalli, ed armi per far batter la Campagna dalla Guardia Civica». A tre parroci del contado, si comunica il piano stabilito dalla Municipalità di concerto con il Comandante francese della Piazza di Rimini «per rimediare efficacemente e sollecitamente ai disordini, che si commettono dai Forusciti nelle Campagne»: istituire una Guardia Civica nelle «Ville del Bargellato», agli ordini di un militare francese, «affine di fare il giro notte e giorno delle rispettive Parocchie per arrestare, e condurre in Città que' Vagabondi, che fossero trovati fuori della Strada Maestra, o Consolare per fare del male».
    I parroci avrebbero dovuto collaborare inviando «dieci uomini di coraggio», che sarebbero stati «spesati per tutto il tempo, che presteranno il servizio». La Municipalità garantisce che essi non sarebbero stati «mai né offesi, né reclutati», secondo le assicurazioni ricevute dallo stesso Comandante repubblicano della Piazza di Rimini.
    La parola «forusciti», usata prima dell'arrivo dei francesi per definire i loro sostenitori alla macchia, ritorna ora per indicare i partigiani del Papa. Essa s'accoppia al termine «vagabondi», meno preciso, anzi decisamente più ambiguo e quindi perfettamente adatto a quei momenti.
    In qualche località, «per le vessazioni e ruberie, che si commettevano, e si commettono», sono accusati «malviventi, e vagabondi, che hanno seguita, e seguono l'Armata Francese». Il «Cittadino Lapisse Comandante della Piazza di Rimini» fa sapere: «né soldati, né Ufficiali Francesi, o chiunque altro, possono pretendere, e molto meno esiggere dagli osti, ed abitanti nessuna sorte di viveri, foraggi, o altra cosa senza l'esatto, e puntuale pagamento, giacché la truppa riceve le Razioni necessarie pel suo camino».
    In realtà il comportamento degli occupanti non si ispira alle regole ricevute, se lo stesso Bonaparte il 7 febbraio scrive ai suoi soldati: «Non mi trovo contento di voi», e minaccia di passare per le armi chi avesse «strapazzato, o attentato in verun modo, sia nella Persona, sia nella Proprietà del Popolo vinto», o avesse con sé «roba rubata».
    I nuovi padroni della città per difendersi considerano ogni reazione alle loro prepotenze come frutto di trame occulte ordite per garantire organizzazione ed impunità ai «vagabondi»: e così, ricorrono alla storia dei «falsi Preti» che volevano «frammischiarsi negli affari temporali», sobillando alla sollevazione l'ingenuo popolo.
    Gli ecclesiastici locali sono obbligati ad obbedire agli ordini del Pontefice per la «più valida resistenza, e difesa» nel caso di tentativi d'invasione, come si legge in un documento apparso senza firma e senza data a Rimini il primo febbraio '97, ma attribuibile al Vescovo Ferretti.
    I Vescovi in un primo momento credono di trovarsi a combattere eroicamente una nuova crociata (il Papa pretendeva una semplice guerra), mentre si trattava soltanto di una battaglia politica in cui occorreva comportarsi con la stessa spregiudicatezza dell'avversario. Anche prima che il 19 febbraio 1797 Repubblica francese e Stato della Chiesa firmino la pace di Tolentino (con la quale il Papa deve cedere la Legazione di Romagna), essi passano dagli appelli insurrezionali ai compromessi per non agitare le città sottoposte al dominio napoleonico.
    Nel 1796, dopo l'ingresso del francesi a Bologna, il Vescovo Ferretti aveva indirizzato il 24 giugno a tutti i parroci della Diocesi di Rimini una circolare, con la quale gli ordinava di esortare i fedeli alla quiete ed alla rassegnazione. Nello stesso giorno il Cardinal Legato aveva avvisato il Governatore di Rimini «d'esser imminente l'avvanzamento» di un corpo di truppe francesi, da accogliere «in adempimento delle sovrane intenzioni di Nostro Santità», provvedendolo «di alloggi, di viveri, e di foraggi». Il Governatore era anche sollecitato a mantenere tranquillo il popolo.
    Se impresa difficile era già rimediare i rifornimenti per i militari, impossibile addirittura appariva quella di convincere i fedeli, anzi i sudditi, che per loro non si profilava nessun pericolo. La fuga dello stesso Legato il 26 giugno da Ravenna a Rimini, dove sostò prima di ripartire per Pesaro, dimostrava che le ipotesi ottimistiche erano chimere usate per ingannare la pubblica opinione.
    Si ordinò poi di deporre le armi da fuoco e di non indossare divise militari, cercando di prevenire accensioni di fiamma. Queste decisioni giungevano ormai in ritardo sugli eventi militari (con la tregua del 23 giugno il comandante francese s'impegnava a sgomberare la Legazione di Ravenna), ma in tempo per prevenire la mossa del generale Augerau che il 26 giugno scendeva in Romagna cercando di conquistarla democraticamente con una specie di referendum: preferite la Francia o il Papa? La mossa di Augerau era in contrasto con l'armistizio.
    All'apparire dei francesi in Emilia, nessuno si era preoccupato di dare ordini alle nostre città: «Nelle attuali critiche circostanze siamo privi fin ora d'Istruzioni per parte dei Signori Supperiori, né per ciò abbiamo potuto fissare verun piano che riguardi la pubblica salvezza e tranquillità». È una lettera della Municipalità di Rimini datata 21 giugno 1796: «Quello solo che abbiamo creduto non dovere omettere è di procurare l'espulsione dalla Città nostra de vagabondi esteri mediante una Patulia di Soldati della prima Compagnia dell'infanteria, e la provvista della maggior quantità di farina, che sia stata possibile». Lungimirante l'idea di procurar cibo, ma convenzionale quella di prendersela con i «vagabondi esteri» come primo capro espiatorio nell'emergenza provocata da Bonaparte.
    Il 24 giugno seguiva una lettera riminese al Legato, il quale nel frattempo aveva avvisato il nostro Governatore dell'avanzarsi dei francesi. La Municipalità chiedeva lumi su come comportarsi: l'invasione ed il ritiro delle truppe pontificie dalla Romagna, avevano «prodotto in tutti i Concittadini un sordo mormorio che indica l'universale timore, e costernazione, dimodocche si è fino durata fatica impedire l'emigrazione di molti degli abitanti del Porto. Questa costernazione chiaramente ci manifesta, che le provvidenze da noi date fin qui non contentano abbastanza la popolazione, e ci fa conoscere necessari altri più efficaci provvedimenti». Come ad esempio l'invio di una «Deputazione ai Comandanti Francesi per renderli con questo passo più umani, più dolci, più premurosi col nostro Popolo».
    La Municipalità si preoccupava di spiegare al Legato che la proposta non intendeva essere «un atto di deffezione dalla S. Sede», e che si voleva la di lui approvazione per «tutto quello che faremo, o saremo per fare in così critica, e dolorosa circostanza»: «desideriamo anzi, che per questo passo non divenga giammai per verso Vostra Eminenza sospetta la Fedeltà, l'Amore, l'attaccamento di Noi, e di questo Popolo per il nostro Sovrano».
    In base all'armistizio, il governo pontificio, cioè il suo popolo, avrebbe dovuto sborsare una contribuzione complessiva di 21 milioni di lire. Per il bene della pace. E senza tante storie: «Ora non è tempo di sorpresa, ma di azione. Si minaccia da un'Armata vittoriosa il Sacco generale se immediatamente non si contribuisce quanto essa dimanda», scrive la nostra Municipalità.
    Non tutto il popolo gradiva: la campagna era «infestata da Forusciti». Era il 30 giugno. Nello stesso giorno giungeva alla nostra Municipalità la notizia «di una insurrezione popolare a Cesena la quale dicesi vada dilatandosi nei convicini Paesi». Il 1° luglio partiva da Rimini alla volta del Gonfaloniere di Pesaro un «Avviso di generale tumultuazione»: «Ieri sera giunsero in questa città sopra venti persone di Forlì che si credono quelle che hanno eccitato il tumulto popolare in Cesena. Qui pare cominciavano a sollevare la Gente: ma noi col mezzo della Guardia Civica ne li abbiamo espulsi, per non aver come ritenerli». Molti di quegli insorti si erano incamminati verso Pesaro.
    A Cesena, scrisse don Gioacchino Sassi, il 29 giugno successe un «grandissimo disturbo» per una sommossa di sessanta «Patriotti» che «volevano impedire al pubblico a ciò non dassero la contribuzione alli Francesi» (40 mila scudi in denaro). Soltanto alla sera, al secondo tentativo, al Vescovo di Cesena era riuscito di fermare i rivoltosi: «i cattivi deposero le armi. Alcuni forastieri, e fra questi molti forlivesi, erano venuti in Cesena chiamati dai suddetti sollevati quali fu gran fatica a rimandarli alla loro terra». Il 30 giugno ci fu l'assalto al carrozzino dell'aiutante del generale Verdier, con la sua cattura: quando per ottenerne la liberazione il generale Augerau minacciò il sacco a Cesena, quell'aiutante era già stato rilasciato.
    Per paura dell'imminente arrivo dell'armata francese, «una gran parte de' buoni cittadini si darono alla fuga dalla città andandosi a ricoverarsi sui più alti monti», imitati dai villani che abbandonarono la cura dei campi e se ne fuggirono «chi da una parte chi dall'altra». Tutta colpa dei giacobini italiani e delle loro «secrete intelligenze» con il nemico, secondo don Sassi. Chi era rimasto in città, se ne scappò all'arrivo dei soldati di Napoleone, seguendo l'esempio del rifugio «sulle più alte montagne». Un mugnaio «fuggendo precipitosamente schioppò sulla strada di San Marino».
    Il 4 luglio era stata consegnata ai francesi la contribuzione della città di Rimini. Il 26 giugno si era avvertito il popolo con una notificazione, in cui, garantendo che le truppe francesi avevano fino ad allora rispettato Religione, proprietà e persone, si raccomandava «al Popolo di rimanere quieto, e di conservare tutto il buon'ordine per non esser egli stesso responsabile di quanto potesse avvenire, e per di lui colpa, di cui si esigerebbe la più rigorosa ragione». Il 28 giugno un «Avviso» del Segretario municipale rendeva noto ai «generosi Cittadini» che per la consegna di ori ed argenti richiesti dai francesi, la Comunità riminese avrebbe corrisposto un frutto del cinque per cento.
    Il 7 luglio le truppe di Augerau avevano messo a ferro e a fuoco e saccheggiata la città di Lugo, ribellatasi ai francesi ed anche all'appello alla moderazione del vescovo di Imola, Cardinale Chiaramonti. Per tutta la Romagna si erano sparse le popolazioni in fuga (gente di ogni sesso e condizione, e turbe di contadini raccapricciati dallo spavento), giungendo anche a Rimini, per andar verso Pesaro o alla montagna.
    Si ebbe paura che qualcosa di simile potesse capitare anche alla nostra città. Un «falso allarme» aveva indotto «i Contadini delle vicine Campagne, e gli Abitanti de' Luoghi limitrofi ad abbandonare le rispettive Case, ed incombenze»: la «Pubblica Rappresentanza» il 9 luglio si era preoccupata di avvertire con una notificazione molto diversa nei toni da quella appena ricordata del 26 luglio, che «i Popoli amutinati, incapaci di resistere alla forza dell'Armata Francese, hanno dovuto cedere colla perdita del proprio sangue, col sagrifizio della Patria, e delle proprie sostanze». Occorreva stare «nella dovuta rassegnazione», senza dar «corpo a sospetti», nella «lusinga di veder quanto prima evacuata questa Provincia di Romagna dalle Truppe Francesi».
    Il Cardinal Legato aveva fatto ritorno a Ravenna il 18 luglio. Tutto dunque era tranquillo? «La corte di Roma», secondo il faentino don Saverio Tomba, «uditi i vantaggi degli Austriaci sul Reno conseguiti, e l'accrescimento delle forze imperiali verso l'Italia, che davano risoluti segni di voler recuperare gli Italiani possedimenti, cominciò a detestare gli umilianti articoli della tregua come nei giorni dello spavento li aveva prudentemente ricevuti». In settembre il governo del Papa aveva appreso di «un tradimento tramato dai francesi» ed aveva rotto le trattative di pace in corso con Parigi a Firenze, cercando di «stabilire a Vienna un trattato di alleanza». Napoleone aveva minacciato: «Infelici Ravenna, Faenza, Rimini».
    Il resto lo abbiamo già raccontato: il Pontefice chiamava a raccolta i sudditi «a difesa dei suoi Stati» ed ordinava «guerra difensiva», nell'attesa che a rompere la tregua fosse la tracotanza francese. Allora, segretamente, anche nella Diocesi di Rimini ci si preparò al mutamento della situazione. Si poté così far affiggere la mattina del primo febbraio '97 un piccolo manifesto che, prevedendo l'evoluzione dei fatti, era stato redatto e fatto comporre dal tipografo in tutta tranquillità: il foglio è senza firma e senza luogo di stampa, oltre che senza data, ma (come già si è detto) viene attribuito al Vescovo Ferretti. Il testo lungo e meditato, non un semplice proclama buttato giù a tambur battente, richiama le posizioni assunte dal Pontefice il quale «non dubita, che li suoi sudditi proseguiranno ad essere animati da que' sentimenti di fedeltà, di attaccamento, e di coraggio, che con tanta gloria han dimostrati sin'ora».
    In caso d'invasione francese, secondo il volere del Santo Padre, i sudditi avrebbero dovuto apprestarsi «alla più valida resistenza e difesa». Il Papa garantiva che si sarebbe opposto all'avanzata napoleonica «con tutte quelle forze, ed in quella più energica maniera, che gli sarà possibile». All'occorrenza, secondo le disposizioni romane, precisava il manifesto, si sarebbe suonata campana a martello, ed i cittadini avrebbero preso l'armi, levandosi in massa, a coadiuvare la «Truppa Regolata», e ad «affrontare il Nemico con quel coraggio, e con quel valore, che ispira ad un Cattolico la Fede, ad un buon Cittadino l'onor della Patria, ed all'uomo la conservazione di se stesso, e di quanto ha di più caro sù questa Terra».
    Dopo la fuga del Vescovo, avvenuta all'alba del 2 febbraio, a guidare la Chiesa riminese è rimasto il canonico Filippo Baldini, pro Vicario Generale, che la sera dello stesso giorno è costretto dalla Municipalità a firmare una dichiarazione di smentita del proclama apparso quella mattina: «In mancanza di monsignor Vescovo io qui sottoscritto dò autorità all'ill.mo Magistrato di far sapere a tutti li Parochi, e Conventi di tutta questa Diocesi di non toccar campana a martello per l'unione di popolo armato senza ordine preciso del suddetto Ill.mo Magistrato o di me sottoscritto».
    La stessa sera il Segretario della Municipalità pubblica questa «Notificazione»: «Rimane ora abbandonata la nostra Città dai Signori Superiori [Governatore e Vescovo], che providamente la reggevano. Appartiene perciò alla Pubblica Rappresentanza di prenderne le redini, ed ai buoni Cittadini di prestarsi generosamente ai suoi bisogni». Era il classico vuoto di potere in cui tutto era possibile. Il primo provvedimento che la «Notificazione» suggerisce è di costituire subito, per la comune tranquillità, una Guardia Civica volontaria.
    Il giorno 3 il pro Vicario Generale invia ai parroci questa lettera: «Nelle attuali critiche circostanze non essendovi cosa, che più interessi la salvezza della Patria, e de Cittadini quanto la tranquillità, né che più la esponga a pericolo di un ardore intempestivo, di cui altrove ci sono intesi i perniciosi effetti, nell'assenza dell'Ill.mo e R.mo Monsignor Vescovo ma colle debite autorizzazioni dichiaro di non dovere [cancellato a penna: «per ora»] aver alcun effetto, il Proclama divulgato per l'unione di gente armata al tocco di Campana a martello, ed espressamente proibisco detto segno a chiunque in qualsivoglia caso senz'ordine mio preciso in iscritto sotto le maggiori pene».
    Implicitamente si riconosceva che il «Proclama divulgato» proveniva da fonte autorevole e non da orditori di trame di rivolta che, in caso contrario, sarebbero stati chiamati in causa ed additati al pubblico disprezzo. Il canonico Baldini anticipa le direttive che il 4 febbraio l'Arcivescovo di Ravenna impartisce a tutti i Vescovi della Provincia: adoprarsi con una lettera pastorale per insinuare «sentimenti di tranquillità e di pace» in tutto il clero e nei fedeli. Il canonico Baldini, il segretario municipale e soprattutto l'Arcivescovo di Ravenna usano la parola «tranquillità» più come auspicio che come termine capace di indicare la condotta da adottarsi in momenti così terribili.
    Intanto i francesi avvertono i romagnoli che hanno versato «soccorsi» al Papa «per continuare una guerra» che li avrebbe condotti alla totale rovina: la Repubblica pretende da loro subito metà della stessa cifra, con l'impegno di pagare l'altra metà «di qua ad un mese».
    Dopo i «felici successi delle Truppe Francesi contro gl'Insorgenti Montanari» alla fine di marzo, Martinelli ha polemizzato: fu soltanto «l'affare di mezz'ora» l'attacco a Santarcangelo contro un'«orda di banditi», la cui azione, «ultimo sforzo della Romana debolezza», «non merita l'onore della nostra paura». La Giunta di Difesa della Cispadana accusa Martinelli di essere sempre stato uno sfrontato doppiogiochista: «voi antico Calunniatore del Governo [romano], e deciso fautore di tutte le novità», siete stato sempre protetto e favorito; «quando tutta la Romagna sapeva, che voi eravate alla testa di tutti i complotti, adunanze, conventicole contro il Principato; quando i Superiori n'erano informati; quando il popolo, perfino le Donnicciuole vi mostravano a dito, come il nemico del Governo Pontificio; voi pacificamente ve ne stavate in casa sicuro del fatto vostro: in tempi di pericolo, e di qualche energia del Governo contro i Novatori voi trovaste il modo di salvarvi ad onta delle declamazioni, che facevate fare dai Neofiti vostri».
    Con segreti maneggi ed opportune raccomandazioni mentre dirigeva «operazioni arcane», Martinelli ha evitato «processi ben meritati». Egli è stato il maggior nemico del Principato, un seduttore del Popolo, un segreto macchinatore di novità nel Governo: «I Superiori della Provincia lo sapevano, lo vedevano, lo toccavano con mano: ognuno si meravigliava, che voi respiraste impunemente l'aria della vostra patria da voi corrotta e nella massima e nel costume: nei giorni, che vi accovacciavate per timore di essere scoperto, e per avere ozio sicuro ad oggetto di deludere l'altrui vigilanza, come nei giorni, che persuaso della vicina vostra risurrezione radunavate il vostro consiglio, e presiedevate alla Loggia rustica». Questo accenno alla «Loggia rustica» pare indicare in Martinelli un esponente della Massoneria: nella quale si potrebbe ipotizzare la garante di tutta l'attività politica svolta dal conte riminese e che non risultava gradita alla Giunta di Difesa. Il dissidio tra la Giunta e Martinelli potrebbe infine confermare l'esistenza di due anime all'interno del movimento giacobino locale.
    Certo è che, prima della conquista napoleonica, Martinelli aveva potuto viaggiare tranquillamente fra la Romagna papalina e la Cispadana, mantenendo ottimi rapporti con il Legato e con i francesi. Nello stesso '97, nonostante le pessime notizie che circolano sul suo conto, diventa presidente dell'Amministrazione Centrale romagnola, e Seniore del Dipartimento del Rubicone nella Cisalpina, oltre che candidato alla prestigiosa carica di ambasciatore presso la Corte di Vienna, che non accetterà per motivi di salute.
    Mons. Ferretti ritorna segretamente a Rimini il 13 aprile, dopo essersi aggirato ed occultato per le montagne vicine, ma viene subito arrestato nella sua Residenza, ove se ne sta rinchiuso per più giorni. A liberarlo ci pensa il Generale Comandante della provincia, Sahuguet, a cui il Vescovo offre un suntuoso banchetto per ringraziamento e per evitare ulteriori fastidi.

    1797, i francesi a Rimini, «Pagine di Storia & Storie», III, 7, supplemento a «Il Ponte», Settimanale cattolico riminese, XXII (1997), 7, pp. 1-8.
    Sull'argomento cfr. Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini. Saggio di Antonio Montanari